Economia e bene comune: un incontro possibile?

di Tommaso Cozzi*

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ROMA, venerdì, 20 maggio 2011 (ZENIT.org).- L’idea di bene comune comparve per la prima volta nell’ambito dell’economia nella seconda metà del Settecento grazie al fondatore stesso della moderna economia politica, lo scozzese Adam Smith, con la più famosa metafora della storia del pensiero economico: la «mano invisibile». Secondo Smith il bene comune è un risultato non-intenzionale, una sorta di «effetto collaterale».

Lo scopoo l’intenzione, cioè, di chi effettua uno scambio o di chi mette su un’impresa non è il bene comune o il bene dell’altro contraente, ma il bene-interesse proprio.

Se, però, il sistema sociale e istituzionale è ben congegnato, in certi contesti può verificarsi l’alchimia degli interessi privati in bene comune, o di vizi privati in pubbliche virtù: gli individui agiscono per interesse e ognuno è «disinteressato» nei confronti degli altri, ma la «mano invisibile» del mercato trasforma quegli interessi in bene comune. L’imprenditore, ad esempio, quando decide di fondare un’impresa, non è mosso (secondo questa teoria) dall’amor patrio o dalla ricerca del bene comune; ciò che lo spinge è il suo interesse (e quello dei suoi familiari, al massimo).

Il mercato, però, quando funziona, è proprio quel meccanismo che fa sì che questo imprenditore , senza volerlo e spesso senza esserne consapevole, contribuisca anche al bene comune, creando cioè posti di lavoro, prodotti di qualità, innovazione tecnologica, ricchezza.

Il bene comune non è così generato da chi intenzionalmente si prefigge di «commerciare per il bene comune», ma da chi cerca, con prudenza, soltanto il proprio interesse personale, disinteressato al bene degli altri. Invece, qualunque azione che si proponga come scopo diretto quello di promuovere il bene comune produrrà effetti perversi per l’impresa e per la società. Da questo teorema scaturisce poi anche un corollario, che riporto con le parole dello stesso Smith:

«Non ho mai visto fare qualcosa di buono da chi pretendeva di commerciare per il bene comune». [1]

A tale proposito il premio Nobel Milton Friedman, commenta la tesi di Smith sulla “Mano invisibile”: “L’idea che i manager e i dirigenti abbiamo una «responsabilità sociale» che va oltre il servire gli interessi degli azionisti o quelli dei loro membri è andata guadagnando un ampio e crescente consenso. Una tale visione tradisce un fondamentale fraintendimento del carattere e della natura di un’economia libera. In una tale economia, esiste una e una sola responsabilità d’impresa: usare le proprie risorse e impegnarsi in attività orientate all’aumento dei propri profitti nel rispetto delle regole del gioco”.[2] Tuttavia l’idea di bene comune, un tempo al centro della riflessione in ambito economico, a partire dalla fine del XVIII secolo scompare addirittura dal lessico economico.

Se infatti l’economia di mercato ai suoi inizi viene fondata non solamente sui principi dello scambio di equivalenti (di valore) e su quello redistributivo , ma anche sul principio di reciprocità, con lo scoppio della rivoluzione industriale e quindi con l’affermazione piena del capitalismo che il principio di reciprocità si perde per strada. Con la modernità si afferma così l’idea secondo la quale un ordine sociale può reggersi solamente sugli altri due principi. La nostra letteratura, come sostiene Zamagni richiamando l’ampio dibattito del “ Big trade Off” , si è dimenticata del principio di reciprocità, del principio cioè il cui fine proprio è quello di tradurre in pratica la cultura della fraternità, descrivendo invece una società di umani in cui si estingue il senso di fraternità in cui tutto si riduce a migliorare lo scambio di equivalenti. Non è però capace di futuro una società in cui si dissolve il principio di gratuità, non è cioè capace di progredire quella società in cui esiste solamente “il dare per avere” oppure “il dare per dovere”.

Sarebbe invece opportuno che il mercato riuscisse a ritornare ad essere mezzo per rafforzare il vincolo sociale attraverso la promozione sia di pratiche di distribuzione della ricchezza, sia di uno spazio economico in cui i cittadini possono mettere in atto e rigenerare quei valori quali: la solidarietà, lo spirito di intrapresa, la simpatia, la responsabilità d’impresa, senza i quali il mercato potrebbe non durare a lungo. Un’ idea di mercato dunque in cui lo scambio cessa di essere anonimo e impersonale ma ritrova l’aspetto essenziale della relazione di reciprocità.

1) A. SMITH, TheWealth of Nations (1776), Oxford 1976, 456

2) M. FRIEDMAN, Capitalism and Freedom, Chicago 1962, 133

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*Tommaso Cozzi è docente di strategia delle imprese presso l’Università di Bari.


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ZENIT Staff

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