Originalità culturale ed efficacia storica della visione cristiana

di Sergio Lanza*

ROMA, giovedì, 8 luglio 2010 (ZENIT.org).- La realizzazione della persona (successo) é legata al superamento della inflessione autoreferenziale (egoismo): «Il mondo moderno confonde semplicemente due cose che la sapienza antica aveva distinte: confonde l’individualità e la personalità»[1].

Senza una forte connotazione antropologica personalistica, le strutture l’individualismo socioeconomico raggiungono paradossalmente il tanto vituperato e temuto (e non a torto) collettivismo e in qualche modo lo risuscitano nei suoi esiti negativi: producendo una cultura di massa, che é il regno della irresponsabilità. Dove, cioé, la globalizzazione del sistema esige la frammentazione irrelata delle microresponsabilità, esimendo dalla considerazione degli esiti reali dei processi economici e produttivi nel loro insieme (scatole cinesi…).

La centralità della persona si illumina nella prospettiva del Vangelo e giunge a pienezza: «Così la forza della dottrina sociale della Chiesa sembra essere prima di tutto l’ ‘antropo-centrismo’ del Vangelo che fa parte del suo ‘teo-centrismo’ poiché ‘Dio ha tanto amato il mondo – ed in questo mondo soprattutto l’uomo – da dare il suo Figlio unigenito, perché nessuno muoia, ma abbia la vita eterna’(Gv 3,17)»[2].

Per contrapposte ragioni, sia il capitalismo liberista e il collettivismo marxista riducono il lavoro a valore economico; non ne comprendono il significato antropologico, perché non riconoscono la centralità della persona. Negare la persona è negare il vero valore del lavoro. Si comprende allora quanto Giovanni Paolo II afferma nell’enciclica Centesimus Annuns: «Vi è un primo e fondamentale oggetto della DSC, costituito dalla dignità della persona umana, ossia dalla verità dell’uomo, nella pluralità dei beni e diritti che la esprimono. E’ questo l’oggetto fondamento che come tale esprime più di un ambito di pertinenza. Denota piuttosto un principio portante o fondante, uno sfondo o orizzonte di significato, una ’trama’»[3].

E non si tratta di una modernizzazione del pensiero teologico, ma di una sua radice tradizionalissima (e perciò modernissima). Come insegna s. Tommaso, ricordando s. Agostino, in un passo mirabile: « Il punto di arrivo di questa via infatti è la fine del desiderio umano. Ora l’uomo desidera due cose principalmente: in primo luogo quella conoscenza della verità che è propria della sua natura. In secondo luogo la permanenza nell’essere, proprietà questa comune a tutte le cose. In Cristo si trova l’una e l’altra… Se dunque cerchi per dove passare, accogli Cristo perché egli è la via: “Questa è la strada, percorretela” (Is 30,21). Dice Agostino: “Cammina attraverso l’uomo e giungerai a Dio”. E’ meglio zoppicare sulla via che camminare a forte andatura fuori strada. Chi zoppica sulla strada, anche se avanza poco, si avvicina tuttavia al termine. Chi invece cammina fuori strada, quanto più velocemente corre, tanto più si allontana dalla meta»[4].

La salvezza che il Vangelo proclama riguarda l’uomo nella sua integrità totale: come soggetto posto in costitutiva relazione con gli altri uomini e con il creato. E’ una nuova creazione. La tipicità cristiana dell’azione non sta solo nell’intenzione, ma nella realizzazione. Il Vangelo non prescrive tecniche e soluzioni specifiche, ma orienta e impegna concretamente nel determinare il profilo sociale d economico dell’agire. Non esiste una forma univoca di economia cristiana; ma certamente si danno forme compatibili, coerenti, congeniali…; e il loro contrario.

L’illusione della neutralità

Siamo così condotti sul terreno spinoso della “laicità” o pretesa neutralità delle posizioni. La neutralità non esiste. Ciascuna scelta economica dice relazione intrinseca a una visione della persona e della società. Ha senso parlare di etica “laica”, se ciò significa non religiosamente ispirata; ma non ha senso pretendere – come si vorrebbe – che essa sia scevra da ogni precomprensione e opzione di campo, che essa esiste sempre, anche quando non è riconosciuta (ignoranza) o quando viene negata (mascheratura).

Onestà intellettuale vuole che siano esibiti i principi e i criteri che presiedono alla formulazione di direttive e norme etiche. La posizione di chi, per esempio, persegue (o dichiara di perseguire) una definizione di un’etica che prescinda dalle convinzioni dell’azienda e dei suoi dirigenti e che, invece, si rifaccia a organismi sovranazionali, lontani da ogni compromesso, è illusoria e capziosa. Per non dire della equivocità della certificazione etica, e dell’uso a volte spregiudicato, a volte perlomeno interessato che il campo semantico dell’etica oggi registra.

