ROMA, giovedì, 26 maggio 2011 (ZENIT.org).- L’espressione politica dei cattolici in un solo (o prevalente) partito dipende da un giudizio prudenziale di convenienza, non è una necessità assoluta, ma non deve nemmeno essere demonizzata come sbagliata. Le forme della presenza politica diretta sono oggetto di deliberazione, tenuto conto delle esigenze del tempo. Perfino nel caso del Partito popolare italiano e della democrazia cristiana c’erano visioni diverse, non solo tra i politici cattolici ma anche nelle gerarchie ecclesiastiche.
Ci sono due estremi opposti da evitare: da un lato l’appartenenza obbligata ad un solo partito come se si trattasse di un dogma di fede e come se questo partito non portasse avanti un programma politico ma un programma religioso; dall’altro la diaspora, ossia l’altrettanto dogmatica tesi della negatività di qualsiasi forma di unità e raccordo politico dei cattolici. Il primo atteggiamento non tiene conto della legittima discrezionalità del giudizio sull’appartenenza politica e stabilisce un nesso diretto ed obbligato tra appartenenza ecclesiale ed appartenenza partitica.
Il rischio è che si faccia coincidere partito e Chiesa, che si delegittimino automaticamente pensieri politici diversi espressi comunque da cattolici, che si trasferiscano dentro la comunità ecclesiale contrasti di tipo politico. La seconda separa nettamente l’appartenenza ecclesiale con le forme della presenza politica, tra le quali invece c’è un profondo nesso dato che anche nelle scelte politiche si giocano significati assoluti. Uno degli aspetti più negativi della diaspora politica dei cattolici è proprio questo: si perde nella coscienza comune la consapevolezza del fatto che nelle scelte politiche si giocano significati assoluti e quindi che la religione cristiana è indispensabile anche per l’instaurazione dell’ordine temporale. In gioco c’è il rapporto tra l’ordine naturale e l’ordine soprannaturale. La diaspora politica, che non può non essere anche una diaspora etica, sottintende che l’ordine naturale si può organizzare da sé in totale autonomia rispetto a quello soprannaturale. La diaspora, quindi, esclude Dio dall’ambito pubblico.
Il criterio più convincente potrebbe essere quello della “unità possibile”, laddove l’aggettivo possibile ha due significati: affermare che l’unità è fattibile, e che la si attuerà secondo il responsabile giudizio prudenziale relativo ai tempi, alle situazioni e alle scelte in gioco, ossia per quanto possibile, ma comunque cercando di volta in volta il massimo grado. L’unità possibile, come ho appena detto, è anche importante come segno visibile della dimensione storica e pubblica della religione cristiana, elemento che andrebbe dimenticato se nessuno nella politica effettiva vi si rifacesse esplicitamente non solo a titolo personale ma anche di gruppo. Si potrebbe forse adoperare qui il motto: in essentialibus unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas. Sulle questioni fondamentali ci vuole unità, nelle questioni dubbie è lecito adoperare il libero giudizio personale, in tutto ci vuole la carità.
Se ci sono in gioco valori umani fondamentali – i principi non negoziabili di cui abbiamo già parlato – i cattolici in politica dovrebbero essere uniti e collaborare insieme non tanto per difendere una opinione cattolica o interessi confessionali quanto per difendere una verità e un bene dell’uomo. Si badi però che non c’è modo migliore di difendere la verità e il bene dell’uomo se non anche difendendo la proposta cristiana e non si deve denunciare di confessionalismo con troppa facilità la richiesta di riconoscimento pubblico per la religione. Nella Rerum novarum, per esempio, Leone III difendeva il diritto al riposo domenicale fondandolo sul diritto a partecipare alle funzioni religiose. Si trattava di una richiesta confessionale? di fatto, come disse poi Giovanni Paolo II, in quella richiesta erano impliciti anche molti diritti umani. Bisogna riconoscere che in tante richieste di riconoscimento pubblico del cattolicesimo ci sono implicite rivendicazioni di autentici diritti umani.
Se invece si tratta di problemi aperti a più soluzioni o perché il bene lo si può fare in molti modi o perché riguardano situazioni in evoluzione o infine perché la conoscenza della realtà è complessa ed è impossibile poter scegliere senza incertezza, allora è legittimo il pluralismo delle opinioni. In tutto, comunque, il cattolico in politica non deve mai dimenticare di esercitare la carità, intesa non solo come un atteggiamento morale e spirituale che si aggiunge all’agire politico, ma che anche lo rischiara e lo anima dall’interno.
La carità fa capire meglio i doveri politici, ci aiuta a chiarire la distinzione tra le cose fondamentali e secondarie. La carità fa amare, ma con ciò fa anche vedere, perché l’amore ci fa conoscere meglio la realtà amata. La carità è sempre connessa con la verità. È logico che una unità politica sulle questioni fondamentali – i principi non negoziabili – ha bisogno di essere costruita a livello prepolitico, e che ci deve essere una unità culturale prima ancora che politica. dal problema dell’unità politica si passa quindi a quello dell’unità culturale, che viene prima anche se tra le due dimensioni si dà una certa circolarità perché la politica non solo si nutre di cultura, ma anche la produce.
————
*Mons. Giampaolo Crepaldi è Arcivescovo-vescovo di Trieste e Presidente della Commissione “Caritas in veritate” del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE).