Per portare ancora avanti la nostra riflessione sulla struttura normativa interna all’arte sacra, soffermiamoci sulla relazione che esiste tra l’arte in quanto tale e l’arte sacra, in modo particolare in ordine al rapporto tra mezzi e fini.
Può essere utile ricorrere ancora una volta al Discorso intorno alle immagini sacre e profane di Gabriele Paleotti, in cui viene messo in evidenza che le finalità sono scritte dentro le stesse realtà, e che i fini generali, i fini particolari e i mezzi per raggiungerli si dispiegano secondo rapporti causali. Egli infatti scrive: «Abbiamo altrove già detto che il fine universale e comune a tutte le immagini è quello di rappresentare e rendere verosimili altre realtà. Da tale fine derivano poi altri scopi particolari, come effetti della prima causa. Come lo scopo della parola di cui Dio ha dotato l’uomo è universalmente quello di poter dar voce ai concetti che stanno nella mente attraverso i suoni convenzionali e, da tali concetti, derivano poi differenti fini particolari, come effetti derivanti da cause che hanno indotto la nostra lingua a parlare in questo o in quel modo, così è delle immagini: oltre ad essere fatte per rassomigliare a una realtà data, hanno anche dei fini specifici e particolari, dei quali ora parleremo. E questo sarà utile al pittore e all’arte che egli esercita, dato che nella natura di uno scopo derivano anche i mezzi proporzionati ad esso »[1]. Il fine naturale di ogni immagine è la rappresentazione verosimile della realtà, così come il fine naturale del parlare è dare voce ai concetti della mente mediante suoni convenzionali. Da questo fine naturale universale derivano i fini particolari, come gli effetti derivano dalla causa e come le specie si determinano nel genere. Tali finalità derivate e specifiche per essere conseguite necessitano di mezzi proporzionati. Da questa tipologia di ragionamento deriva che dal fine specifico dell’arte sacra che a sua volta è effetto dei compiti di annuncio, educazione e preghiera propri della Chiesa, deriva la scelta dei mezzi proporzionati. Nella storia della Chiesa, tali mezzi si sono andati lentamente e concretamente dispiegando, nella tradizione dell’arte cristiana, fino alla configurazione di un complesso sistema d’arte, tutto proporzionato al fine. La storia dell’arte cristiana andrebbe letta in questa ottica di cammino nella Fede, come storia di mezzi che si proporzionano sempre più e sempre meglio al fine della Chiesa, escludendo ricostruzioni pregiudizialmente di tipo “ciclico” o “progressista” o “relativista”.
Il legame tra sistema d’arte cristiano e Chiesa, specifica e determina il più generale legame tra arte e religione. Il legame tra arte e religione è infatti quasi costitutivo. Come spiega Alessi: «L’arte nella sua aspirazione di bellezza, e di bellezza infinita, si apre spontaneamente al discorso religioso. Non è casuale il fatto che la produzione artistica si sia in gran parte realizzata sul terreno religioso. Non è escluso tuttavia il contrario. Percependo l’incapacità di adeguare le proprie aspirazioni d’infinito il genio artistico può anche rifiutare di dare veste estetica alla realtà assoluta. In questo caso si fa solidale con atteggiamenti ispirati all’aniconismo e all’iconoclastia»[2]. L’arte in quanto tale si apre spontaneamente alla religione, la dimensione religiosa è costitutiva del fenomeno artistico, tuttavia visioni religiosi diverse producono sistemi d’arte diversi, fino al caso limite di visioni religiose che negano le immagini o le combattono, nei termini dell’aniconismo e dell’iconoclastia. La posizione della Chiesa nei confronti dell’aniconismo e dell’iconoclastia è stata resa ben chiara fin dal Concilio di Nicea II nel 787, nel bellissimo Decreto sulle immagini.
La necessità di leggere la storia dell’arte cristiana in un’autentica ottica di Fede e non nei termini della rottura o del pregiudizio (modernista o tradizionalista che sia), necessita di riflessioni per le quali ci può essere di aiuto l’autentica lezione magistrale che ha dato Benedetto XVI nel suo ultimo discorso al clero romano, offrendo una delle letture più illuminate del Concilio Vaticano II: «Vorrei adesso aggiungere ancora un punto: c’era il Concilio dei Padri – il vero Concilio –, ma c’era anche il Concilio dei media. Era quasi un Concilio a sé, e il mondo ha percepito il Concilio tramite questi, tramite i media.
