di Paul De Maeyer
ROMA, venerdì, 30 settembre 2011 (ZENIT.org).- L’ultimo obiettivo del terrorismo indonesiano è stata domenica 25 settembre la Bethel Full Gospel Church a Solo City, nella provincia di Giava Centrale, quando un attentatore suicida si è fatto esplodere tra i fedeli, provocando almeno una vittima e circa 30 feriti, di cui alcuni in modo grave.
Grazie alle impronte digitali e a un test del DNA, le autorità indonesiane sono riuscite ad identificare il kamikaze. Si tratta – come ha annunciato martedì il portavoce della Polizia nazionale, il generale Anton Bachrul Alam – del trentunenne Pino Damayanto, alias “Achmad Yosepa Hayat”. Secondo la polizia, l’uomo era membro del gruppo Jama’at Nashr At-tauhid (JAT o Partigiani dell’Unicità di Dio), un movimento estremista fondata dal chierico radicale Abu Bakar Bashir (o Ba’asyir).
Hayat, originario di Cirebon (Giava Occidentale), si trovava sull’elenco degli uomini più ricercati dalla polizia indonesiana per il suo coinvolgimento nell’attentato suicida di venerdì 15 aprile nella moschea della caserma di polizia della sua città. Secondo le autorità, Hayat aveva partecipato l’anno scorso assieme all’attentatore di Cirebon, Muhammad Syarif, ad un addestramento terroristico in un campo a Ciamis, Giava Occidentale. L’attentato di questa domenica ha d’altronde una sorprendente somiglianza con quello di Cirebon: una bomba artigianale a bassa intensità, con l’aggiunta di chiodi e bulloni in modo da aumentarne l’impatto.
Per l’attuale leader del JAT, Mochammad Achwan, il suo movimento non c’entra nulla con l’attentato a Solo, per il semplice fatto che Hayat non era un suo membro. “E’ la solita calunnia”, ha affermato al Jakarta Globe (26 settembre). “La polizia aveva detto anche che Syarif era un nostro membro, il che era falso”.
La domanda è comunque cosa ha spinto Hayat. Forse voleva vendicarsi per la condanna a 15 anni di carcere inflitta nel giugno scorso al fondatore del JAT, Bashir, per aver finanziato campi d’addestramento ad Aceh (Sumatra). Del resto, Solo (nota anche con il nome di Surakarta) ospita proprio il collegio di Ngruki, la scuola coranica di Bashir, ritenuta una vera e propria fucina di terroristi.
Altri, fra cui Dynno Cresbon, esperto di intelligence, non escludono che l’attentato di domenica sia stata una vendetta per l’uccisione da parte di soldati dell’antiterrorismo del super-ricercato terrorista malaysiano Noordin Mohammed Top, avvenuta proprio in un sobborgo di Solo nel settembre del 2009. La pista più calda però – come ha suggerito Cresbon – è che a provocare l’attacco siano stati i recenti scontri ad Ambon, nelle Molucche.
L’arcipelago delle Molucche (le “Isole delle spezie” conosciute anche con il nome indonesiano di Maluku) e in particolare l’isola di Ambon, dove è ancora vivo il ricordo del sanguinoso conflitto risalente agli anni 1999-2002 (conclusosi con gli accordi di Malino dopo migliaia di morti e centinaia di migliaia di sfollati), è stato nelle scorse settimane nuovamente teatro di gravi scontri tra musulmani e cristiani.
La nuova violenza, che ha provocato 7 vittime e decine di feriti, è esplosa domenica 11 settembre dopo la morte accidentale di un musulmano, quando si è sparsa la falsa voce che l’uomo sarebbe stato ucciso dai cristiani. Solo un massiccio dispiegamento delle forze dell’ordine (blindati inclusi) per separare le due comunità ha evitato il peggio.
Anche se la situazione si sta normalizzando, il clima rimane instabile, come dimostra la notizia che la polizia ha scoperto questo lunedì altre due bombe artigianali inesplose, di cui una davanti all’Ufficio del Sinodo della chiesa protestante delle Molucche. L’altro ordigno era nascosto di fronte ad una chiesa protestante ad Ambon. “Abbiamo trovato una bomba, e questa è la quarta”, così ha dichiarato martedì il portavoce della polizia nazionale, Anton Bachrul Alam, alludendo al fatto che giovedì 22 e sabato 24 settembre erano esplose due piccole bombe senza fare danni nella zona (The Jakarta Globe, 27 settembre). “Stiamo indagando se sono legate all’attentato di Solo”, ha aggiunto.
Tutto indica che ad Ambon è in atto una strategia della tensione, che viene alimentata da gruppi di provocatori e dal lancio di SMS che avvertano – senza alcun fondamento – per nuovi attacchi contro chiese cristiane o invitano i musulmani alla guerra santa. Emblematica è stata la voce che il Fronte di Difesa Islamica (FPI) di Giava sarebbe sbarcato nelle Molucche per attaccare obiettivi cristiani.
Gli scontri ad Ambon preoccupano non solo i cristiani. “Lo spirito del rispetto reciproco racchiuso nel motto nazionale Bhinneka Tunggal Ika (L’unità nella diversità) è sparito?”, così si chiede l’editoriale del Jakarta Post del 13 settembre. “Queste poche parole scritte tra le zampe del divino Garuda, l’uccello d’oro simbolo del Paese, riescono a spiegare la vera anima indonesiana”, che è “multiforme”, sostiene il quotidiano.
