"La varietà nella Chiesa non solo non nuoce alla sua unità, ma anzi, la manifesta"

Intervento del cardinale Sandri presso il Pontificio Collegio Pio Romeno

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Riportiamo di seguito l’intervento tenuto giovedì 18 aprile dal cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, durante l’apertura del ciclo di conferenze dedicato all’Anno della Fede ed organizzato presso il Pontificio Collegio Pio Romeno sul tema “Il Concilio Vaticano II e gli Orientali”.

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Beatitudine, Eccellenze, cari studenti del Collegio Pio Romeno e distinti partecipanti,

Ringrazio l’Ambasciatore di Romania presso la Santa Sede e il Rettore del Collegio Pio Romeno per questa lodevole iniziativa, che ho subito accolto mentre celebriamo l’Anno della Fede. Sono ben lieto di aprire la serie delle conferenze programmate in questa prospettiva e a tutti porgo il mio saluto cordiale.

Il titolo scelto lo conoscete: “Il Concilio Vaticano II e gli Orientali”. Debbo precisare che per Orientali in questa mia riflessione intendo gli orientali cattolici. Non sarà, però, un discorso riduttivo perché è proprio il Concilio a volerli come un ponte sul vasto mondo dell’Oriente cristiano, affidando ad essi la missione specifica di favorirne l’incontro e l’unità. Aggiungo che nel titolo si è omesso l’aggettivo “ecumenico” per essenzialità comunicativa, ma non si vuole in alcun modo mettere in secondo piano la peculiarità di un Concilio, diffusamente chiamato “pastorale” (e qui potremmo dedicare l’intera conferenza alle precisazioni!), il quale fu – grazie a Dio – veramente “ecumenico”. Come spiccatamente ecumenici, in questo primo cinquantennio dal suo inizio, sono stati i molti frutti che esso ha offerto alla chiesa e al mondo.

1. L’Oriente cristiano nei documenti conciliari

Al Vaticano II parteciparono quasi 200 orientali su oltre 2000 Vescovi latini. Essi si distinsero nella fase preparatoria come nelle discussioni in aula e poi nella redazione dei documenti desiderosi di offrire sull’Oriente cristiano un apprezzabile insegnamento a tutta la Chiesa, contenuto nei seguenti testi:

– La costituzione dogmatica Lumen Gentium al n. 23 sottolinea l’origine apostolica delle Chiese orientali e in particolare delle Chiese patriarcali.

– Il decreto Orientalium Ecclesiarum interamente dedicato alle Chiese orientali cattoliche (e ai nn. 24-29 nei rapporti con le Chiese ortodosse).

– Il decreto Unitatis Redintegratio, sull’Ecumenismo, riguardante direttamente le Chiese ortodosse e le Comunità ecclesiali provenienti dalla Riforma, nel n.17 si riferisce ai cattolici orientali.

Il decreto Christus Dominus, che illustra ai nn. 23 e 38 la sollecitudine pastorale richiesta ai Vescovi latini verso i fedeli orientali nelle rispettive diocesi e di quelli orientali nei cui territori esistono più Chiese di diverso rito.

Il decreto Presbyterorum Ordinis, infine, al n. 16 tratta del celibato e dei sacerdoti orientali uniti in matrimonio.

Alcuni Presuli orientali si distinsero per i toni vibranti dei loro interventi: il Cardinale Yosyf Slipyi, arcivescovo maggiore di Leopoli, ad esempio, quale confessore della fede, o il Patriarca maronita Meouchi, anche se emerge la figura del Patriarca greco-melchita, Maximos IV.

Al riguardo è disponibile una vasta bibliografia (« L’Eglise Grecque Melkite au Concile, discours et notes du Patriarche Maximos IV et des Prélats de son Eglise » Beytouth, 1967; il libro di Mons. Neofitos Edelby, metropolita greco-melkita di Aleppo, Padre conciliare, «Les Eglises orientales catholiques, Décret « Orientalium Ecclesiarum » Paris 1970, in cui si descrive l’iter della redazione dei diversi paragrafi del Decreto OE, come anche il suo Diario personale, pure pubblicato).

