Riportiamo di seguito la testimonianza resa il 25 aprile scorso dal cardinale Vinko Puljić, arcivescovo di Sarajevo, nella prima giornata della Convocazione Nazionale del Rinnovamento nello Spirito Santo (RnS), in corso a Rimini.
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Carissime sorelle, Carissimi fratelli,
sono lieto di salutarvi nel nome del Signore Gesù e di porgerVi la mia testimonianza in questa nuova Convocazione del Rinnovamento nello Spirito. Nell’Anno della Fede voglio con Voi dare onore allo Spirito Santo, raccontandovi come ha guidato la mia vita e la vita del popolo che Dio mi ha affidato.
Bosnia ed Erzegovina è un Paese che porta le difficili esperienze storiche. Già nel 1463 è caduta sotto l’impero Ottomano e questa occupazione è durata 400 anni. Prima dell’arrivo degli Ottomani, il regno di Bosnia ed Erzegovina era abitato soltanto dai cattolici. Con l’occupazione molti cattolici sono fuggiti impauriti dall’invasione, molti sono anche rimasti – e a loro dobbiamo rendere omaggio perché hanno salvato la fede con il sostegno dei frati francescani. Sotto la forte pressione Ottomana molti si sono convertiti all’Islam.
Dopo l’Impero Ottomano la gerarchia ecclesiastica in Bosnia ed Erzegovina si è rinnovata, così Sarajevo è stata confermata come la sede della Metropolia con Banja Luka, Mostar-Duvno e Trebinje-Mrkan come le Diocesi suffraganee.
Abbiamo sopravissuto agli avvenimenti dolorosi della Prima e della Seconda guerra mondiale e poi è arrivato il comunismo.
In tutte queste difficoltà la più importante è stata la famiglia e la fede che si è mantenuta nelle famiglie. Essa si è alimentata con le permanenti preghiere domestiche. Questa è stata anche la forza delle vocazioni spirituali. Lì, dove si prega e confida in Dio, si crea il luogo privilegiato per far germogliare i nuovi semi delle vocazioni.
Nonostante le situazioni difficili, la Chiesa in queste terre non ha patito le mancanze delle vocazioni, proprio come dicevo prima, le famiglie sono state il nido, dove crescono le vocazioni.
Personalmente, durante il periodo del comunismo in cui sono cresciuto, porto la bellissima esperienza della comunione e della preghiera familiare.
La mia famiglia è numerosa. Io sono il dodicesimo figlio, nato alla fine della Seconda guerra mondiale. Anche se sono cresciuto in tempi di crisi, quando non erano sufficienti né pane né indumenti, tanto amore e l’unità familiare sono stati due elementi che non ci mancavano mai; direi che sono per un bambino le cose più importanti.
Nella nostra casa dimorava sempre la parola della confidenza in Dio. Questa confidenza in Dio, che i miei genitori avevano, ha trasmesso una sicurezza a noi bambini, così che potevamo crescere nell’amore e nella sicurezza che ci davano i genitori.
Nella casa si pregava ogni giorno e poi si parlava tra i famigliari. In quel periodo non esisteva il catechismo, né parrocchiale né scolastico, perché il sistema comunista non lo permetteva, ma la fede, l’ho assorbita dagli occhi dei miei genitori. Il loro insegnamento è stato quello del cuore che si agganciava direttamente al nostro cuore di bambini.
Crescendo ho incontrato un bravissimo sacerdote, che ha svegliato il desiderio in me di essere come lui. Quello che mi ha colpito è stata la pazienza, l’amore. Anche se ha sofferto molto, non ho sentito mai dalla sua bocca le parole dell’oddio o del rammarico.
Nel 1970 sono diventato sacerdote. Con grande entusiasmo ho lavorato nella parrocchia, poi come l’educatore degli seminaristi e poi di nuovo nella parrocchia.
Sono stato ordinato vescovo dal Beato Giovanni Paolo II il 6 gennaio 1991 a Roma, poco prima della guerra in ex Jugoslavia. Siccome è arrivata anche dalle nostre parti la democrazia, ho pensato di dedicarmi interamente ai nuovi programmi nella Chiesa.
Poco prima della guerra in Bosnia ed Erzegovina c’erano circa 820.000 cattolici in quattro Diocesi. L’arcidiocesi di Sarajevo è la più grande, e aveva 528.000 cattolici in 150 parrocchie.
