Trovare Cristo in Sri Lanka

Intervista al primo prete camilliano cingalese

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ROMA, lunedì, 2 maggio 2011 (ZENIT.org).- Il simbolo della croce rossa risale a San Camillo, che nel XVII secolo fu il fondatore dei Ministri degli infermi e che è tuttora il patrono dei malati e degli infermieri.

Oggi, il suo primo figlio spirituale in Sri Lanka spera di poter portare avanti la sua missione, aprendo un giorno un centro di cure per i malati di Aids nella sua terra d’origine.

Il padre camilliano Massimiliano Ranatunga è nato a Ragama vicino Colombo. Da giovane, Nihal (Massimiliano è il suo nome di battesimo) è stato buddista cingalese. Ma le difficoltà economiche conseguenti alla morte di suo padre hanno innescato una catena di eventi che hanno portato alla sua conversione e poi alla sua vocazione religiosa.

Padre Ranatunga ha parlato con il programma televisivo “Where God Weeps”, realizzato da Catholic Radio and Television Network (CRTN), in collaborazione con Aiuto alla Chiesa che soffre.

Purtroppo, lo Sri Lanka è noto per la sua lunga guerra civile.

Padre Ranatunga: Sì, soffriamo ormai da 30 anni a causa di una guerra civile che ha provocato innumerevoli morti, e notevoli problemi economici, soprattutto nel turismo.

Qual è stata la causa di questo conflitto?

Padre Ranatunga: Il problema è tra i tamil e la maggioranza cingalese. I cingalesi rivendicano per sé l’intero Sri Lanka, mentre i Tamil, i cui antenati si sono stabiliti nella parte settentrionale, volevano staccarsi dal resto del Paese.

Qual è la religione dei tamil?

Padre Ranatunga: Sono indù o cattolici, ma non buddisti.

Lo Sri Lanka è un Paese a maggioranza buddista?

Padre Ranatunga: Sì, l’80% è buddista, il resto è composto da cattolici, indù, musulmani e altri.

Si è trattato quindi di un conflitto religioso?

Padre Ranatunga: Si è trattato di un conflitto etnico e non religioso. Sono i due gruppi etnici, cingalesi e tamil, che non riescono a convivere pacificamente.

Quali sono le difficoltà tra loro?

Padre Ranatunga: Esiste una differenza culturale e una differenza linguistica. I cingalesi sono buddisti, parlano la loro lingua e hanno il monopolio del potere politico. È sancito dalla legge che il Presidente deve essere cingalese e buddista. I tamil si sentono discriminati e questo è il problema fondamentale.

Lei è cresciuto nel Buddismo. Ce lo può descrivere?

Padre Ranatunga: Il Buddismo è una filosofia che non ha un dio come il Cristianesimo. Non esistono sacramenti con regole e regolamenti; il Buddismo non è così. Ma io volevo diventare un monaco buddista.

È normale per i giovani buddisti voler diventare monaci?

Padre Ranatunga: La maggior parte dei ragazzi entra normalmente nel noviziato. Fortunatamente per me è andata diversamente. Sebbene volessi diventare monaco, alla fine non sono entrato. Questo è un mistero. Dio opera sempre miracoli nella nostra vita e come San Paolo non volevo avere nulla a che fare con i cristiani. Provenivo da una famiglia buddista molto povera. Mio padre era morto quando io avevo 12 anni. Abbiamo dovuto affrontare molti problemi economici. Ma madre non riusciva a sostenere sei bambini e mi ha detto: “tu vai a stare in questa famiglia che ti darà un lavoro”. Così sono andato a vivere presso una famiglia cattolica.

Quindi ha dovuto lavorare, da ragazzo, per questa famiglia cattolica?

