Ci sono dellepriorità che attendono il prossimo governo italiano: ridurre l’elevato debito pubblico, rinegoziare le politiche di austerità richieste dalla Troika (BCE, FMI e Commissione europea), diminuire l’elevato tasso di disoccupazione e proporre politiche di crescita economica sostenibile.
In particolare, l’elevato debito e le politiche di austerità sono i due temi che, se non approcciati in maniera corretta, continueranno a far precipitare l’Italia in una spirale recessiva dagli esiti imprevedibili, come è accaduto alla Grecia.
Pertanto, priorità del governo sarà di riaprire un dialogo nuovo con l’Europa, finalizzato a rivedere le modalità delle politiche di austerità che come ha dimostrato anche l’FMI, hanno avuto una ripercussione sulla recessione dei PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna) doppia rispetto alle aspettative degli studiosi.
Solo così si potranno affrontare le altre due priorità: occupazione e crescita economica. Dalle discussioni di questi giorni sembra che ancora non si sia compreso il reale problema italiano. Il dibattito si concentra sui margini di trattativa che potremmo avere, sull’allentamento dei vincoli del Patto di Stabilità, sul dilungare i tempi di rientro da deficit “eccessivi” ecc. Idee anche utili, che però dimostrano l’errata diagnosi italiana.
Il punto da cui partire è che la patologia del debito italiano è tale che la cura imposta al Paese non è sostenibile. Nel senso che – usando un linguaggio più tecnico – il Paese non è grado di fare i “compiti” assegnatigli negli ultimi due anni, ovvero il pareggio di bilancio e ilfiscal compact, il sentiero di abbattimento del debito pubblico.
Per rispettare tutti gli impegni presi a livello europeo dovremmo – nelle ipotesi più rosee – realizzare un avanzo primario (cioè l’eccesso del prelievo fiscale sulla spesa pubblica, interessi sul debito esclusi) al 5% del PIL e mantenerlo su quel livello per due decenni. Inoltre, il futuro governo del Paese dovrebbe tagliare la spesa corrente al di sotto delle entrate fiscali per circa 50
miliardi di euro l’anno.
Bisogna ricordare, infatti, che dal 2008 l’Italia sta vivendo una seconda dura recessione. È chiaro che una politica delle finanze di questo genere non consentirebbe alcuna riduzione della pressione fiscale, né lascerebbe spazio per interventi espansivi nel campo, ad esempio, delle politiche industriali per riprendere la strada della crescita e dell’occupazione.
Questi sono i motivi che portano ad affermare che qualche limatura del Patto di Stabilità o qualche piccola concessione sui tempi equivarrebbe a “curare una malattia grave con l’aspirina”. Infatti, nelle condizioni attuali, proseguire lungo la linea del pareggio di bilancio e dell’abbattimento rapido del debito significherebbe far precipitare il Paese in circolo vizioso fatto di tagli, riduzioni del PIL, peggioramento delle condizioni della finanza pubblica. Tutti tagli, tra l’altro, che porterebbe il Paese fuori dall’euro, con conseguenze drammatiche dal punto di vista economico, finanziario, politico e democratico.
I danni sociali sono sotto gli occhi di tutti: il caso più eclatante è quello della Grecia che nel giro di pochi anni è divenuto un Paese da quarto mondo. Altri effetti sulla tenuta democratica li stiamo vedendo in Spagna, Portogallo, Irlanda, Francia, Ungheria e Italia con le ultime elezioni. Per recuperare il progetto europeo, fondato su valori cristiani, civili e democratici, è necessario riaprire l’agenda europea ad una riflessione più profonda sulle regole e sulle loro conseguenze. E tra queste, sicuramente, sugli obiettivi di finanza pubblica in Europa.
In quest’ottica, sarebbe una dimostrazione di buon senso che il Parlamento europeo prendesse coscienza e conoscenza politica dei reali effetti dell’austerity (distruzione di ricchezza, crescita galoppante della disoccupazione e di povertà, aumento delle diseguaglianze ecc.), affinchè si concordi, con l’avallo delle autorità monetarie, un freno alle politiche recessive.
Quindi, per dar vita ad un’Europa più solidale e attenta alle condizioni strutturali dei singoli Paesi e cittadini, dovremo proporre come Italia una stabilizzazione del rapporto tra il debito pubblico e il PIL sui valori correnti, facendolo decrescere in maniera più sostenibile. Venti anni, infatti, sono pochi per uno Stato, soprattutto con un debito al 127% che cammina velocemente verso il 130%, a causa della recessione.
Tale proposta assicurerebbe la piena sostenibilità del rientri del nostro debito e che libererebbe nell’immediato importanti risorse da indirizzare verso la crescita e l’occupazione. Nessuno si illude che sia semplice cambiare politica economica in Europa, non fosse altro perché non tutti i paesi subiscono gli effetti deleteri dell’austerità. Anzi, alcuni ne traggono vantaggio, non capendo o facendo finta di non comprendere che la posta in gioco è la democrazia e la pace. Ma rimane il fatto, che dobbiamo muoverci in questa direzione prima che sia troppo tardi.