Nell’aprile del 1992 è iniziata la guerra a Sarajevo che poi si è diffusa in tutto il Paese. Decisi di rimanere a Sarajevo nella sede dell’Arcidiocesi. La città era diventata come un carcere, circondata e bloccata da tutte le parti, mentre dai monti era sempre bombardata e i cecchini dall’altra parte del fiume – parte della città occupata – non si fermavano mai.
Siamo rimasti senza energia elettrica, senza acqua, senza riscaldamenti, mentre i rifornimenti alimentari ogni giorno mancavano di più. Tutte le finestre sono state rotte dalle detonazioni. La paura è entrata dappertutto. Ogni giorno guardavo il sangue e i morti, le grida delle persone impaurite.
Pian piano ho cominciato a scoprire la mia missione nel testimoniare la speranza che emergeva dalla fiducia in Dio. C’era bisogno di consolare, incoraggiare e alzare la voce contro l’ingiustizia e la morte, per difendere la gente.
Per poter fare questo c’era bisogno di molta preghiera. Senza lo Spirito di Dio non c’è né forza né speranza. Anche se si viveva modestamente, non si poteva azzardare che mancasse la speranza nel buio della guerra. Per superare l’odio si doveva vivere la gioia che nasce dalla fede.
In secondo luogo ci siamo assunti l’impegno di fare il possibile per organizzare la sopravivenza attraverso gli aiuti caritatevoli, denunce contro l’ingiustizia, visite di consolazione, anche con pericolo di morte.
Oggi è difficile descrivere il significato di tutte queste cose. In tutti e quattro gli anni dell’assedio di Sarajevo ho vissuto con il popolo che è a maggioranza islamica. Ma si guardavano le persone e non le altre cose. Tante volte sono uscito dalla città per visitare e incoraggiare i sacerdoti – che si trovavano in altre zone ugualmente colpite dalla guerra, per dare le informazioni della situazione che si viveva dentro il Paese e la città di Sarajevo.
In quel periodo di guerra ho potuto sperimentare il significato di quella fede che ho ereditato dai genitori. La fiducia in Dio in ogni situazione. Per poter alimentare questa fede dovevo pregare molto. Facevo questo da solo, insieme con i sacerdoti e in comunità con i giovani.
Personalmente porto le conseguenze della guerra. Anche l’Arcidiocesi è stata distrutta. Dei 528.000 fedeli sono rimasti circa 190.000. Nel territorio dell’Arcidiocesi sono state distrutte circa 600 chiese e strutture ecclesiastiche. Le più devastate sono state le chiese, i conventi e le canoniche (case parrocchiali).
Dopo la guerra abbiamo avuto grande fiducia in Dio, una viva fiducia che si potesse incarnare nella vita quotidiana. Prima abbiamo aperto le Scuole interetniche per l’Europa. Lo scopo di queste scuole è costruire nei giovani lo spirito di tolleranza e di convivenza pacifica.
Seconda cosa, di cui si è sentito forte bisogno, è stata la ricostruzione del Seminario, perché senza i sacerdoti la Chiesa non può sopravvivere. Oggi abbiamo il Seminario Minore e Maggiore.
La Caritas ha sviluppato l’attività, di aiuto ai profughi, per permettere loro di ritornare alle loro case. Sempre di più aumentano i poveri, mentre i posti di lavoro sono sempre di meno.
Non siamo guariti dal comunismo, ma si dovevano curare anche quelle ferite della guerra. Anche in questa situazione, la famiglia ha avuto il ruolo principale – essa è la prima scuola della fede.
Per questo abbiamo deciso di mandare il sacerdote in ogni parrocchia devastata dalla guerra. I nostri sacerdoti hanno iniziato praticamente dalle ceneri.
Nessun Paese ci aiutato economicamente, mentre abbiamo avuto gruppi di benefattori. Grande aiuto ci è arrivato dall’Italia attraverso diverse organizzazioni parrocchiali e diocesane.
In conclusione, sto davanti a voi con un messaggio: Dio guida la Sua Chiesa. La Croce non è tragedia ma è la scuola d’amore. Tutte le difficoltà della vita sono le sfide nelle quali possiamo dimostrar
e con che spirito viviamo. Non dobbiamo chiuderci allo Spirito Santo che “rinnova la faccia della terra”. Egli cerca il nostro cuore per la nostra collaborazione.
Grazie per la Vostra attenzione e Dio benedica Voi, i Vostri Gruppi e Comunità del Rinnovamento, le Vostre famiglie.