Ci fu persino la cosiddetta “giornata melchita” al Concilio per l’impulso coordinato di alcuni Presuli che richiamarono l’assente, cioè l’Ortodossia (anche se erano partecipanti quelli che chiameremmo ora i delegati fraterni delle altre chiese cristiane e comunità ecclesiali).

Il Patriarca ecumenico Atenagora lo riconobbe rivolgendosi a Maximos IV con queste parole: “nel Concilio avete parlato a nome nostro”. E questi, nella prefazione ad una raccolta di testi conciliari, indica le ragioni dell’interesse dei melchiti:

« le ragioni devono essere ricercate negli elementi provvidenziali della vocazione [dei melchiti], come anche nel clima di libertà che i Papi Giovanni XXIII e Paolo VI hanno saputo dare alle deliberazioni del Concilio. Come primo dato della nostra vocazione è l’Ortodossia orientale con la quale non abbiamo mai perso il contatto […] Abbiamo sempre riservato nel nostro pensiero e nei nostri cuori il posto dell’Assente, di questa Ortodossia dalla quale proveniamo e che non abbiamo mai rinnegato, ma che abbiamo sinceramente creduto di dover concludere in una unione con il Cattolicesimo romano: unione alla quale abbiamo aderito come si presentava allora davanti a noi […] La sollecitudine di mantenere il contatto con l’Ortodossia ci ha portati a nutrirci non solo dalle fonti esclusive del pensiero occidentale, ma si cercava sempre di risalire alle fonti viventi e vivificanti della verità cristiana, stabilendo il contatto specialmente con i Padri d’Oriente, conosciuti e vissuti attraverso una liturgia dove tutto il pensiero è condensato, e che abbiamo cercato di conservare puro da ogni deformazione. La nostra liturgia ci ha sicuramente fornito un grande contributo […]. Questo fatto ci ha permesso di essere dei testimoni di un pensiero complementare che cercava precisamente il Concilio. L’Occidente, dopo secoli di evoluzione unilaterale, era pervenuto al termine della sua riflessione teologica. Era giunto agli estremi dai quali non poteva ormai uscire senza il ritorno alle fonti bibliche e a quell’altra tradizione ecclesiale ed apostolica dell’Oriente, proprio per equilibrarlo, mitigarlo, completarlo; e abbiamo cercato di essere testimoni di questa altra tradizione nel Concilio Vaticano II, tanto fedeli che lo permetteva la nostra possibilità» (pag. VII-VIII).

Determinante fu, tuttavia, l’apporto dei Vescovi orientali ai due decreti fondamentali per l’Oriente cristiano: Orientalium Ecclesiarum e Unitatis redintengratio.

L’approvazione finale fu eclatante e mostra come lo Spirito Santo stesse preparando per la Chiesa intera la nuova “ora” dell’Oriente. Per Orientalium Ecclesiarum su 2149 votanti i placet furono 2110. Per Unitatis redintengratio su votanti 2148 i placet furono 2137.

Si noti la firma “sinodale” dei documenti: «Tutte e singole le cose, stabilite in questo decreto, sono piaciute ai Padri del sacro Concilio. E noi, in virtù della potestà apostolica conferitaci da Cristo, unitamente ai venerabili padri, nello Spirito Santo le approviamo, le decretiamo e stabiliamo; e quanto è stato così sinodalmente stabilito, comandiamo che sia promulgato a gloria di Dio». Seguono le firme del Papa Paolo VI e dei Padri.

I due decreti, nutrendosi dell’ecclesiologia della Lumen gentium, descrivono l’identità delle Chiese orientali nella comunione cattolica e la loro missione ecumenica. Essi costituiscono la fonte immediata della successiva codificazione canonica distinta da quella della Chiesa latina. Maximos IV si era del resto apertamente dichiarato contrario al progetto di un Codice di diritto canonico unico, temendo che «la disciplina latina sarebbe quasi integralmente imposta agli Orientali, cosa che significherebbe praticamente la “latinizzazione” pura e semplice dell’Oriente, contro la quale tanto gli Orientali quanto la Santa Sede lottano da lungo tempo».

