Alle radici del rinnovamento. Una lettura del Concilio Vaticano II (Terza parte)

Monsignor Massimo Camisasca intervistato da Edoardo Tincani

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Nella chiesa di San Pietro, a Correggio, il vescovo di Reggio Emilia-Guastalla, monsignor Massimo Camisasca, è intervenuto giovedì 7 marzo sul Concilio Vaticano II, rispondendo alle domande poste da Edoardo Tincanidirettore de “La Libertà”. Oggi pubblichiamo la terza parte.

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Con la “Gaudium et Spes” entriamo nel rapporto tra la Chiesa e il mondo contemporaneo…

Vorrei accennare a delle coordinate di lettura del rapporto tra Chiesa e mondo che nascono dal mistero dell’Incarnazione. Dio parla alla Chiesa e al mondo, anche attraverso i fatti della storia. La stessa storia della Chiesa partecipa della storia degli uomini. «La Chiesa – afferma proprio la Gaudium et Spes – cammina assieme con l’umanità tutta e sperimenta, assieme al mondo, la medesima sorte terrena, ed è come il fermento e quasi l’anima della società umana» (n. 40). Si può dire che le due vicende siano inestricabilmente congiunte, come Agostino aveva predicato delle due città, quella di Dio e quella dell’uomo. La Chiesa deve continuamente interrogarsi sulla natura di tale legame. 

Un “interrogarsi” sul rapporto Chiesa e mondo che non è tanto o solo un esercizio intellettuale, quanto piuttosto una forma di compartecipazione. Tra gli estremi della contrapposizione e della sovrapposizione… come si colloca il Concilio?

La Chiesa è interessata al mondo innanzitutto perché è essa stessa parte del mondo. Essa è legata agli uomini perché è “fatta” di uomini. La Chiesa non è altro che il mondo che si converte a Cristo. È il mondo degli uomini, delle loro esistenze, dei loro interessi, che porta con sé tutta la creazione verso Cristo. L’uomo che si converte a Cristo, e attraverso il battesimo viene innestato in lui, trascina con sé tutto il creato, il suo lavoro, i suoi affetti, la sua vita quotidiana e la natura che partecipa di essa.

Ma, come dicevo prima citando il numero 40 della Gaudium et Spes, la Chiesa non si confonde con il mondo. Ha la “pretesa” di esserne l’anima. Sa che ha una responsabilità grave nei confronti dell’umanità. Benché a volte misconosciuta e osteggiata, la Chiesa sa di portare in sé il segreto del mondo. Il desiderio di conoscere le dinamiche profonde delle società e dei popoli nasce quindi dalla passione per il destino degli uomini, dal desiderio di comunicare loro la salvezza. L’evangelizzazione rimane il compito primario della Chiesa. Come ha luminosamente testimoniato Giovanni Paolo II, la Chiesa è interessata all’uomo, perché è interessata a Cristo presente in ogni uomo. Ed è interessata a Cristo perché solo lui svela all’uomo la sua identità (cfr. n. 22).

Anche e soprattutto grazie al Concilio, la Bibbia è oggi molto più presente di un tempo nelle case della gente. Più difficile, partendo dalla Rivelazione, attualizzare il rapporto fra Scrittura e Tradizione. D’altra parte questo fa parte del suo ministero di apostolo. Cosa le dice – e cosa “ci” dice – in proposito la “Dei Verbum”?

Mi ha molto colpito la semplicità e l’acume con cui il Papa, quando mi ha ricevuto assieme agli altri vescovi dell’Emilia Romagna, ha sintetizzato il contenuto dei principali documenti del Concilio. A proposito della Lumen gentium e della Dei Verbum ci ha detto che parlano della Rivelazione, così come la Sacrosantum Conciliumparla della centralità dell’Eucarestia e la Gaudium et Spes della forza che muove il mondo, che è la fiducia nel Signore risorto.

La Dei Verbum, dunque, parla della rivelazione, cioè della comunicazione che Dio fa di se stesso agli uomini. Certamente la forma storica attraverso cui Dio si è comunicato all’uomo è la sua Parola, cioè Suo Figlio. Questa Parola, pur non riducibile alla Sacra Scrittura, trova in essa la sua prefigurazione e la sua espressione perenne. Il Concilio ha avuto il grande merito di sottolineare l’importanza della Sacra Scrittura, aiutando il popolo di Dio ad abbeverarsi ad essa anche attraverso una maggiore presenza nella liturgia di testi scritturistici. Proprio la liturgia è il contesto che più di ogni altro permette di leggere la Bibbia, poiché la sottrare a interpretazioni soggettive fuorvianti e, soprattutto, la proclama all’interno di un contesto vivo nel quale solo si rende intellegibile. La Dei Verbum ha sottolineato, a questo proposito, l’intima unità di Scrittura e Tradizione viva della Chiesa: «La sacra Tradizione e la sacra Scrittura costituiscono l’unico sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa… Il compito di interpretare autenticamente la Parola di Dio, scritta o trasmessa, è stato affidato al solo magistero vivo della Chiesa» (Dei Verbum, n. 10). Non è possibile leggere la Scrittura fuori dalla Chiesa senza perderne il senso profondo, cioè la rivelazione del Figlio di Dio che è risorto ed è vivo oggi.

