Iran: rimane in bilico la vita di Youcef Nadarkhani

Il pastore evangelico era stato condannato alla pena di morte nel 2009

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di Paul De Maeyer

ROMA, lunedì, 25 luglio 2011(ZENIT.org).- In Iran, il pastore evangelico Youcef Nadarkhani, sposato e padre di due figli, continua a rischiare l’impiccagione. Come riferito da varie fonti, fra cui AsiaNews e l’organizzazione statunitense Christian Solidarity Worldwide (CSW), che si batte per la libertà di religione nel mondo, la Corte Suprema della Repubblica Islamica ha solo sospeso la condanna a morte inflitta al convertito e non annullato, come voleva una notizia diffusa il 3 luglio scorso dall’Agence France-Presse (AFP) e basata su dichiarazioni del legale del pastore trentaduenne, Mohammad Ali Dadkhah, il quale però non aveva ancora potuto leggere il verdetto.

Nadarkhani, che si è convertito al cristianesimo all’età di 19 anni e guida da ormai un decennio una comunità evangelica – la Full Gospel Church of Iran -, era stato arrestato nell’ottobre del 2009 nel capoluogo della provincia di Gilan (nel nord del Paese, sul Mar Caspio), Rasht, quando cercava di far registrare la sua chiesa. A far scattare il suo arresto sembra essere stata una discussione con le autorità locali sul monopolio islamico nell’educazione religiosa dei bambini iraniani. Il capo di imputazione iniziale era infatti quello di aver protestato, ma poi è stato riformulato in quello di apostasia (abbandono della religione islamica) ed evangelizzazione di musulmani.

Trovato colpevole, il processo in primo grado si era concluso con la condanna a morte per impiccagione, un verdetto che ha suscitato non poche questioni e proteste. La legge iraniana infatti non prevede la pena capitale per apostasia, anzi l’articolo 13 della Costituzione riconosce oltre allo zoroastrismo e l’ebraismo anche il cristianesimo, ed inoltre l’articolo 23 stabilisce che “nessuno può essere molestato o ripreso semplicemente perché aderisce ad un certo credo” [1].

Nel caso di Nadarkhani, la condanna alla pena capitale è stata pronunciata in base ad una serie di fatwa emesse da tre massimi esponenti religiosi del regime, cioè gli ayatollah Ruhollah Khomeyni (il “padre” della Rivoluzione Islamica del 1979, morto nel 1989), Ali Khamenei (l’attuale Guida Suprema di Teheran) e Makarem Shirazi (uno dei più noti studiosi islamici del Paese). Proprio questo spiega perché la sentenza è stata confermata in secondo grado dalla Corte d’Appello della provincia di Gilan nel settembre 2010 e perché neppure la Corte Suprema l’ha annullata. I due giudici supremi che hanno esaminato il ricorso presentato dalla difesa di Nadarkhani il 5 dicembre del 2010 hanno preferito infatti rimandare per vizi procedurali il fascicolo al tribunale di Gilan, a cui tocca adesso decidere se rilasciare, giustiziare o invece riprocessare il convertito, forse già nell’autunno prossimo.

I giudici di Gilan dovranno stabilire se Nadarkhani era veramente un musulmano prima della sua conversione al cristianesimo, cioè da quando aveva 15 anni (ovvero dalla pubertà, considerata nell’islam l’ingresso nell’età adulta) fino ai 19 anni. “Se provato che era un musulmano praticante da adulto, e non si pente, la condanna sarà eseguita”, si legge in una traduzione non ufficiale della sentenza (AsiaNews, 21 luglio). Nel caso contrario, il verdetto iniziale sarà da considerare inappropriato. Durante il suo intero processo, il pastore – nato e cresciuto in una famiglia musulmana – ha sempre sostenuto di non aver mai personalmente abbracciato la religione islamica.

“Questo è chiaramente un esito devastante per il pastore Nadarkhani, la sua famiglia e la rete della Church of Iran, e i nostri pensieri e preghiere sono con loro”, ha dichiarato uno dei responsabili di CSW, Andrew Johnston, che ha ricordato che la pena capitale per apostasia non è contemplata nella legge iraniana (13 luglio). “La sentenza ha implicazioni profondamente preoccupanti per tutti i cristiani in Iran e costituisce un ulteriore indicatore del disprezzo da parte del regime per i diritti fondamentali e la libertà”, ha continuato l’advocacy director. CSW ha lanciato anche un appello alle autorità di Teheran, chiedendo di rispettare le disposizioni dei trattati internazionali ai quali ha aderito, fra cui il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (ICCPR), che garantisce la libertà di religione e la libertà di cambiare la propria religione o fede.

