Libertà di religione a rischio in Nepal

Rimane irrisolta la questione della sepoltura dei fedeli non indù

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di Paul De Maeyer

ROMA, domenica, 13 febbraio 2011 (ZENIT.org). Neppure l’arrivo della democrazia sembra aver stabilizzato il Nepal. Le continue tensioni fra le varie formazioni politiche e l’ex guerriglia maoista, guidata da Pushpa Kamal Dahal – detto “Prachanda”, cioè il “terribile” – ha provocato una situazione di stallo, che si è sbloccata solo il 3 febbraio scorso dopo sette mesi di crisi con l’elezione da parte del parlamento di un nuovo primo ministro, Jhalanath Khanal, capo del partito comunista marxista-leninista NCP-UML.

“La mia priorità è la formazione di un nuovo governo che sia in intesa con tutte le parti politiche, per concludere il processo di pace del Paese e scrivere la nuova costituzione nel tempo stabilito”, così ha detto Khanal subito dopo la sua elezione all’agenzia AsiaNews (4 febbraio). “La Costituzione comprenderà le esigenze delle minoranze, delle comunità etniche e delle donne”, ha aggiunto.

Ed è propio qui che nascono i timori della piccola ma crescente comunità cristiana del Nepal, la quale conterebbe secondo alcune stime persino due milioni di fedeli, anche se – come ricorda il sito Églises d’Asie (7 gennaio) – l’unica cifra sicura è il numero di cattolici: circa 8.000, secondo i registri parrocchiali. La bozza di nuova Costituzione, che dovrebbe essere promulgata entro il 28 maggio prossimo e sostituirà il testo “ad interim” del 2007, vuole mantenere infatti l’impostazione “anti-conversioni” già presente nella Costituzione del 1959 e ripetuta in tutte le versioni successive, quella provvisoria del 2007 inclusa.

“Ogni persona avrà la libertà di professare, praticare e preservare la propria religione in conformità con la propria fede, o di astenersi da qualsiasi religione. A patto che nessuna persona sia autorizzata ad agire contrariamente alla salute pubblica, al contegno decente e alla moralità, abbandonandosi ad attività che mettano in pericolo la pace pubblica o convertendo una persona da una religione a un’altra, e nessuna persona agisca o si comporti in modo da violare la religione altrui”. Così stipola la Clausola 11 della Bozza preliminare della Commissione sui Diritti fondamentali e i Principi direttivi (CFRDP) dell’Assemblea costituente, nella quale non siede alcun rappresentante della comunità cristiana (Compact Direct News, 21 settembre 2010).

Anche se l’esperienza delle varie “leggi anti-conversioni” in India serve da monito, la comunità cristiana del Nepal rimane fiduciosa. “Non abbiamo alcuna paura e continueremo a fare quello che stiamo facendo, sia in caso di una Costituzione indù sia di una laica”, ha detto nel settembre scorso monsignor Anthony Sharma, gesuita e vescovo di Kathmandu. “La conversione viene da Dio; la gente risponde semplicemente a Lui. La nostra filosofia è ‘Noi proponiamo ma non imponiamo’. La crescita della Chiesa in Nepal è da attribuire alla testimonianza cristiana, e non solo alla predicazione”, così ha ribadito il presule e primo nepalese etnico ad essere ordinato sacerdote nella Compagnia di Gesù (Compact Direct News).

Altri esponenti cristiani non nascondono però la loro preoccupazione: il pericolo di abusi – in particolare l’accusa di presunte conversioni “forzate” o “indotte” – è infatti sempre dietro l’angolo. Alcuni cristiani, come Ramesh Khatri, direttore esecutivo dell’Association for Theological Education in Nepal, non riescono a togliersi di dosso l’etichetta di “rice christian”, cioè di una persona convertitasi in cambio di benefici materiali (CDN, 30 marzo 2010). Come in India, operano anche in Nepal d’altronde vari movimenti radicali indù, come il Nepal Defense Army (NDA), che prendono di mira la minoranza cristiana e musulmana.

Alcuni capi cristiani temono inoltre un ritorno alla monarchia induista. A simpatizzare ultimamente con il deposto re Gyanendra Bir Bikram Shah Dev – ritenuto da alcuni una incarnazione del dio Vishnu – sono proprio i maoisti di Prachanda, cioè uno dei gruppi che ha contribuito maggiormente alla caduta della monarchia. Lo stesso re ha rotto nel marzo scorso il suo silenzio e ha proclamato che la monarchia non è morta in Nepal e può essere restaurata qualora il popolo lo voglia. Un partito politico, il Rastriya Prajatantra Party-Nepal (RPP-N), chiede persino una consultazione popolare a favore della monarchia.