«Ci sono grandi dotti, grandi specialisti, grandi teologi – ha affermato significativamente Benedetto XVI – […] penetrati nei dettagli della sacra Scrittura […] ma non hanno potuto vedere il mistero stesso, il vero nucleo: che Gesù era realmente Figlio di Dio […]. Così il grande mistero di Gesù, del Figlio fattosi uomo, si riduce a un Gesù storico, una figura tragica, un fantasma senza carne e ossa, un uomo che è rimasto nel sepolcro, si è corrotto ed è realmente un morto» (Dall’omelia di Benedetto XVI nella Santa Messa con i membri della Commissione teologica internazionale, Cappella paolina, 1 dicembre 2009).

A questo proposito pochi giorni fa il Papa ha parlato della Chiesa come luogo vivo «nel quale vive dagli inizi questa Parola e dal quale riceve la sua luce, nella quale è nata. Già il fatto del canone è un fatto ecclesiale». E continuava: «Sempre e solo in questa comunione della Chiesa viva si può anche realmente capire, leggere la Scrittura come Parola di Dio, come Parola che ci guida nella vita e nella morte» (Benedetto XVI, Discorso ai Parroci e ai preti di Roma, 13 febbraio 2013).

Siamo nell’Anno della fede voluto da Benedetto XVI e indetto con la “Porta fidei”, ma già Paolo VI indisse (con l’Esortazione apostolica “Petrum et Paulum Apostolos”) un Anno della fede che si estese dal 29 giugno 1967 al 29 giugno 1968. Il 30 giugno 1968 proclamò il “Credo del Popolo di Dio”, che meriterebbe di essere riascoltato per intero. Entriamo nella stagione del post-Concilio, tra speranza e angosce: solo quattro anni dopo lo stesso Montini ebbe a dire: “Attraverso qualche fessura il fumo di Satana è entrato nella Chiesa”. Come le pare oggi la situazione della Chiesa, in questa stagione, rispetto alle inquietudini di Paolo VI?

Paolo VI sentiva fortemente l’urgenza di parlare all’uomo moderno. Nello stesso tempo non voleva tradire il contenuto della fede. Cercò di appoggiarsi agli uomini che sentiva più vicini alle proprie aperture, ma infine si trovò solo. Come d’altra parte aveva preannunciato in un appunto scritto durante un ritiro spirituale all’inizio del pontificato: “Mi sento come una statua sopra una guglia di un duomo”. Una meditazione che probabilmente gli era nata guardando la sua cattedrale di Milano.

Gli studi sul Concilio Vaticano II ormai possono documentare ampiamente quanto e dove egli sia intervenuto per bloccare le spinte indebite in avanti verso un dissolvimento dell’identità ecclesiale. Ma soprattutto egli cercò di bloccare tale processo negativo attraverso la parola, la sua parola drammatica e accorata che si affidava a Dio di fronte alle forze disgregatrici dell’unità ecclesiale.

Il Credo del popolo di Dio fu una delle espressioni più intense e impegnative di tale volontà di intervento. Pubblicato in occasione dell’anno della fede in pieno ’68 vuole esse
re un’enunciazione sintetica ed organica dei contenuti della fede. Tutte le verità espresse intorno a Cristo e alla vita cristiana nei Concili di Nicea, Costantinopoli, Efeso, Calcedonia fino a Trento e al Vaticano I, all’Immacolata Concezione e all’Assunzione di Maria vi si trovano assieme alla dottrina del Vaticano II sulla Chiesa. Paolo VI insistette sull’importanza di un’espressione formale delle verità di fede. Non si dovevano tralasciare troppo facilmente le parole che i Padri avevano scovato lungo i secoli anche a costo di lunghe lotte. Paolo VI riaffermò la dottrina della Transustanziazione, il celibato ecclesiastico, ebbe il coraggio di condannare la contraccezione e di subire l’opposizione di vasti settori della Chiesa a seguito di tale decisione. Ascoltava le ragioni di tutti e infine decideva. A lui si deve riconoscere il grande merito di non avere mai ceduto. Non avremmo avuto Giovanni Paolo II senza Paolo VI. Nell’ultimo discorso del suo pontificato, il 29 giugno 1978, festa dei santi Pietro e Paolo, poco più di un mese prima della morte, ebbe a dire: “Ci sentiamo a questa soglia estrema contrastati e sorretti dalla coscienza di avere instancabilmente ripetuto davanti alla Chiesa e al mondo: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente (Mt 16,16); anche noi, come Paolo, sentiamo di poter dire: ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede (2Tim 4,7)… Infatti la fede è più preziosa dell’oro (1Pt 1,7)… non basta riceverla, ma bisogna conservarla anche in mezzo alle difficoltà”. Fidem servavi. Proprio queste parole sembrano suggellare tutto il senso del suo pontificato. Certamente egli non ha potuto risolvere tutti i problemi dottrinali e disciplinari. Proprio nel discorso che ora ho citato esprime piena consapevolezza di un lavoro ancora da svolgere e volge un accorato invito a coloro che all’interno della Chiesa sono causa di eresie e di scisma affinché si guardino dal turbare ulteriormente la comunità ecclesiale. Tale compito di rinnovamento della Chiesa sarà al centro del pontificato di Giovanni Paolo II.

(La seconda parte è stata pubblicata ieri, giovedì 14 marzo. La quarta e ultima parte verrà pubblicata sabato 16 marzo)

(Testo tratto dal sito della diocesi di Reggio Emilia-Guastalla)

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ZENIT Staff

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