I 50 anni della "Pacem in terris" (Prima parte)

La portata profetica dell’enciclica del ‘beato Giovanni XXIII

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La Pacem in terris, seconda grande enciclica di Giovanni XXIII dopo la Mater et Magistra, fu pubblicata l’11 aprile 1963: ne abbiamo quindi appena celebrato il cinquantesimo anniversario.

L’enciclica roncalliana si colloca nella lunga serie di documenti sulla pace scritti dai Papi del XX secolo. Ricordiamo, a tal proposito, la Lettera ai capi dei popoli belligeranti (1 agosto 1917), la Pacem Dei Munus Pulcherrimum (23 maggio 1920) di Benedetto XV, l’enciclica Ubi arcano (23 dicembre 1922) di Pio XI e i numerosi radiomessaggi natalizi di Pio XII, in particolare quello del 1941. La tradizione è quindi vasta, tanto quanto la serie dei conflitti che hanno lacerato il mondo nel secolo scorso. 
 
La Pacem in terris viene indirizzata «a tutti gli uomini di buona volontà», sostenendo che la pace era possibile. L’ottimismo del “Papa buono” parve a molti un ottimismo irrazionale: molti si chiedevano quali fossero gli elementi che inducevano il Papa di parlare di pace, quando appena due anni prima era stato eretto il muro di Berlino, che spaccava il mondo a metà tra l’impero sovietico e la Nato e quando appena sei mesi prima l’umanità aveva sfiorato il dramma della guerra nucleare a causa della crisi dei missili a Cuba.

Una puntuale lettura alla luce della fede la offre Giovanni Paolo II nel Messaggio per la XXXVI Giornata Mondiale della Pace (1 gennaio 2003): «Papa Giovanni XXIII non era d’accordo con coloro che ritenevano impossibile la pace. […] Guardando al presente e al futuro con gli occhi della fede e della ragione, il beato Giovanni XXIII intravide e interpretò le spinte profonde che già erano all’opera nella storia. Egli sapeva che le cose non sempre sono come appaiono in superficie. Malgrado le guerre e le minacce di guerre, c’era qualcos’altro all’opera nelle vicende umane, qualcosa che il Papa colse come il promettente inizio di una rivoluzione spirituale» (n. 3). 

Contestualizzazione storica

Il concetto di guerra era cambiato a causa delle armi atomiche. Se le due superpotenze fossero scese in campo l’umanità sarebbe andata incontro ad un disastro di proporzioni non calcolabili.

In altre parole la guerra non è più uno strumento per far prevalere la forza di uno Stato o la “giustizia”: queste motivazioni potevano rendere accettabile il prezzo pagato all’opinione pubblica. D’altra parte, l’interdipendenza fra le nazioni era talmente stretta che diventa molto facile esercitare pressioni usando mezzi economici e finanziari. Ciò permette di gestire un conflitto senza il ricorso sistematico alle armi. Emergono altri tipi di guerra: c’è la guerra alimentare, quella monetaria, quella dei migranti, eccetera.

Tali cambiamenti si producono in un contesto di sviluppo unico nella storia del mondo. La crescita dei Paesi industrializzati sembra illimitata, dal boom del petrolio a quello dell’edilizia. Si  sviluppano beni strumentali e beni di consumo durevoli (autostrade, aerei a reazione, ma anche automobili, telefoni, elettrodomestici, ecc.).

Si intravedono nel futuro solo abbondanza e opulenza, il  progresso sembra senza fine. Quasi tutti i Paesi in precedenza colonizzati, in particolare Africa e Asia, stavano diventando indipendenti e si lanciano, non sempre in maniera lineare, nello  sviluppo, sperando di assicurare alle proprie popolazioni una vita dignitosa nell’autonomia culturale ed economica. In tale contesto, Giovanni XXIII dà un contributo profetico all’analisi del mondo di allora, dei suoi conflitti, delle sue speranze.

Nell’enciclica della ‘Pacem in terris’ si intravedono due livelli di lettura: il primo è l’insegnamento tradizionale della Chiesa, mentre il secondo è più innovativo dal punto di vista teologico.

Il primo livello di lettura di Giovanni XXIII si fonda  sull’insegnamento della Chiesa in materia sociale, specialmente sui testi del suo predecessore Pio XII, ma anche su quelli di Leone XIII. Il Papa insiste sui diritti dell’uomo, sul bene comune, sul rispetto delle minoranze nazionali, sulla comunicazione e sul rispetto tra le nazioni, sui rifugiati politici, sul disarmo e sulle istituzioni internazionali.

L’innovazione teologica la troviamo sin dall’incipit dell’enciclica, che si rivolge a tutti gli uomini, credenti e non credenti, a tutti gli uomini di buona volontà. In altre parole le sue pagine non sono riservate ai cristiani, ma sono rivolte a tutti. Nel corso dell’intera enciclica, il Papa esprime la propria simpatia e l’accoglienza della Chiesa Cattolica nei confronti di tutte le aspirazioni del mondo contemporaneo che vengono declinate come «segni dei tempi».

Il Papa non polemizza, non condanna mai il mondo. Quando parla della guerra, non costruisce affatto una casistica per determinare se la si può giustificare nel caso in cui le circostanze obbligassero a farla. Cambia del tutto il punto di vista: parte dalla pace, «anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi» (n. 1).

Un’altra innovazione teologica di Giovanni XXIII è particolarmente evidente nel quinto e ultimo capitolo dedicato ai “Richiami pastorali”, specialmente laddove si affrontano i rapporti fra cattolici e non cattolici nell’azione sociale (nn° 82-85), proseguendo la riflessione della Mater et magistra sulla possibile cooperazione tra cristiani e non cristiani.

Il punto culminante, probabilmente l’apice di tutta l’enciclica, rileva una crescente distinzione tra le ideologie, «false dottrine filosofiche sulla natura, l’origine e il destino dell’universo e dell’uomo», e i «movimenti storici a finalità economiche, sociali, culturali e politiche» (n. 84). 
Il Papa distingue tra l’ideologia che resta cristallizzata, e i movimenti che l’incarnano che non possono non essere influenzati dai cambiamenti delle condizioni concrete di vita. Può quindi accadere che realizzazioni pratiche comuni possano presentare vantaggi reali. Con questa riflessione, Giovanni XXIII lasciava intendere che il movimento storico dei popoli nei Paesi socialisti o comunisti può benissimo distinguersi dall’ideologia marxista, condannabile nei suoi principi.

Queste riflessioni lanciano nuovi ponti di dialogo con i Paesi comunisti dell’Europa dell’Est e con le società che vivono oltre la cortina di ferro. Non si condanna più una società in quanto vi viene insegnata una certa ideologia; bisogna invece osservare e dialogare con i corpi sociali  che in essa si sviluppano.

Proseguendo questa linea di riflessione, che si applica innanzitutto ai rapporti tra le nazioni, Giovanni XXIII prevede che «un avvicinamento o un incontro di ordine pratico, ieri ritenuto non opportuno o non fecondo, oggi invece lo sia o lo possa divenire domani» (n° 85).

Inoltre, per il Papa, la pace è anche un problema interno alle nazioni. La pace deve essere raggiunta in particolare  con le diverse ideologie.

La pace non è frutto di un pio devozionismo, ma una difficile costruzione da realizzare fin negli ambiti nazionali più nevralgici.

[La seconda parte sarà pubblicata domani, giovedì 18 aprile]

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Carmine Tabarro

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