Effettivamente, il 18 ottobre 1990, il Beato Giovanni Paolo II, avrebbe promulgato il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali (CCEO), distinto dalla codificazione latina.

2. Ma è su una autentica perla conciliare, ossia sul riconoscimento dell’origine apostolica delle Chiese cattoliche orientali, che deside
ro soffermarmi.

Anche se la maggior parte di esse risale al secondo millennio, data la rottura della comunione ecclesiale tra i Patriarchi orientali e la Sede romana avvenuta in vari periodi storici e non superata dalle numerose iniziative unioniste, le Chiese cattoliche orientali attingono alle fonti delle Chiese primitive e alla tradizione che viene dagli Apostoli e dai Padri.

La Costituzione dogmatica (LG 23) ne attribuisce l’origine alla divina Provvidenza:

«Per divina provvidenza è avvenuto che varie chiese, in vari luoghi fondate dagli apostoli e dai loro successori, durante i secoli si sono costituite in molti gruppi, organicamente uniti, i quali, salva restando l’unità della fede e l’unica divina costituzione della Chiesa universale, godono di una propria disciplina, di un proprio uso liturgico, di un patrimonio teologico e spirituale proprio […]. Questa varietà di chiese locali, fra loro concordi, dimostra con maggiore evidenza la cattolicità della Chiesa indivisa».

La peculiarità di questa perla consiste nella comunione piena con la Chiesa apostolica di Roma.

Il decreto Orientalium Ecclesiarum al n.2 le configura per tale motivo in seno alla Chiesa universale: «La Chiesa santa e cattolica, che è il corpo mistico di Cristo, si compone di fedeli, che sono organicamente uniti nello Spirito santo dalla stessa fede, dagli stessi sacramenti e dallo stesso governo e che unendosi in vari gruppi, congiunti dalla gerarchia, costituiscono le chiese particolari o riti. Vige tra loro una mirabile comunione, di modo che la varietà nella chiesa non solo non nuoce alla sua unità, ma anzi, la manifesta; è infatti intenzione della chiesa cattolica che rimangano salve e integre le tradizioni di ogni chiesa particolare o rito, e ugualmente essa vuole adattare il suo tenore di vita alle varie necessità dei tempi e dei luoghi».

Per “Chiesa universale” s’intende, perciò, la Chiesa di Cristo, costituita e organizzata in questo mondo come una società, ma che è mistero di comunione, segno dell’unità di tutto il genere umano e sacramento universale di salvezza. Questa Chiesa sussiste nella Chiesa cattolica governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui (cf. LG).

Il decreto OE – nel Proemio – assicura i cristiani cattolici orientali che «le istituzioni, i riti liturgici, le tradizioni ecclesiastiche e la disciplina della vita cristiana delle Chiese orientali sono oggetto di grande stima da parte della Chiesa cattolica».

Il motivo della stima consiste nel fatto che «esse sono illustri per veneranda antichità, e in esse risplende la tradizione che deriva dagli apostoli attraverso i padri e che costituisce parte del patrimonio divinamente rivelato e indiviso della chiesa universale».

Il Concilio perciò è «preso da sollecitudine per le Chiese orientali, che di questa tradizione sono testimoni viventi, desiderando che esse fioriscano e assolvano con nuovo vigore apostolico la missione loro affidata».

Non è un semplice auspicio sentimentale e commovente, bensì una deliberazione teologica e giuridica, che vincola sia la Santa Sede verso le Chiese orientali cattoliche, sia le Chiese orientali cattoliche stesse ad intra e ad extra.

Lo attesta il decreto sull’Ecumenismo al n. 17:«Questo sacro concilio, ringraziando Dio che molti orientali figli della Chiesa cattolica, i quali custodiscono questo patrimonio e desiderano viverlo con maggior purezza e pienezza, vivano già in piena comunione con i fratelli che seguono la tradizione occidentale (latina), dichiara che tutto questo patrimonio spirituale e liturgico, disciplinare e teologico, nelle diverse sue tradizioni appartiene alla piena cattolicità e apostolicità della Chiesa».

