Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture liturgiche per la XXVII.ma domenica del Tempo Ordinario – Anno C.
Come di consueto, il presule propone anche una lettura patristica.
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LECTIO DIVINA
La Fede è luce
Rito romano
XXVII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 6 ottobre 2013
Ab 1,2-3;2,2-4; Sal 94; 2Tm 1,6-8.13-14; Lc 17,5-10
Fede come granello di senape[1]
Rito ambrosiano
VI Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore
1Re 17,6-16; Eb 13,1-8; Mt 10,40-42
La missione degli apostoli prosegue quella di Gesù.
1) Una questione di qualità non di quantità.
La Parola di Dio proposta in questa domenica indica che l’annuncio missionario ha queste fondamentali caratteristiche: la tenacia e l’umiltà. Infatti, molto chiaramente Gesù indica ai suoi apostoli che il cammino -da percorrere per essere missionari con lui e dietro i suoi passi- deve essere fatto con una fede tenace e una umiltà che gratuitamente si mette a servizio dell’annuncio della lieta ed amorosa verità evangelica: il Regno di Dio è la Misericordia del Padre.
Davanti alla richiesta di mettere le loro vite nelle mani del Redentore, per servire il suo amore, i discepoli si sentono inadeguati e quindi chiedono a Gesù: “Signore, aumenta la nostra fede” (Lc 17, 5).
Con il paragone del granello di senape e del gelso che le tempeste non possono sradicare dalla terra perché è tenacemente radicato, Gesù vuole insegnare che di fede non ne occorre tanta come a volte si pensa. Ne basta poca, purché vera. Ebbene, un briciolo di fede vera può sradicare questa pianta, perché un po’ di fede è più forte di tante radici.
Sviluppando il paragone, possiamo dire che la fede è un radicarsi stabilmente in Dio. E questo radicamento è questione di qualità non di quantità, di autenticità non di sforzo. Questo affidamento autentico a Lui poi si unisce all’accettazione di un progetto calcolato sulle possibilità di Dio e non sulle nostre.
Dopo l’insegnamento non sulla quantità ma sulla forza della fede (ne basta un briciolo per sradicare un albero), ecco una parabola (Lc 17, 7-10) che non è certo priva, a prima vista, di risvolti umanamente irritanti. Forse che Dio si comporta come certi padroni incontentabili, che sempre chiedono e pretendono, e non danno un attimo di pace ai loro servitori, che devono essere sempre e comunque a disposizione del padrone?
No. Con un modo di parlare un po’ paradossale ma chiaro Gesù insegna che la forza del Vangelo risiede nel servizio fedele di coloro, che hanno accettato l’amore di Dio, che si sono radicati nel Figlio e che condividono il Verbo fatto carne nella potenza docile dello Spirito. La fede permette un sapere autentico su Dio che coinvolge tutta la persona umana: è un “sàpere”[2], cioè un conoscere che dona sapore alla vita, un gusto nuovo d’esistere, un modo gioioso di stare al mondo.
La fede si esprime nel dono di sé per gli altri, nella fraternità che rende solidali, capaci di amare, senza calcolo e senza pretese: umilmente. Nel vangelo di oggi Gesù ci ridice:“Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: «Vieni subito e mettiti a tavola»? Non gli dirà piuttosto: «Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu»? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: «Siamo servi inutili [3]. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare»” (Lc 17, 7-10). Come si vede, Cristo è chiaro con i suoi apostoli (ed oggi con noi), precisa chi è il signore e chi il servo nell’opera da svolgere, quali sono i criteri da adottare nell’eseguire il comando, quale ricompensa spetta a chi compie il suo servizio. Ma non dimentichiamo che nell’ultima cena Gesù fece l’esatto contrario dei padroni della terra. Lui, il Signore del Cielo, invitò ed invita a tavola i servi che sono diventati suoi amici, che stupiti si lasciano lavare i piedi da Lui, l’Amico e Signore. Questo è l’amore stupefacente di Dio per noi.
2) La fede è missionaria.