Per superare la dicotomia tra istituzioni ed etica, e la riduzione psicologica della libertà che vi è sottesa[5], per superare la divaricazione e incomunicabilità tra etica ed economia é necessario ristabilire un orizzonte di pensiero capace di superare quella incomunicabilità dei saperi che fa da sfondo e legittimazione alla dissezione sistemica della società. I processi di differenziazione funzionale (weberianamente: razionalizzazione) della società producono sottosistemi (economia, politica, famiglia, educazione, scienza…) sempre più specializzati e ‘razionalizzati’ nelle loro funzioni e sempre meno comunicanti: frammentazione dei mondi operativi, dissoluzione dell’orizzonte dei riferimenti simbolici e normativi. Anche la religione è ridotta a sottosistema. E l’istanza morale a problema strettamente privato.

A una crescente globalizzazione dell’economia e delle comunicazioni si accompagna e fa da contraltare il moltiplicarsi delle differenze e delle divisioni culturali: «Gli uomini del ventunesimo secolo probabilmente e percepiranno se stessi come nodi integrati di una rete di interessi condivisi, così come oggi si percepiscono agenti autonomi in un mondo darwiniano di competizione per la sopravvivenza. Per loro la libertà personale avrà poco a che fare con il diritto di possedere e di escludere gli altri dal possesso, e molto con il diritto di essere inclusi in una rete di relazioni reciproche. Saranno loro la prima generazione dell’era dell’accesso»[6].

In questo contesto, la forte proposta della verità cristiana non conduce in alcun modo, come da qualche parte si teme, a forme di pressione indebita, o, addirittura – come di recente è stato scritto – a esiti inevitabili di teocrazia dissimulata. Quando è in gioco la verità sull’uomo nella sua dignità di persona e nei diritti inalienabili della vita, i cristiani ritengono non solo democraticamente legittimo ma moralmente doveroso compiere ogni sforzo perché tale verità diventi convinzione ed ethos condiviso. Al contrario, il passaggio da una accezione umanistica a una meramente sociologica della cultura ne segna il regresso a figura formale, senza istanza di valore e senza proiezioni contenutisticamente contrassegnate: la cultura è allora il nome che si dà a ciò che accade, comunque accada, senza riguardo all’uomo e alla società. Questa neutralizzazione della cultura è lo sfondo su cui prende forma la diffusa e nefasta neutralizzazione della democrazia, dell’educazione, dell’economia ecc.

La tesi fondamentale dell’Illuminismo era che la scienza fosse sinonimo di verità e perciò si opponesse radicalmente alla religione[7]. Ora però «diventa sempre più evidente che le speranze dell’Illuminismo secondo cui l’uomo sarebbe riuscito, attraverso il conoscere, a lasciar dietro di sé la minorità imputabile a se stesso e a creare un ordine di coesistenza fondato sulla ragione, si dimostrano una utopia»[8].

La fede cristiana rivendica dunque la propria capacità di interpretare l’esistenza e di orientare, in essa, l’uomo viandante del nostro tempo. Essa appare come parola forte e incisiva, di marcato e alto profilo, di presa esistenziale, come il vino nuovo del Vangelo. E’
necessario, anzitutto, respingere la dilatata convinzione che religione e ragione appartengano a due mondi, se non contrapposti, quantomeno incomunicabili, sgombrare il campo dal pregiudizio che mortifica in partenza le possibilità dell’annuncio cristiano: quello cioè secondo il quale il fatto religioso (non escluso quello cristiano) sia da rubricarsi tra i fenomeni subculturali. E’ necessario rivendicare fortemente la dignità e il rilievo culturale del vangelo. E ciò avviene non solo nei luoghi della ricerca e del sapere accademico, ma, capillarmente, nelle forme concrete e quotidiane dell’esistenza, che mettono in valore la peculiarità della fede cristiana come sapere e sapienza di vita.

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*Sergio Lanza è Assistente Ecclesiastico Generale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, docente di Teologia pastorale all’Istituto pastorale “Redemptor Hominis” della Pontificia Università Lateranense di Roma, e consultore della Congregazione per il Clero e del Pontificio Consiglio per la Cultura.

 

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1) J. Maritain, Tre Riformatori, Brescia 1964, 26.

2) K. Wojtyla, Intervista…, 33.

3) Centesimus Annuns, 11.

4) Tommaso d’Aquino, Esposizioni su Giovanni, cap.14, lectio 2 [commento a “Io sono la via”, Gv 14, 6).

5) Cf P. Ricoeur, Liberté, in Encyclopedia Universalis, IX, Paris 979-985.

6) J. Rifkin, L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, Milano 2000, 17.

7) Cf S. Seidman, The postmodern Turn – New Perspectives on Social Theories, Cambridge University Press, 1994.

8) F.X. Kaufmann e J.B.Metz, Capacità di futuro. Movimenti di ricerca nel Cristianesimo, Brescia 1988, 27.

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ZENIT Staff

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