Padre Ranatunga: Sì, io mi occupavo del lavoro domestico e mi veniva dato tutto ciò di cui avevo bisogno. Nel villaggio c’era la chiesa di San Massimiliano. Andando lì ho fatto amicizia con altre famiglie, il prete, le suore e i bambini della mia età. Questo è ciò che mi ha attirato della Chiesa cattolica.

Come ha conciliato questo aspetto con il suo desiderio di diventare un monaco buddista?

Padre Ranatunga: Ero in contatto con molte famiglie buddiste, ma in qualche modo il mio desiderio di diventare monaco si è affievolito. Prima del mio battesimo ero solito seguire le persone che andavano a Messa. Era in quel periodo che Dio lavorava dentro di me, come per la conversione di santi come Sant’Ignazio di Loyola, San Francesco Saverio e San Camillo. Lui stava facendo qualcosa nella mia vita.

Ha deciso di diventare cristiano solo frequentando quella chiesa?

Padre Ranatunga: No, andavo a Messa, pregavo le novene, frequentavo le feste di natale e i cori, ma non pensavo a diventare cristiano. Tornato dalla famiglia cattolica, loro hanno proposto che fossi battezzato. Non sapevo nulla del Cristianesimo e così dovetti conoscere la Chiesa cattolica prima di conoscere il catechismo.

A chi poteva porre delle domande sulla fede cristiana?

Padre Ranatunga: Quando sono tornato a casa, frequentavo la chiesa di San Giuda Taddeo nel mio villaggio. Ho fatto amicizia con i parrocchiani, che mi invitavano alle diverse attività. Mi hanno persino mandato a studiare al convento delle Suore della Sacra Famiglia per sei o sette mesi. Non sapevo nulla del Cristianesimo ma ho ricevuto la capacità di comprendere chiaramente la fede, il mistero del Cristianesimo. Ora insegno la fede a una decina di buddisti.

È difficile per un buddista convertirsi al Cristianesimo?

Padre Ranatunga: Sì, è difficile. La mia famiglia inizialmente non l’accettava – soprattutto mio fratello – ma ora si è instaurato un rapporto di comprensione e di rispetto reciproco. Nei villaggi, i cattolici e i buddisti ora vivono insieme. È difficile, ma c’è rispetto. Non si parlano. Io, invece, mi sento solo e invidio le famiglie cattoliche che possono invitare i sacerdoti, o che possono andare con le loro famiglie alle funzioni e alle celebrazioni. Io non ho questa possibilità.

Come sono i rapporti tra buddisti e cattolici?

Padre Ranatunga: Abbiamo buoni rapporti, ma il problema riguarda alcuni evangelici americani. La gente locale è confusa e non è in grado di distinguere gli uni dagli altri, perché Gesù Cristo è lo stesso per tutti i cristiani. Talvolta sono molto aggressivi e cercano di convertire tutti. Danno il loro aiuto e per questo attirano molte persone.

Lei sta lavorando in un ospedale a Roma. Quali sono i suoi progetti ora che rientrerà in Sri Lanka?

Padre Ranatunga: Vorrei continuare a lavorare con i malati. Il mio sogno, che potrebbe anche non realizzarsi, è di costruire un ospedale e un centro per i malati di Aids. Abbiamo la disponibilità delle suore che abbiamo invitato. Ho anche parlato con il Vescovo e la Madre superiora. Non so cosa succederà, ma credo che quando si è uniti a Dio si possono fare molte cose: “Io sono la vite e voi i tralci”. Se io resto unito a Lui allora i “tralci” porteranno frutto. Io voglio rimanere unito e abbandonato a Lui.

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Questa intervista è stata condotta da Marie-Pauline Meyer per “Where God Weeps”, un programma televisivo e radiofonico settimanale, prodotto da Catholic Radio and Television Network in collaborazione con l’organizzazione internazionale Aiuto alla Chiesa che soffre.

Where God Weeps: www.WhereGodWeeps.org

Aiuto alla Chiesa che soffre: www.acn-intl.org

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ZENIT Staff

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