Quindi il Concilio immediatamente efficiente arrivato al popolo è stato quello dei media, non quello dei Padri. E mentre il Concilio dei Padri si realizzava all’interno della fede, ed era un Concilio della fede che cerca l’’intellectus‘, che cerca di comprendersi e cerca di comprendere i segni di Dio in quel momento, che cerca di rispondere alla sfida di Dio in quel momento e di trovare nella Parola di Dio la parola per oggi e domani, mentre tutto il Concilio – come ho detto – si muoveva all’interno della fede, come ‘fides quaerens intellectum‘, il Concilio dei giornalisti non si è realizzato, naturalmente, all’interno della fede, ma all’interno delle categorie dei media di oggi, cioè fuori dalla fede, con un’ermeneutica diversa.
Era un’ermeneutica politica. Per i media, il Concilio era una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa. Era ovvio che i media prendessero posizione per quella parte che a loro appariva quella più confacente con il loro mondo. C’erano quelli che cercavano la decentralizzazione della Chiesa, il potere per i vescovi e poi, tramite la parola “popolo di Dio”, il potere del popolo, dei laici. C’era questa triplice questione: il potere del papa, poi trasferito al potere dei vescovi e al potere di tutti, sovranità popolare. Naturalmente, per loro era questa la parte da approvare, da promulgare, da favorire.
E così anche per la liturgia: non interessava la liturgia come atto della fede, ma come una cosa dove si fanno cose comprensibili, una cosa di attività della comunità, una cosa profana. E sappiamo che c’era una tendenza, che si fondava anche storicamente, a dire: la sacralità è una cosa pagana, eventualmente anche dell’Antico Testamento, ma nel Nuovo vale solo che Cristo è morto fuori: cioè fuori dalle porte, cioè nel mondo profano. Sacralità quindi da terminare, profanità anche del culto: il culto non è culto, ma un atto dell’insieme, della partecipazione comune, e così anche partecipazione come attività.
Queste traduzioni, banalizzazioni dell’idea del Concilio, sono state virulente nella prassi dell’applicazione della riforma liturgica; esse erano nate in una visione del Concilio al di fuori della sua propria chiave, della fede. E così, anche nella questione della Scrittura: la Scrittura è un libro, storico, da trattare storicamente e nient’altro, e così via.
Sappiamo come questo Concilio dei media fosse accessibile a tutti. Quindi, questo era quello dominante, più efficiente, ed ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata… E il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale.
Ma la forza reale del Concilio era presente e, man mano, si realizza sempre più e diventa la vera forza che poi è anche vera riforma, vero rinnovamento della Chiesa. Mi sembra che, cinquant’anni dopo il Concilio, vediamo come questo Concilio virtuale si rompa, si perda, e appare il vero Concilio con tutta la sua forza spirituale. Ed è nostro compito, proprio in questo Anno della fede, cominciando da questo Anno della fede, lavorare perché il vero Concilio, con la sua forza dello Spirito Santo, si realizzi e sia realmente rinnovata la Chiesa»[3].
Ogni lettura mediatica e politica della vita e della storia della Chiesa risulta impoverente ed equivoca, analogamente anche la storia della arte cristiana, che fa parte integrante della vita e
della storia della Chiesa, trova la propria autentica chiave di lettura solo nel cammino della Fede. Dunque, il sistema d’arte cristiano, che si è costituito nel corso del tempo, non può dirsi passato di moda, ma semmai richiede di essere conosciuto, riverificato, riattualizzato. Questo sistema si è fondato su quattro principi fondamentali, ha affinato strumenti quali teoria delle ombre e delle luci, la prospettiva … per migliorare la capacità di dire, ha differenziato generi … tutto questo è avvenuto dentro il sistema d’arte, ne ha costituito via via il grande patrimonio che non è solo una questione del passato, ma è la costante attualità della Chiesa, che cresce senza rotture e non può essere soggetta a letture che rispondono a diverse filosofie della storia (cicliche, progressiste o altro). La storia dell’arte cristiana va letta nell’ottica della teologia della storia cristiana, è storia di costante ricerca di mezzi sempre più conformi e integranti alle specifiche finalità dell’arte sacra, con al centro la confessione di Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo.
(La quinta parte è uscita lunedì 18 marzo)
Rodolfo Papa, Esperto della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, docente di Storia delle teorie estetiche, Pontificia Università Urbaniana, Artista, Accademico Ordinario Pontificio. Website: www.rodolfopapa.it Blog: http://rodolfopapa.blogspot.com e.mail: rodolfo_papa@infinito.it .
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NOTE
[1] Gabriele Paleotti, Discorso intorno alla immagini sacre e profane (1582), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002, p.66.
[2] Adriano Alessi, Sui sentieri del sacro, LAS, Roma 2005, p. 302.
[3] Benedetto XVI, Incontro con i parroci e il clero di Roma, 14 febbraio 2013.