Un primo “test” per la libertà di religione in Nepal e per il nuovo primo ministro Khanal è la disputa esplosa recentemente attorno all’autorizzazione di seppellire i morti nei pressi del tempio indù di Pashupatinath, nella periferia est di Kathmandu. Mentre in Nepal viene praticata la cremazione secondo la tradizione induista, alcune religioni minoritarie preferiscono l’inumazione.

Ma a causa di un “boom” edilizio, i terreni per la sepoltura si fanno sempre più rari nella capitale, un fenomeno che ha spinto alcuni gruppi, fra cui i cristiani e i Baha’i, a seppellire i loro morti nella foresta di Sleshmantak, nei pressi del tempio di Pashupatinath, uno dei più importanti dell’induismo, che sorge sulle rive del fiume sacro Bagmati. Secondo i dati della Federazione cristiana del Nepal, ci sono già 200 pietre tombali nell’area di Sleshmantak e i cristiani hanno pagato dai 6 ai 10 euro per ogni tomba (AsiaNews, 28 gennaio).

Dopo le proteste della comunità indù, che considera sacra l’intera foresta, le autorità hanno proibito il 29 dicembre scorso le inumazioni a Sleshmantak e l’ente che gestisce il tempio – il Pashupati Area Development Trust (PADT) – ha cominciato a distuggere le prime tombe. In seguito alla protesta da parte delle minoranze religiose, fra cui il “Christian Advisory Committee for the New Constitution” (CACNC), il ministro della Cultura e degli Affari federali, Minendra Rijal, sembrava disposto ad autorizzare nuovamente le sepolture ma poi è stato costretto a cambiare idea sulla scia delle reazioni veementi dei gruppi indù radicali, dicendo che “non permetterebbe a nessuno di ferire i sentimenti religiosi di milioni di indù” (EDA, 10 febbraio).

La crisi si è aggravata quando la polizia ha bloccato il funerale di un giovane membro della minoranza etnica Kiranti-Rai, che da lunghissimo tempo seppellisce i propri defunti nella foresta di Sleshmantak. In seguito alle manifestazioni di protesta dei Kiranti, il governo ha autorizzato nuovamente il 2 febbraio la sepoltura di Kiranti nella foresta ed ha annunciato la creazione di una commissione che dovrà risolvere la delicata questione delle sepolture dei defunti non indù.

A sua volta, la United Christian Alliance of Nepal (UCAN) – un organismo ecumenico che raggruppa dieci denominazioni cristiane, fra le quali la Chiesa cattolica – ha pubblicato il 5 febbraio una dichiarazione chiedendo al nuovo governo di dedicare “tutta la sua attenzione alle comunità cristiane e alle persone che reclamano il diritto di poter seppellire i loro morti”, sempre secondo l’EDA. Di fronte al silenzio governativo, il segretario generale del CACNC, il reverendo C. Bahadur Gahatraj, ha lanciato un ultimatum che scadrà martedì 15 febbraio e che non esclude il ricorso allo sciopero della fame o al blocco delle strade con i cadaveri rimasti privi di sepoltura.

In attesa di una soluzione, i cattolici di Kathmandu hanno cominciato già circa un anno fa a praticare a loro volta la cremazione. “Per risolvere questa situazione noi cattolici abbiamo iniziato a cremare i morti, mettendo una lapide commemorativa sulle pareti delle chiese”, aveva annunciato il parroco della cattedrale dell’Assunzione di Kathmandu, padre George Karapurackal (AsiaNews, 22 febbraio 2010).

Questa soluzione provvisoria comporta però nuove forme di discriminazione, come ha ricordato mons. Sharma, che è anche il primo vicario apostolico del Nepal. “Sui ghat [le piattaforme sulle quali avvengono le cremazioni, ndr] di Pashupatinath, si fa una distinzione fra le caste, e i cristiani sono trattati come persone di bassa casta. Abbiamo
dovuto installare i nostri propri siti di cremazione”, così ha detto il presule (EDA, 10 febbraio).

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ZENIT Staff

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