L'Aquila, una città impossibile da dimenticare

Una drammatica testimonianza a quattro anni dal terremoto

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“Tornare a L’Aquila ogni volta è un dolore, una ferita che si riapre. Questa città mi ricorda mia madre Aurelia, ormai malata da tempo di Alzheimer: sarebbe comodo abbandonarla, lasciarla al suo destino, ma l’amore che ci lega è troppo grande. Cammino per le vie di una città dove sono nata e cresciuta ma che non riesco più a riconoscere; passeggiare tra le sue rovine mi sembra un gesto d’affetto nei suoi confronti: mi ricorda che, nonostante tutto, anche se L’Aquila è una città disastrata, non voglio e non posso abbandonarla”. Prima del terremoto del 2009, Rosanna viveva nel centro storico del capoluogo abruzzese: per anni aveva vissuto e lavorato a Roma ma nel 2008 aveva deciso di tornare a L’Aquila per stare accanto alla mamma malata.

“La notte del 6 aprile 2009 alle ore 3.32 ho aperto gli occhi e attorno  a me le mura della mia casa si erano spaccate e pezzi di vetro mi erano arrivati in faccia – racconta Rosanna a ZENIT –. La luce funzionava ancora ma le scosse continuavano, così cercai di raggiungere l’ingresso e di aprire la porta per scappare ma si era bloccata. Intanto sentivo le urla del vicino del piano inferiore che cercava di far uscire la sua famiglia. Nell’intervallo tra una scossa e l’altra, tirai con forza la porta che finalmente si aprì. Di fronte a me la scala si era staccata dal muro e dalle pareti frantumate vedevo gli interni degli appartamenti. Uscii da casa mia e mi ritrovai a camminare tra le macerie raggiunsi i giardini del Castello e mi sedetti insieme ad altre persone su un muretto. Rimasi lì a guardare il mio palazzo e pensai che sarei rientrata presto a casa mia. Ancora non mi ero resa conto di quello che era successo e che non sarei mai più tornata a casa”.

Rosanna e gli altri abitanti del quartiere ricevettero dalla radio le prime notizie sul bilancio del terremoto: “All’inizio si parlò di due bambini morti sotto le macerie – ricorda Rosanna -. L’atmosfera era surreale, sembrava di vivere un sogno: vedevo la strada dove abitavo e non la riconoscevo. Sono rimasta seduta tutta la notte su quel muretto, non sapendo cosa fare. Gli altri si organizzavano per scappare. Io in quel momento ero sola e sotto choc: incontrai una pattuglia della polizia e chiesi ai poliziotti a che ora passasse il pullman per Roma. Gli agenti mi guardarono attoniti e mi dissero che l’autostrada era chiusa. In quel momento fui inondata da un attacco di panico totale: ero sola, senza vestiti, indossavo solo il pigiama. Provai a salire in macchina ma non riuscii neppure a mettere in moto. Ero totalmente paralizzata dalla paura”.

La donna, intanto, stava assistendo alle prime scene strazianti del dopo terremoto: “Ho ancora nella mente lo sguardo disperato di una madre: era sorretta dagli altri parenti che non avevano il coraggio di dirle che non avrebbe riabbracciato sua figlia”.

La mamma di Rosanna, ricoverata in un istituto di Montereale della provincia dell’Aquila, venne trasferita a Canistro, un paese distante da L’Aquila 47 km: è da questo momento che la vita di Rosanna cambia radicalmente.

“La mia casa non era più agibile ed ero in attesa di un Modulo Abitativo Provvisorio (MAP) che ho ricevuto solo dopo un anno e mezzo perché sono nubile e senza figli. È stata data la priorità ai nuclei familiari ma questo criterio non prevedeva che fossero gli aquilani i primi a ricevere le case. Alcune abitazioni sono state assegnate infatti a nuclei familiari numerosi, principalmente stranieri, che non avevano bisogno di una sistemazione perché abitanti di paesi per nulla colpiti dalla furia del terremoto. Per non parlare dei finanziamenti per la ricostruzione che sono serviti per ridipingere i muri delle case dei paesi limitrofi. Questo è il vero scandalo”.

In questi anni intorno a L’Aquila sono stati costruiti dei piccoli nuclei di urbanizzazione che hanno stravolto il territorio e non hanno creato punti di aggregazione per permettere alle persone di ricominciare una nuova vita: “Tra la popolazione aquilana c’è un altissimo uso di psicofarmaci – racconta Rosanna – il terremoto è un’esperienza limite che ti cambia per sempre: da quattro anni ho l’abitudine di lasciare in macchina un sacco pieno di vestiti per il timore di ritrovarmi di nuovo in mezzo ad una strada come in  quella notte del 6 aprile 2009.”

L’Aquila è ormai spaccata in due e le distanze sono aumentate. A dividere la città, una ferita ancora viva che implora di non essere dimenticata: “La distruzione può essere la via per la trasformazione – dice Rosanna – tutti vorremmo che le cose restassero uguali ma è necessaria la rinascita. Il mio dolore ha acquistato senso grazie all’amore per mia madre. Neanche il terremoto è riuscito a dividerci”.

Durante questi anni, Rosanna ha affrontato anche dei problemi di salute molto seri che l’hanno costretta a subire numerosi interventi chirurgici e un ciclo di chemioterapia: “Ho lottato tanto: prima il terremoto poi la salute che mi aveva abbandonata. Pensavo di non farcela. Dopo un lungo periodo in ospedale, sono tornata da mia madre e lei guardandomi negli occhi mi ha detto: “Finalmente sei qui.” Sono bastate quelle parole a cancellare il peso di ogni fatica e a farmi credere che è davvero possibile ricominciare”.

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Gaia Bottino

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