Dopo il Concilio si dovette chiarire la nozione di Chiesa orientale e di Rito, sempre grazie alla buona seminagione conciliare. Col codice orientale si passò, infatti, dalla concezione ritualista a quella ecclesiale. Una Chiesa orientale è un’assemblea di fedeli, cioè una realtà esistenziale, una entità organicamente strutturata e congiunta da una gerarchia propria, che l’autorità suprema della Chiesa riconosce come di diritto proprio (sui iuris). Insomma, un organismo vivente. Il Rito è il patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare, che si distingue per la cultura e le circostanze storiche dei popoli e che si esprime con il modo proprio di ogni Chiesa di celebrare e vivere la fede (cf. CCEO, canoni 27 et 28).

3. Chiese orientali e Chiesa latina formano l’unica Chiesa cattolica e perciò sono uguali in dignità e godono della parità di diritti e doveri

Fino al Vaticano II ancora si percepiva, infatti, il principio della praestantia ritus latini, che risaliva a Benedetto XIV (cost. apost. Etsi pastoralis del 26.5.1742; enc. Allatae sunt del 26.6.1755), benché la questione fosse già chiarita nei documenti pontifici a cominciare da Leone XIII.

Essa postulava la predominanza e la superiorità della Chiesa latina rispetto alle altre Chiese orientali. L’idea sottostante era che il solo rito liturgico latino fosse garante in pienezza della cattolicità della vera fede cattolica. Il Concilio in ?+ 3 instaurò una prospettiva nuova, dichiarando che «le Chiese, sia di oriente che d’occidente (la Chiesa latina), sebbene siano in parte tra loro differenti in ragione dei cosiddetti riti, cioè per la liturgia, per la disciplina ecclesiastica e il patrimonio spirituale, tuttavia sono in egual modo affidate al pastorale governo del Romano Pontefice, il quale per volontà divina succede al beato Pietro nel primato sulla Chiesa universale. Esse quindi godono di pari dignità, così che nessuna di loro prevale sulle altre per ragione del rito».

E concedendo la citata autonomia codiciale: «Il Concilio dichiara quindi solennemente che le chiese d’oriente come anche d’occidente hanno il diritto e il dovere di reggersi secondo le proprie discipline particolari, poiché si raccomandano per veneranda antichità, sono più corrispondenti ai costumi dei loro fedeli e più adatte a provvedere al bene delle loro anime» (OE 5).

Si dichiara in tal modo, una volta per tutte, che la Chiesa latina non è, nel Cattolicesimo, sinonimo di Chiesa universale, e che le sue stese leggi non sono le uniche della Chiesa universale. Esse non obbligano gli Orientali, come del resto il Codice orientale non obbliga i Latini, a meno che la Chiesa Latina non sia espressamente in essi menzionata. Il diritto canonico è così una delle principali e formali espressioni di questa “diversità nell’unità”, postulata come nota caratteristica della Chiesa cattolica voluta dal Vaticano II.

4. C’è un’ulteriore acquisizione da sottolineare: l’identità ecclesiale e rituale accompagna gli Orientali Cattolici ovunque!

Il Concilio esorta affinché «tutti gli Orientali sappiano con ogni certezza che possono e devono conservare sempre i loro riti liturgici legittimi e la loro disciplina, e che non dovrebbero essere apportati dei cambiamenti se non soltanto per motivi del loro progresso proprio e organico» (OE 6).

La nostra Congregazione ha, perciò, pubblicato il 6 gennaio 1996 un’Istruzione per l’applicazione delle prescrizioni liturgiche del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali onde assistere le Chiese Orientali nel compito di operare tale progresso “organico”, ossia rispettoso delle origini e del percorso compiuto nei secoli pur dialogando con i tempi nuovi nei termini tipici di un organismo vivente, quale venne percepita la Chiesa nel Concilio.

