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Perché una folla immensa, proveniente da ogni parte della terra, ha voluto essere presente domenica scorsa a Roma per partecipare alla beatificazione di Giovanni Paolo II? Perché tanti, in tutto il mondo, hanno seguito per televisione e sulla rete questo evento con sincera partecipazione emotiva? Una prima risposta si può cogliere nelle parole conclusive dell’omelia di Benedetto XVI: “Continua – ti preghiamo – a sostenere dal Cielo la fede del Popolo di Dio. Tante volte ci hai benedetto in questa Piazza! Oggi, preghiamo: Santo Padre ci benedica!” Papa Ratzinger si è collegato così idealmente a quanto da lui stesso affermato durante le solenni esequie di Giovanni Paolo II: “Possiamo essere sicuri che il nostro amato Papa sta adesso alla finestra della casa del Padre, ci vede e ci benedice”. Parole che hanno toccato il cuore di tutti, perché capaci di esprimere in modo semplice e profondo il bisogno di sentire ancora la vicinanza del grande Papa al nostro cammino, alla speranza e alle lacrime. Giovanni Paolo II è entrato nel cuore di tutti come uno di casa, un padre, un fratello, un amico: e questo è stato reso possibile anzitutto dalla sua grande umanità. Vorrei richiamarla con un piccolo ricordo personale. Ho avuto il grande dono di predicargli gli ultimi esercizi spirituali cui abbia partecipato di persona, nel 2004. Al termine, dopo l’udienza ufficiale, mi aveva voluto a pranzo. Fu per me un’ora di luce. Non dimenticherò mai come rise di cuore mentre gli leggevo qualcuna delle lettere dei bambini della Parrocchia, dove allora esercitavo il mio servizio pastorale. Avevano voluto scrivergli sapendo che avremmo riflettuto insieme per una settimana intera su Gesù e il suo amore per noi. Ne leggemmo un paio. “Ho visto per televisione che sei un po’ vecchietto – scriveva uno -, però Ti voglio bene lo stesso perché mi sembri mio Nonno!”. “Noi non ci conosciamo – diceva un altro – però se ci conosciamo (il condizionale non è il forte dei bambini!) facciamo subito amicizia, perché io sono uno che fa amicizia con tutti”. Giovanni Paolo rise, come fa un padre dall’umanità ricca e dolcissima. Totalmente immerso in Dio, sapeva essere totalmente umano, attento agli aspetti anche più modesti e semplici della vita e insieme capace di andare subito dritto al cuore delle persone che lo incontravano. Ed ecco un’altra ragione che ha spinto tanti a vivere la beatificazione di Giovanni Paolo II come un evento importante per la propria vita: se l’affidamento alla sua vicinanza a Dio in cielo e il ricordo della sua calda umanità motivavano molti, sono convinto che la ragione più profonda dell’incisività e della presenza di Karol Wojtyla fra noi, ieri e oggi, sia stata la sua fede profonda, il suo lasciarsi totalmente abitare da Dio. Pregare con lui, stargli accanto mentre celebrava l’eucaristia è stato per chi l’ha vissuto un momento di luce che non si potrà mai più dimenticare: sentivi la presenza del Signore, eri come contagiato da un dialogo d’amore vero, fatto di parole, di silenzi, di gemiti dell’anima. Lo sentivi così vicino al cuore degli uomini perché nascosto nel cuore di Dio. Capivi che Cristo era tutto per Lui: la chiamata, il dono, la promessa, il sogno, l’eredità, la speranza… È questo incontro di terra e di cielo, è questo stare sulla soglia di una duplice e unica fedeltà – a Dio e al mondo – che lo ha fatto grande: non era un uomo che si preoccupasse di cercare il consenso. Se alle donne e agli uomini del nostro tempo ha rapito il cuore, è perché si sforzava di piacere a Dio solo. Non ha rincorso l’“audience”, non ha barattato la verità, anche quando era doloroso affermarla, come nel momento in cui volle chiedere perdono per le colpe commesse nel tempo dai figli della Chiesa. Era convinto – e lo ripeteva con passione – che la verità rende liberi: era la parola di Gesù in cui vedeva compendiato quanto di più importante avesse da dire al mondo. Alla piccola commissione di cui facevo parte per preparare il documento Memoria e riconciliazione, che avrebbe accompagnato la solenne richiesta di perdono, aveva detto congedandosi: “Coraggio! Siate una commissione coraggiosa!”. Con questa sovrana libertà di cuore, frutto dell’obbedienza alla verità, ha guidato la Chiesa e in certo senso il mondo intero: lo ha fatto dall’alto della cattedra ineccepibile della fede e dell’amore, del volere sempre e solo il bene autentico degli uomini, quello che nessuno garantisce come il loro Creatore. È stato protagonista di cambiamenti epocali, sempre come guidato da una mano invisibile, abbandonato a un amore fedele ed eterno, capace di condurre i suoi passi e le sue scelte fra le tempeste della storia con l’audacia del profeta e la serena fiducia del contemplativo. E anche qui un piccolo ricordo può dire più di tante parole: avevo avuto occasione di ricordargli la donna ebrea che lo aveva abbracciato e baciato a Yad-wa-Shem – il memoriale dell’Olocausto a Gerusalemme -, dichiarando ai giornalisti che lo aveva fatto perché quell’uomo le aveva salvato la vita al tempo della Shoah. Non avevo esitato a dirgli che quella scena mi aveva profondamente commosso. Aprì le braccia verso il cielo e disse: “Sì, ricordo… Però, è la donna che lo ha raccontato”, quasi a scusarsi che un suo gesto di generosità e di coraggio – custodito nel silenzio del cuore – fosse stato reso pubblico. Pensai che quel gesto non era che la punta di un iceberg, la trasparenza di un universo di carità e di audacia che aveva intessuto l’intera opera di Karol Woytila, vissuta totalmente e sempre al cospetto dell’Eterno. È di questa confidenza con Dio che abbiamo tutti più che mai bisogno. Le folle di domenica scorsa lo hanno testimoniato con l’eloquenza silenziosa dell’esserci, del voler in ogni modo partecipare.