“Accetto il tuo odore” (un yiwan nu wé) è l’espressione idiomatica africana in lingua fon per dire a qualcuno: “ti voglio bene”. Papa Francesco, durante l’omelia della Messa Crismale, chiedendo ai suoi preti di portare addosso “l’odore delle pecore”, ha voluto sottolineare con questa felice immagine la modalità dell’amore sacerdotale, un amore agapico, ma anche oblativo. Ancora una volta il pontefice sottolinea l’importanza della prossimità con l’andare incontro all’altro, con l’essere per l’altro, in vista di condurre il gregge ai pascoli della vita eterna.
Prendere l’odore delle pecore non è la contaminazione o la scelta del compromesso con “il puzzo del mondo”, ma la capacità fino in fondo di entrare nelle sacre dimore delle coscienze, alle volte fragranti, ma il più delle volte sordide.
La condivisione del sacerdote con la sofferenza del mondo lo rende cireneo di ogni uomo per quella “via crucis” che redime ogni via del mondo.
Chi ha fatto l’esperienza missionaria sotto il cocente sole dei tropici conosce bene le emanazioni agre che impregnano le mura di terra delle modeste abitazioni insieme al sudore e alla polvere intrisi nei panni dei più poveri. E’ sulla veste sacra e il suo significato che Francesco ha esordito la sua omelia.
Il gran sacerdote discendente di Aronne portava sull’efod i nomi delle dodici tribù d’Israele. Il prete cattolico presenta al Signore i nomi delle persone che si affidano a lui a condizione che emani il profumo di Cristo, quello della sua unzione sacerdotale, quello che sale al Cielo, come incenso profumato.
Quando entra nello squallore delle periferie, il prete deve vincere la ripugnanza e far ricircolare l’aria con l’afflato dello spirito e il suo olezzante aroma.
Francesco ha benedetto il sacro crisma profumato dal bergamotto coltivato sulle terre confiscate alla N’drangheta. Questo profumo non ha solo un significato cristologico riferito al “Cristos” come l’unto del Padre, ma anche un significato soteriologico, cioè di salvezza, di redenzione, di trasformazione del male in bene.
E’ questo un messaggio dalla portata pasquale al quale si riconduce tutta la liturgia dei giorni del Triduo. Quando la miseria materiale produce anche miseria morale, il prete non deve fermarsi nel parcheggio dell’indignazione, ma come ministro di misericordia deve trasformare le paludi melmose e insalubri dei cuori corrotti, in acqua viva e fresca, come quella del segno battesimale.
Dall’ortodossia dei concetti all’ortoprassi dell’azione, Francesco ricorda ai preti che l’unzione ricevuta non è per profumare se stessi e conservare l’olio nell’ampolla per farlo diventare rancido. Una persona, una società o un’istituzione anche perfetta, ma autoreferenziale, serve a poco e a niente nella Chiesa e nell’economia della Salvezza.
L’unzione è per i poveri, gli ammalati, quelli che sono tristi e soli… Dice Francesco che il sacerdote si riconosce da come viene unto il suo popolo. Quando dopo la S. Messa la gente esce con gioia dalla porta della Chiesa e il Vangelo scende nella vita quotidiana, si vede, perché illumina le situazioni limite dove il popolo è esposto a quanti vogliono saccheggiare la fede.
Il sacerdote che esce poco e unge poco, perde e fa perdere agli altri il meglio di sé, il dono ricevuto. Anziché essere mediatore diventa solo intermediario, un gestore. Se non si mette in gioco pelle e cuore, non si riceve la gratitudine e la gratificazione.
“E’ da qui – ha aggiunto Papa Francesco – che nasce l’insoddisfazione di alcuni preti che finiscono tristi. Collezionisti di antichità e novità anziché essere pastori con l’odore delle pecore…”.