Ecco il perché:
“La fede nasce nell’incontro con il Dio vivente, che ci chiama e ci svela il suo amore, un amore che ci precede e su cui possiamo poggiare per essere saldi e costruire la vita”(Papa Francesco, Lett. Enc. Lumen Fidei, n. 4): un Amore che ci lava persino i piedi e che ci chiede di portarlo nel mondo intero come missionari della Carità.
La fede è un affidarsi a Dio, alla sua parola, alla sua guida sulle strade oscure e impervie dell’esistenza. Quindi come missionari della Verità dobbiamo portarla a tutti gli uomini perché sappiano a chi vale la pena affidarsi e chi dà senso alla vita.
La fede è sapere che all’origine di tutto c’è un Padre, che ci ha tratto dal nulla per amore. Non siamo venuti al mondo per sbaglio, senza che nessuno ci abbia né previsti né voluti. Noi non siamo in balìa di un caso gelido e cieco: siamo nelle mani di Uno che ci vuol bene e non ci abbandona mai, “il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1 Tm 2,4). Lo scopo per cui Lui è venuto l’ha già definito Cristo stesso: “Sono venuto affinché abbiano la vita eterna: che conoscano Te, vero Dio, e Colui che hai mandato, Cristo Gesù” (Gv 17,3-4).
La fede è luce che fa vedere le cose con gli occhi di Cristo, giudicare le idee e gli accadimenti alla luce del suo insegnamento, diventare capaci di un nuovo modo d’amare gli altri, che è lo stesso modo limpido e disinteressato con cui Lui li ama. La forza dell’annuncio del Vangelo non risiede nell’elaborare nuove strategie d’impatto mediatico nel nord del mondo o nel progettare interventi umanitari nel sud della terra. La forza dell’evangelizzazione è nel nostro essere missionari, che agiamo umilmente, con la consapevolezza di chi si sa “servo inutile”, io tradurrei: servo che lavora gratuitamente (cfr nota 3), ma che cosciente di essere come il lievito nascosto nella farina o come il chicco di senape, che non differisce da un granello di sabbia, pur avendo in sé un’energia vitale così grande da dare origine a un albero, le cui fronde diventano rifugio e conforto per i passerotti che fuggono dalla tempesta della vita.
La fede è rendersi conto che lo Spirito Santo, mandatoci dal Signore risorto, agisce nei nostri cuori, ci aiuta a distinguere il bene dal male, ci sprona a camminare sulla strada diritta, ci induce a comportarci – in un mondo litigioso e duro – da uomini di misericordia e di pace. Lo scopo della fede che ci è data è la missione: e la missione non è per l’Aldilà, ma è per l’Aldiquà.
La fede è la persuasione che ci è data la gioia di appartenere alla Chiesa, Sposa e Corpo di Cristo, Famiglia dei figli di Dio e Luogo certo, saldo e sicuro dell’incontro col Padre.
Non c’è nulla di più decisivo per l’uomo, di più gratificante e di più ragionevole della virtù teologale della fede. E non c’è nulla di più prezioso da fare oggetto della nostra preghiera e della nostra missione di evangelizzatori e evangelizzatrici.
La Vergine consacrata è al servizio di questa missione d’evangelizzazione vivendo la sua vocazione
alla santità attraverso una consacrazione a Dio fatta a Sua lode e per la salvezza del mondo. Esse non sono chiamate a fare ma a essere e ci ricordano che l’importante non è parlare o fare ma comunicare ciò che siamo.
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LETTURA PATRISTICA
Dalle « Omelie » disan Giovanni Crisostomo, vescovo
(Om. 6 sulla preghiera fatta con fede; PG 64, 462-466)
La preghiera, o dialogo con Dio, è un bene sommo. È, infatti, una comunione intima con Dio. Come gli occhi del corpo vedendo la luce ne sono rischiarati, così anche l’anima che è tesa verso Dio viene illuminata dalla luce ineffabile della preghiera. Deve essere, però, una preghiera non fatta per abitudine, ma che proceda dal cuore. Non deve essere circoscritta a determinati tempi od ore, ma fiorire continuamente, notte e giorno.
