Antropologia cristiana e salvezza del mondo (Quinta e ultima parte)

Relazione di monsignor Crepaldi al convegno ”Il rinnovamento della Chiesa”

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Riprendiamo oggi la quinta e ultima parte della relazione tenuta il 15 marzo scorso da monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste, presso lo Studium Generale Marcianum di Venezia nell’ambito del convegno ”Il rinnovamento della Chiesa passa anche attraverso la testimonianza offerta dalla vita dei credenti”. 

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Approccio metafisico ed approccio ermeneutico

La sostituzione dell’approccio metafisico al problema della verità con quello ermeneutico è un modo per affrontare il problema che ho ora evidenziato. Si ritiene che l’approccio metafisico sia astratto e statico in quanto improntato alla natura, mentre la storia è incentrata sulla prassi.

L’approccio metafisico è considerato poco capace di sintonizzarsi sulle esigenze della storia e della prassi; da qui la sua sostituzione con l’approccio ermeneutico. Quest’ultimo si fonda su tre convinzioni. La prima è l’idea che il messaggio, qualsiasi esso sia, quindi anche il kerigma cristiano, non è mai separato dalla testimonianza e dall’interpretazione che se ne dà. La seconda è che il nostro agire non è mai solo un agire bensì anche una produzione di senso: noi, agendo, produciamo nuova teoria. La terza è che ogni nostro dire non è mai solo informativo ma anche performativo, ossia implica un cambiamento di atteggiamento verso il mondo.

Come valutare questo approccio ermeneutico? Per dirla con molta schiettezza: se l’antropologia cristiana si affida completamente a questa impostazione diventa veramente difficile per essa portare salvezza al mondo. Infatti l’approccio ermeneutico colloca il messaggio dentro il mondo ma, come ho già fatto osservare sopra, la salvezza non può che derivare da un piano trascendente1.

Rimane fondamentale l’approccio metafisico, che fonda la possibilità di attingere alla verità avente i caratteri della trascendenza. Per questo l’antropologia non può affidarsi solo all’ermeneutica ma deve riprendersi nella metafisica.Però la sfida della storia e della prassi cui ho accennato rimangono e sono sfide vere e reali. Quindi anche l’approccio metafisico all’antropologia cristiana deve fare un passo in avanti. Indico qui in estrema sintesi una via percorribile che, a mio parere, può essere promettente.

C’è un passo della Caritas in veritate che apre la possibilità di questo tipo di ricerca e nello stesso tempo la richiede. Mi riferisco al paragrafo 53 dell’enciclica. Qui, Benedetto XVI, dopo aver richiamato l’osservazione di Paolo VI nella Populorum progressio secondo cui «il mondo soffre per mancanza di pensiero», indica al pensiero la strada di un nuovo sviluppo. Lo fa riprendendo l’origine trinitaria della categoria della relazione, che il cardinale Ratzinger aveva individuato già nella sua opera “Introduzione al cristianesimo”2, auspicando lo sviluppo di una «metafisica della relazione tra le persone»3.

La relazionalità delle Persone Divine illumina anche la relazionalità della persona umana. La teologia della Trinità svela un nuovo piano dell’essere, un piano in cui la relazione non è più accidente ma appartiene alla sostanza. Questo comporta che nella relazione le persone si costruiscano ontologicamente e comunitariamente. Siamo qui in un nuovo piano dell’essere, né solo naturale e statico né solo storico e processuale. Non c’è più solo la sostanza, fissa nella sua staticità, né l’uomo è completamente immerso nella prassi sociale. La persona è costruzione relazionale. I due esempi proposti da Benedetto XVI nel paragrafo 53 della Caritas in veritate sono molto esplicativi. Si tratta della comunità familiare e della comunità ecclesiale, in cui la persona fa l’esperienza vitale di entrare in una comunità relazionale non accidentale a cui non sacrifica la propria natura, quanto piuttosto la valorizza incontrandosi con gli altri in una dimensione costruttiva del sé e del noi. Mi sembra che questa sia la strada che l’antropologia cristiana deve sviluppare per essere salvata e per essere salvifica per il mondo.

Cenni conclusivi

Le riflessioni di questi due ultimi paragrafi si ricollegano a quanto avevo detto all’inizio. L’antropologia cristiana deve esprimere più di se stessa. Sarà salvifica se sarà salvata. Questi spunti finali indicano una via affinché questo possa avvenire, mediante un investimento adeguato del pensiero. La “metafisica della relazionalità costruttiva”, così chiamerei le indicazioni che nascono dai passi della Caritas in veritate che ho utilizzato, è radicata nell’essere e nello stesso tempo nella storia, senza cadere in forme di immanentismo, che ogni primato della prassi nasconde dentro di sé. 

(La quarta parte è stata pubblicata ieri, venerdì 22 marzo)

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NOTE 

1 «Tutto quanto è in grado di sussistere unicamente grazie all’interpretazione, in realtà ha bell’e finito di sussistere» (J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 200312, p. 102); ma per fortuna «l’uomo non è prigioniero della stanza degli specchi delle interpretazioni; egli può e deve cercare il pertugio verso il vero che sta sotto le parole e che in esse e attraverso esse si mostra» (J. Ratzinger, Fede, verità e cultura. Riflessioni in relazione all’enciclica Fides et ratio, Madrid, 16 febbraio 2000, supplemento a “Tracce”, marzo 2000, p. 11). 

2 Cf J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul Simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 200312, pp. 121-148. 

3 Cf le osservazioni di S. Fontana, “Metafisica della relazione tra persone”. Note su un possibile itinerario di ricerca, in F. Carderi – M. Mantovani – G. Perillo (a cura di), Momenti del Logos, Ricerche del Progetto LERS (Logos, Episteme, Ratio, Scientia) in memoria di Marilena Amerise e di Marco Arosio, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2012.

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ZENIT Staff

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