E’ la sfida della fedeltà: a Cristo e alla Chiesa, al vangelo immutabile, ma anche all’uomo e alla storia, che sono invece mutevoli; fedeltà alle origini ma anche al presente proiettato verso un futuro che l’oggi sta già edificando e che è sicuro se ben ancorato nei suoi stessi inizi.

Tanto più inderogabile diviene questa esigenza in conside
razione del fenomeno inarrestabile della emigrazione dai Paesi orientali, che è un autentico “segno dei tempi”.

Profondamente radicato nella visione conciliare, Benedetto XVI, nell’Esortazione Apostolica post sinodale «Ecclesia in Medio Oriente », firmata a Beyrouth il 14 settembre 2012, afferma:

«I Pastori delle Chiese orientali cattoliche sui iuris costatano, con preoccupazione e dolore, che il numero dei loro fedeli si riduce sui territori tradizionalmente patriarcali e, da qualche tempo, si vedono obbligati a sviluppare una pastorale dell’emigrazione. Sono certo che essi fanno il possibile per esortare i propri fedeli alla speranza, a restare nel loro paese e a non vendere i loro beni. Li incoraggio a continuare a circondare di affetto i loro sacerdoti e i loro fedeli della diaspora, invitandoli a restare in contatto stretto con le loro famiglie e le loro Chiese, e soprattutto a custodire con fedeltà la loro fede in Dio grazie alla loro identità religiosa, costruita su venerabili tradizioni spirituali. È conservando questa appartenenza a Dio e alle loro rispettive Chiese, e coltivando un amore profondo per i loro fratelli e sorelle latini, che essi apporteranno all’insieme della Chiesa cattolica un grande beneficio. D’altra parte, esorto i Pastori delle circoscrizioni ecclesiastiche che accolgono i cattolici orientali a riceverli con carità e stima, come fratelli, a favorire i legami di comunione tra gli emigrati e le loro Chiese di provenienza, a dare la possibilità di celebrare secondo le proprie tradizioni ed a esercitare attività pastorali e parrocchiali, laddove è possibile» (n. 32).

A salvaguardia dei fedeli orientali è riconosciuto il diritto di vigilanza dei Patriarchi e degli Arcivescovi Maggiore ovunque nel mondo.

Il Concilio Vaticano II, infatti, ha confermato le diverse forme di costituzione gerarchica delle Chiese orientali, tra le quali si distinguono quelle Patriarcali «dove i Patriarchi e i Sinodi partecipano, per diritto canonico alla suprema autorità della Chiesa», come dichiara la Cost. apos. Sacri canones (1990).

Il decreto OE al n. 9 dedica numerosi paragrafi all’istituzione patriarcale e al n. 10 afferma che «quanto si è detto dei patriarchi vale anche, a norma del diritto, degli arcivescovi maggiori, che presiedono a tutta una Chiesa particolare o rito». E’ il caso ad esempio dell’Arcivescovo Maggiore Greco-Cattolico Romeno, Sua Beatitudine Lucian.

Il fenomeno dell’emigrazione e dell’istallazione fuori dal territorio tradizionale delle comunità ecclesiali orientali pongono fortemente l’esigenza di un ampliamento progressivo della nozione di territorio canonico e della giurisdizione episcopale.

Nel suo intervento al Sinodo Speciale per il Medio Oriente nel 2010 il cardinale Andrè Vingt-Trois, Arcivescovo di Parigi e Ordinario per gli Orientali senza gerarchia della propria chiesa in Francia, aveva segnalato che la “mobilità della società attuale cambia la comprensione della nozione di territorio” (Cf. Documentation catholique, n° 2456, 21/11/2010, p. 999).

La Costituzione apostolica Pastor Bonus, anch’essa evidentemente frutto del Concilio, nell’art. 59 prescrive che per la diaspora «la Congregazione per le Chiese orientali segua parimenti con premurosa diligenza le comunità di fedeli orientali che si trovano nelle circoscrizioni territoriali della Chiesa latina, e provveda alle loro necessità spirituali per mezzo di visitatori, anzi, laddove il numero dei fedeli e le circostanze lo richiedano, possibilmente anche mediante una propria gerarchia, dopo aver consultato la Congregazione competente per la costituzione di Chiese particolari nel medesimo territorio».