Non bisogna infatti innalzare il nostro animo a Dio solamente quando attendiamo con tutto lo spirito alla preghiera. Occorre che, anche quando siamo occupati in altre faccende, sia nella cura verso i poveri, sia nelle altre attività, impreziosite magari dalla generosità verso il prossimo, abbiamo il desiderio e il ricordo di Dio, perché, insaporito dall’amore divino, come da sale, tutto diventi cibo gustosissimo al Signore dell’universo. Possiamo godere continuamente di questo vantaggio, anzi per tutta la vita, se a questo tipo di preghiera dedichiamo il più possibile del nostro tempo.
La preghiera è luce dell’anima, vera conoscenza di Dio, mediatrice tra Dio e l’uomo. L’anima, elevata per mezzo suo in alto fino al cielo, abbraccia il Signore con amplessi ineffabili. Come il bambino, che piangendo grida alla madre, l’anima cerca ardentemente il latte divino, brama che i propri desideri vengano esauditi e riceve doni superiori ad ogni essere visibile.
La preghiera funge da augusta messaggera dinanzi a Dio, e nel medesimo tempo rende felice l’anima perché appaga le sue aspirazioni. Parlo, però, della preghiera autentica e non delle sole parole.
Essa è un desiderare Dio, un amore ineffabile che non proviene dagli uomini, ma è prodotto dalla grazia divina. Di essa l’Apostolo dice: Non sappiamo pregare come si conviene, ma lo Spirito stesso intercede per noi con gemiti inesprimibili (cfr. Rm 8, 26b). Se il Signore dà a qualcuno tale modo di pregare, è una ricchezza da valorizzare, è un cibo celeste che sazia l’anima; chi l’ha gustato si accende di desiderio celeste per il Signore, come di un fuoco ardentissimo che infiamma la sua anima.
Abbellisci la tua casa di modestia e umiltà mediante la pratica della preghiera. Rendi splendida la tua abitazione con la luce della giustizia; orna le sue pareti con le opere buone come di una patina di oro puro e al posto dei muri e delle pietre preziose colloca la fede e la soprannaturale magnanimità, ponendo sopra ogni cosa, in alto sul fastigio, la preghiera a decoro di tutto il complesso. Così prepari per il Signore una degna dimora, così lo accogli in splendida reggia. Egli ti concederà di trasformare la tua anima in tempio della sua presenza.
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NOTE
[1] Un granello di senape è piccolo come una pulce, minuscolo, quasi invisibile. Ma una volta seminato velocissimamente cresce, e nell’arco di un anno quel piccolo seme può divenire un albero anche di 3-4 m. Il gelso, invece, è un albero secolare che può vivere anche 600 anni, ha radici profonde, che si abbarbicano nella terra. E’ un albero molto difficile da sradicare, per questo è il simbolo della solidità, della staticità, dell’inamovibilità
[2] Verbo latino che vuol dire: gustare, sentire il sapore, poi in modo figurato avere il gusto delle cose superiori ai sensi, quindi essere saggio, per cui da sàpere derivano anche queste due parole:“sapore”, “sapienza”.
[3] “Inutili” è la traduzione letterale e tradizionale del termine greco “acreios”, ma forse il significato è più da intendersi nel senso di “semplici servitori” o “soltanto dei poveri servi”.
La sottolineatura qui è più sulla gratuità che sulla utilità: non prendiamola “alla lettera”, ma leggiamo la parabola nel senso spirituale. È difficile, infatti, pensare, sempre e in ogni caso, che Dio abbia creato degli uomini “inutili”, ma ancor più se questi dimostrano di aver mantenuto un comportamento giusto e corretto.
In ogni caso, una volta che abbiamo compiuto il nostro dovere e abbiamo detto: “siamo servi inutili”, possiamo aggiungere: “tuttavia abbiamo un amico che ci ama più di quanto noi possiamo immaginare”. Per questo siamo sicuri nelle sue mani. Per questo la Beata M. Teresa di Calcutta diceva di se stessa: “Non sono che una piccola matita nelle mani di Dio