Nella loro analisi delle cause dei disordini, alcuni commentatori puntano il dito contro la segregazione sociale tra cristiani e musulmani, frutto del conflitto del 1999. “Gli sforzi del governo per riconciliare i gruppi in guerra nel 1999 ad Ambon meritano il dovuto rispetto, ma la più recente esplosione di violenza indica che la segregazione, anche se apparentemente efficace nel breve periodo, non è la ricetta per la prevenzione di conflitti”, ritiene il Jakarta Post.
Della stessa opinione è l’ex vice presidente dell’Indonesia, Jusuf Kalla. “Dividere i residenti in gruppi islamici e cristiani è la radice del problema in Ambon”, ha detto mercoledì 14 settembre (The Jakarta Post, 15 settembre). La gente deve mischiarsi, non vivere esclusivamente in zone cristiane o musulmane.
Diversa è l’analisi del vescovo cattolico di Ambon, monsignor Petrus Canisius Mandagi (Fides, 13 settembre). “Alcuni gruppi politici – ha dichiarato il presule – vogliono innescare un conflitto e sfruttarlo per propri interessi. Non vogliamo che la popolazione innocente delle Molucche debba ancora pagare per tali giochi di potere”.
Ancora più esplicita è stata un’altra fonte di Fides. “Il modello del conflitto di Ambon ricalca quello della guerra civile del 1999: vi sono numerosi militanti venuti dall’esterno delle Molucche e le armi in loro possesso provengono dagli arsenali dell’esercito. Questo desta molto sospetti”, ha aggiunto la fonte.
Che l’accusa di un possibile coinvolgimento dei militari nella violenza estremista non sia campata in aria lo dimostra un articolo pubblicato il 5 settembre sul GlobalPost. Basato sulla testimonianza dell’ex Capo di Stato maggiore delle forze armate indonesiane, Kivlan Zen, l’articolo conferma che anche dopo la caduta nel 1998 dell’allora uomo forte di Giacarta, Suharto, militari e servizi segreti hanno reclutato migliaia di elementi radicali per proteggere i propri interessi economici e politici, e combattere una sorta di “guerra per procura” contro le “forze filo-occidentali e riformiste” in Indonesia. “Ho reclutato circa 30.000 persone provenienti da moschee e frange islamiche”, ha raccontato Zen.
Secondo Leonard Sebastian, esperto dell’Indonesia presso la Nanyang Technological University di Singapore, ben poco è cambiato oggi: “è ancora un esercito politico”. “Ogni unità militare o generale ha una squadra di teppisti alla sua disposizione”, ha detto. L’unica differenza rispetto al passato è che i militari “usano ora i sistemi democratici per gestire i loro affari”.
Non c’è da meravigliarsi dunque che l’estremismo prosperi nell’arcipelago. Secondo il Setara Institute, nel 2010 si sono verificati in Indonesia 70 attacchi motivati dalla religione, un aumento significativo rispetto ai circa 40 registrati nell’anno precedente. Inoltre – un dato altrettanto eloquente -, solo il 4% di questi attacchi è finito davanti ad un giudice.
A fomentare l’estremismo è stata anche la decentralizzazione avviata nel più popoloso Paese musulmano al mondo. Come ricor
da Asia Times Online (28 settembre), che usa dati del settimanale indonesiano Tempo, dal 2001 la decentralizzazione ha permesso circa 150 leggi e provvedimenti locali basati sull’islam, di cui la maggior parte è stata proposta da politici di partiti non religiosi.
A farne le spese sono le varie minoranze religiose, non solo quelle cristiane ma anche quelle musulmane, soprattutto gli ahmadiyya. Il 6 febbraio scorso, una folla di circa 1.500 persone ha attaccato la casa di un capo degli ahmadiyya (considerati “apostati” ed “eretici”) nella località di Cikeusik, nell’estremo ovest della grande isola di Giava, uccidendo almeno tre persone. Lo scorso mese, un tribunale locale ha condannato 12 persone a pene da tre mesi a sei mesi di carcere per l’attacco (di cui anche un membro della minoranza), sentenze ritenute troppe blande.
Persino membri del governo del presidente Susilo Bambang Yudhoyono si scagliano contro gli ahmadiyya. Proprio il ministro per gli Affari religiosi, Suryadharma Ali, membro del Partito Unito dello Sviluppo (PPP, di ispirazione islamica), ha lanciato quest’estate un appello per mettere al bando la setta, non solo perché ha violato le norme imposte da Giacarta ma anche perché gli ahmadiyya non sono musulmani.
Il fondamentalismo islamico se la prende anche con le espressioni tradizionali della cultura indonesiana. Come riferito dall’agenzia AsiaNews (20 settembre), gruppi di radicali hanno distrutto dieci giorni fa a Purwakarta (Giava Occidentale) tre statue di personaggi del popolarissimo teatro delle ombre, ritenute dai dimostranti “materiale non islamico”.
L’attentato di domenica e gli scontri ad Ambon arrivano in un momento particolare per l’Indonesia, anche a livello internazionale. Come ricorda l’editoriale del Jakarta Post (27 settembre), il Paese ospiterà a novembre la 26.ma edizione dei Southeast Asian Games, il vertice dell’ASEAN e l’East Asia Summit. Inoltre, il parlamento di Giacarta sta dibattendo una serie di emendamenti alla legge sull’antiterrorismo, che secondo i critici costituiscono un ritorno ai tempi bui del regime autoritario di Suharto (1965-1998).
Per il Jakarta Post, l’attentato di Solo dimostra nuovamente che l’Indonesia “rimane vulnerabile alla minaccia terroristica”. Anzi, come ha scritto sullo stesso quotidiano il ricercatore Khairil Azhar, della Paramadina Foundation, non sarà l’ultimo degli attentati che hanno già scosso l’arcipelago. C’è da temere che abbia ragione. Purtroppo.