Il diritto di vigilanza dei Patriarchi si intreccia, perciò, con la sollecitudine della Sede Apostolica, che ha creato nel post-concilio numerose circoscrizioni nei territori della Chiesa latina.

*****

 Cari amici, siamo giunti ad un ultimo punto, che considero la vera sintesi del messaggio conciliare per i cristiani orientali.

 5. La missione ecumenica delle Chiese cattoliche orientali

Il Concilio insegna in modo molto convinto che «la religiosa fedeltà alle antiche tradizioni orientali», assieme alla «preghiera, agli esempi di vita, alla mutua e migliore conoscenza, alla collaborazione e fraterna stima delle cose e degli animi», contribuiscono al massimo grado affinché le Chiese orientali che sono in piena comunione con la Sede Apostolica romana «adempiano al compito di promuovere l’unità di tutti i cristiani, specialmente orientali» (OE 24), secondo i principi del decreto sull’Ecumenismo.

E’ questa ansia per l’unità che dobbiamo chiedere insistentemente allo Spirito del Risorto per le Chiese Orientali.

Essa traspariva dal cuore del Beato Giovanni XXIII allorché aprendo il Concilio esortava la Chiesa a rallegrarsi per la comunione di tanti suoi figli (Gaudet Mater Ecclesia!) e proponeva la “medicina della misericordia” – evitando la condanna – per avvicinarli. Chiedeva che si combattesse l’errore ma supplicava di salvare l’errante.

E’ l’ansia dalla quale scaturisce la gioia dell’evangelizzazione insegnata dal grande Paolo VI. La sentiamo tanto attuale in questo anno della fede, che pone tutti – e a che livello i cristiani d’oriente – sulle vie – spesso strette ma evangeliche e perciò sicure – della nuova evangelizzazione.

La respirava il Beato Giovanni Paolo II, fin da giovane vescovo presente al Concilio. La esperimentiamo nella lettera apostolica Orientale Lumen, come nella Enciclica Ut Unum Sint. Col Patriarca Teoctist a Bucarest del resto aveva ascoltato e mai più dimenticato il grido di tutto il popolo romeno: Unitate! Unitate!

Papa Benedetto condivise pienamente l’anelito all’unità: rimane indimenticabile il suo monito allorché visitando la nostra Congregazione ribadì senza alcun dubbio che “la scelta ecumenica operata dal Concilio è irreversibile” e che le tradizioni dell’Oriente cristiano sono patrimonio di tutta la Chiesa, compresa quella latina, e riferimento indispensabile per il futuro.

Così possiamo concludere con Papa Francesco per indicare a tutti gli orientali – cattolici e ortodossi – la parola di unità che egli ha pronunciato il venerdì santo al Colosseo: “I cristiani devono rispondere al male con il bene, prendendo su di sé la Croce, come Gesù. Questa sera abbiamo sentito la testimonianza dei nostri fratelli del Libano: sono loro che hanno composto queste belle riflessioni e preghiere. Li ringraziamo di cuore per questo servizio e soprattutto per la testimonianza che ci danno. Lo abbiamo visto quando il Papa Benedetto è andato in Libano: abbiamo visto la bellezza e la forza della comunione dei cristiani di quella Terra e dell’amicizia di tanti fratelli musulmani e di molti altri. E’ stato un segno per il Medio Oriente e per il mondo intero: un segno di speranza…

Camminiamo insieme sulla via della Croce, portando nel cuore questa Parola di amore e di perdono. Camminiamo aspettando la Risurrezione di Gesù, che ci ama tanto. E’ tutto amore”.

La croce tutti ci unisce! Ecco l’augurio pasquale e pienamente conciliare per i cristiani di ogni confessione nei loro rapporti con le altre religioni e con ogni uomo e donna di buona volontà. Pensiamo ai cristiani di Terra Santa, Siria, Iraq. Ma anche a quelli di Romania e a ciascuno di noi. Grazie.

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ZENIT Staff

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