Anche il dipartimento di Stato USA segue da vicino il caso del pastore, che sempre con l’accusa di apostasia e di proselitismo era stato arrestato già una prima volta nel dicembre 2006 ma rilasciato nel gennaio del 2007. “Siamo costernati”, così si legge in un comunicato della portavoce Victoria Nuland, pubblicato il 6 luglio sul sito dello State Department. “Se eseguita, sarebbe la prima esecuzione per apostasia in Iran dal 1990”, continua il testo, riferendosi all’impiccagione nel 1990 di un altro pastore, Hussein Soodmand. Nadarkhani “è solo una delle migliaia di persone che subiscono persecuzioni per le loro credenze religiose in Iran”, spiega il breve comunicato, che ricorda la sorte di sette capi della comunità dei Baha’i condannati a 20 anni di carcere e di centinaia di sufi, che sono stati frustati in pubblico, semplicemente per la loro fede.

Secondo i commentatori, il regime iraniano ha effettuato nel corso degli ultimi mesi un giro di vite nei confronti delle minoranze religiose, incluse quelle riconosciute. Soprattutto la crescita della comunità evangelica è mal vista da Teheran. Come ha ricordato il Christian Post (5 luglio), nel gennaio scorso il governatore generale della provincia di Teheran, Morteza Tamadon, ha lanciato un duro attacco contro i cristiani, dicendo che il “colpo finale” nei loro confronti era imminente e chiamando le chiese evangeliche “una setta falsa, deviante e corrotta”. E nel maggio scorso, uno dei più radicali chierici iraniani, l’ayatollah Mohammad Taghi Mesbah Yazdi, ha criticato fortemente le autorità del suo Paese, accusandole di non fare abbastanza per bloccare la crescita delle chiese domestiche. “Dobbiamo porre fine al movimento cristiano”, ha dichiarato il chierico, ritenuto il consigliere spirituale del presidente Mahmoud Ahmadinejad (Compass Direct News, 22 giugno). Secondo alcune stime, il numero di cristiani in Iran è salito da poche centinaia nel 1979 – l’anno della Rivoluzione – ad almeno 100.000 oggi.

A subire le scuri del regime sono spessi anche i familiari più stretti e i legali dei cristiani arrestati e processati. Anche qui il caso Nadarkhani è eloquente. Non solo sua moglie Fatemeh “Tina” Pasandideh ha passato l’anno scorso quattro mesi dietro le sbarre per il suo coinvolgimento nella chiesa e ha rischiato una condanna all’ergastolo ma anche l’avvocato del pastore, Dadkhah, è finito nei guai. E’ stato, infatti, condannato a 9 anni di galera per “azioni e propaganda contro il regime islamico”, come ha raccontato lui stesso all’agenzia AFP (3 luglio).

Non sempre però i giudici iraniani seguono la linea dura nei confronti dei cristiani. Lo dimostra il processo contro un gruppo di fedeli della Church of Iran, accusati di “azione contro l’ordine del Paese” e di bere alcool, conclusosi nel maggio scorso davanti al Tribunale Rivoluzionario di Bandar-Anzali (sempre nella provincia di Gilan) con il proscioglimento degli 11 imputati (CSW, 23 maggio). Secondo il verdetto scritto, reso pubblico a metà maggio, le attività degli imputati ricadono sotto l’articolo 13 della Costituzione, che permette ai seguaci delle religioni riconosciute di “svolgere i loro riti e cerimonie religiose, e di agire secondo i propri principi in materia di affari personali e di educazione religiosa”. “Ci congratuliamo con il giudice in questo caso per aver garantito un processo equo e per aver accettato la tesi che queste persone appartengono ad una denominazione cristiana”, ha commentato il capo esecutivo di CSW, Mervyn Thomas, la sentenza, definendola “un risultato estremamente positivo”.

[1] http://www.iranchamber.com/government/laws/constitution.p
hp

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ZENIT Staff

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