Le conseguenze del matrimonio interreligioso

Un saggio evidenzia un maggiore tasso di separazioni e divorzi e la diminuzione della pratica religiosa

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Nell’ultimo decennio, negli Stati Uniti, il 45% di tutti i matrimoni sono stati celebrati tra persone di differenti fedi religiose.

Un libro appena pubblicato per Oxford Press, Til Faith Do Us Part: How Interfaith Marriage is Transforming America (Finché la fede non vi separi: come il matrimonio interreligioso sta trasformando l’America), di Naomi Schaefae Riley, indaga sugli effetti che questo produce, sia sulla vita coniugale che sulla pratica religiosa.

L’autrice scrive sull’argomento con cognizione di causa, forte della sua esperienza personale, essendo lei stessa di famiglia ed educazione ebraica, sposata ad un afro-americano cresciuto in una comunità di Testimoni di Geova, sebbene abbia rinnegato questa religione dagli anni del college.

Basandosi su vari sondaggi ed indagini, Riley ha osservato che il lato positivo dei matrimoni interreligiosi è rappresentato dal fatto che le fedi più diverse stanno diventando parte integrante della società americana. Il rovescio della medaglia sta negli esiti spesso infelici e instabili di questo tipo di matrimoni.

Uno dei principali problemi rilevato dalla studiosa è che “le coppie interreligiose tendono a sposarsi senza pensare alle implicazioni delle loro differenze di credo”.

In merito alla sua indagine, Riley ha ricordato che un sondaggio del 2001 rilevava che il 27% degli ebrei, il 23% dei cattolici, il 39% dei buddisti, il 18% dei battisti, il 21% dei musulmani e il 12% dei mormoni, erano sposati con una persona di diversa identità religiosa.

Un altro interessante trend identificato dall’autrice consiste nella maggior frequenza di matrimoni interreligiosi tra le coppie più mature. Secondo un sondaggio realizzato dalla stessa Riley, la percentuale dei matrimoni interreligiosi era del 58% delle coppie sposatesi tra i 26 e i 35 anni, quindi il 10% in più rispetto alle coppie più giovani.

Il periodo che intercorre tra il momento in cui un figlio lascia la famiglia e il matrimonio di quest’ultimo, è solitamente un “tempo morto sul piano religioso”, spiega Riley. Spesso il matrimonio coincide con il momento in cui gli adulti riprendono ad andare in chiesa.

La studiosa afferma anche che molta gente ritiene sia importante che le coppie condividano gli stessi valori, a prescindere dalla religione professata.

Il concetto di valori comuni è, comunque, un’idea assai generica e Riley si domanda se si tratti di una base abbastanza solida per edificare un matrimonio felice.

La sostanza e la specificità dei valori viene dalla religione ma, aggiunge l’autrice, per andare d’accordo, molti membri di coppie interreligiose “semplicemente smettono di praticare con assiduità i riti della propria religione”.

“Coloro che si sposano con persone dalla fede diversa, tendono realmente a prendere la propria fede con più leggerezza, quando non arrivano a perderla del tutto”, osserva Riley.

Ciononostante, prosegue la studiosa, “la fede è un’arma a doppio taglio” ed eventi come la nascita di un figlio, la morte di un proprio caro o la perdita del lavoro possono scatenare il desiderio di ritornare alla fede con la quale si è cresciuti.

Tuttavia, pur essendo la fede un fattore importante nella vita di una persona, ciò che risalta nell’analisi di Riley è la mancanza di una seria discussione tra i coniugi in merito alle loro prospettive sulla religione. L’autrice ha rilevato che più della metà delle coppie interreligiose non discute mai prima del matrimonio su quale religione attribuire agli eventuali figli.

Perché avviene questo? Per l’attuale tendenza a favorire la tolleranza e non voler discriminare? Perché la gente non considera la religione come un aspetto determinante nelle proprie relazioni affettive?

Il fenomeno apporta conseguenze anche per i figli. Un sondaggio del 2006 mostra che il 37% delle persone cresciute da genitori di diversa fede religiosa frequenta la pratica religiosa settimanale, mentre, per quanto riguarda i figli di genitori del medesimo credo, questa percentuale sale al 42%.

Un’influenza importante è relativa al fatto se i genitori hanno concordato se educare i figli ad una particolare religione. Se ciò avviene, e se il genitore che condivide la fede con il figlio è praticante, i figli sono dunque più propensi a praticare la loro fede.

In merito al divorzio, Riley conclude che i matrimoni religiosamente misti sono più a rischio. Un sondaggio del 2001 rileva che, su 35000 intervistati, le coppie miste erano tre volte più a rischio di separazione o divorzio rispetto alle coppie omogenee.

Difatti, commenta Riley, molti leader religiosi da lei consultati, consigliano il matrimonio con persone della stessa fede, sia per la preservazione della fede stessa, sia per la solidità del matrimonio.

Nel suo capitolo conclusivo, Riley osserva che il matrimonio interreligioso “è spesso una storia di competizione leale”.

La gente può accantonare la propria vita religiosa per molti anni, ma alla fine l’affiliazione religiosa originaria riemerge.

Il trend del matrimonio interreligioso continua a salire, ammette Riley e non mostra segni di cedimento.

Al di là dell’impatto sulle coppie, questa tendenza avrà un impatto sulle comunità religiose. Molte di queste sperimenteranno un declino nell’affiliazione, osserva Riley, in modo particolare quelle che non accettano facilmente il matrimonio interreligioso.

Una raccomandazione che la studiosa fa, è che i futuri sposi, con il sostegno delle rispettive comunità religiose, discutano più approfonditamente le proprie differenze di credo. Un suggerimento molto utile, in particolare in considerazione dei problemi che Riley ha rilevato nella sua indagine.

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Fr. John Flynn

Australia Bachelor of Arts from the University of New South Wales. Licence in Philosophy from the Pontifical Gregorian University. Bachelor of Arts in Theology from the Queen of the Apostles.

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