ROMA, domenica, 27 febbraio 2011 (ZENIT.org).- La possibilità del trapianto autologo con cellule staminali del cordone ombelicale ha trovato un'applicazione, soprattutto immunomodulatrice, anche nel trattamento del diabete tipo 1, patologia che colpisce una persona ogni 200 e che risulta in continuo aumento1. Questa malattia autoimmune comporta la distruzione delle cellule beta, che producono insulina da parte dei linfociti T. L'insulino-deficienza, che ne deriva, comporta la dipendenza dalla somministrazione di forme esogene di insulina per tutta la vita.

Nonostante tutti i progressi scientifici, che hanno portato questa patologia a diventare più di frequente una malattia cronica e non sempre direttamente letale, come in passato, la sua incidenza continua ad essere estremamente alta.

Nel lungo termine, inoltre, permangono gravissime le conseguenze per il sistema nervoso, per i grandi vasi sanguini e, soprattutto, per il microcircolo, con danni alla retina, al rene, alle coronarie, come ai vasi cerebrali, o con il “piede diabetico”. Fra le nuove strategie per il trattamento di malattie autoimmuni come questa, già nel recente passato si è fatto strada anche l'utilizzo autologo del sangue cordonale; questo risulta possibile data la potenzialità delle cellule staminali del cordone di differenziarsi in tessuti non solo ematologici, ma anche di diversa natura. In questa direzione si muove lo studio pilota, condotto dal gruppo del dottor  J. Michael Haller2 del Dipartimento di Pediatria della University of Florida di Gainesville, iniziato alla fine del 2005.

Le ipotesi che sono all'origine di questo studio si basano sulla possibilità che il trapianto autologo di cellule staminali derivanti dal cordone ombelicale possa attenuare il processo autoimmune all'origine della patologia, seguendo diversi meccanismi: le cellule staminali migrano nel pancreas danneggiato, dove possono differenziarsi in cellule beta che producono insulina; possono agire per fare aumentare la proliferazione delle isole pancreatiche da parte del tessuto sano; alcune cellule del cordone ombelicale sono in grado di mediare il recupero della immuno-tolleranza. Infatti si era notata durante la gravidanza la capacità delle cellule cordonali di evitare il rigetto GVHD da parte della madre contro la placenta e gli altri tessuti embrionali.

Nel giugno del 2007 sono stati presentati i dati preliminari riferiti a otto pazienti sei mesi dopo l'infusione di sangue cordonale autologo per il trattamento del diabete di tipo 1; questi hanno descritto risultati molto incoraggianti, come la mancanza di significativi eventi avversi associati a questo studio e i benefici ottenuti in seguito al trattamento collegati ad una maggiore immuno-tolleranza. In questo studio, ad oggi, i soggetti sottoposti ad infusione di cellule staminali cordonali per uso autologo sono quindici. Nonostante gli interessanti esiti parziali di questo trial clinico, ulteriori dati e conclusione sono stati pubblicati in seguito3.

Secondo il Dr. Haller e i suoi collaboratori, il sangue del cordone ombelicale può preservare senza rischi la produzione di insulina nei bambini a cui è stato diagnosticato da poco tempo il diabete tipo 1: è il risultato di un piccolo studio pilota presentato alla 67ª Sessione Scientifica della American Diabetes Association a Chicago.

I ricercatori della University of Florida hanno cercato di determinare se sia fattibile usare le cellule staminali isolate dal sangue del cordone ombelicale del paziente per neutralizzare l’attacco autoimmune al pancreas e per aiutare l’organismo a ripristinare l’abilità di produrre insulina, ormone che regola l’impiego degli zuccheri e di altre sostanze nutrienti con cui il corpo produce energia.

“Questo è il primo tentativo di usare il sangue del cordone ombelicale come potenziale terapia per il diabete tipo 1. Speriamo che queste cellule possano ridurre l’attacco del sistema immunitario al pancreas o possibilmente introdurre cellule staminali, che riescano a differenziarsi in cellule produttrici di insulina”, ha detto il Dr. Haller.

“Benché questo sia uno studio relativamente piccolo, possiamo affermare con certezza la sua attendibilità: abbiamo osservato cambiamenti metabolici ed immunologici, che suggeriscono la possibilità di trarre benefici”, ha aggiunto il pediatra americano. “Non è una cura per il diabete, ma è il primo passo per aiutarci ad imparare e a muoverci nella giusta direzione”.

I ricercatori hanno avuto l’idea per questo studio in parte grazie al padre di un paziente, il quale aveva letto che alcuni scienziati erano stati in grado di curare il diabete nei topi, prendendo il midollo osseo da un animale ed iniettandolo nei suoi fratelli, senza usare chemioterapia o radioterapia. E nel laboratorio gli scienziati erano riusciti a far produrre insulina alle cellule staminali isolate dal sangue del cordone ombelicale. Quest’uomo ha chiesto ai ricercatori della UF (University of Florida) se l’iniezione ad un paziente del sangue isolato dal proprio cordone ombelicale avrebbe potuto avere un simile effetto positivo.

“Abbiamo pensato che fosse una domanda molto ragionevole e che sarebbe stato un approccio sicuro finché non si fosse usata la chemioterapia, la radioterapia o manipolato le cellule. Poiché ci sono molte più persone là fuori che depositano il sangue del cordone ombelicale rispetto a 5 anni fa, abbiamo avuto la sensazione che questo approccio sarebbe diventato sempre più allettante”.

Dieci anni fa meno dell’1% degli americani depositava il sangue del cordone ombelicale; oggi questa cifra è cresciuta fino al 4% circa e sta aumentando, dice Haller. Il sangue del cordone ombelicale è ricco di cellule che aiutano la regolazione del sistema immunitario, ma finora è stato tipicamente usato per risanare il sistema immunitario in pazienti che erano stati sottoposti a trattamenti per la leucemia o per il linfoma.

I ricercatori della UF hanno identificato i bambini a cui è stato recentemente diagnosticato il diabete tipo 1 le cui famiglie avevano depositato il sangue del loro cordone ombelicale alla nascita. La maggior parte produceva ancora una piccola parte di insulina. A 7 pazienti di età compresa fra i 2 e i 7 anni sono state fatte delle iniezioni endovenose di cellule staminali isolate dal sangue del loro cordone ombelicale (da allora i ricercatori hanno trattato altri 4 bambini). Nei successivi due anni è stata misurata la quantità di insulina che i pazienti producevano da sé e sono stati accertati i livelli di glicemia e il funzionamento dei linfociti T.

Nei primi 6 mesi i bambini avevano bisogno di una quantità significativamente minore di insulina – in media 0.45 contro le 0.69 unità di insulina per chilogrammo al giorno - e mantenevano un migliore controllo dei livelli di glicemia rispetto ai loro coetanei affetti da diabete tipo 1 scelti casualmente tra la popolazione. I ricercatori hanno anche notato che i bambini che erano stati sottoposti alle iniezioni avevano livelli più alti di linfociti T nel sangue sei mesi dopo l’iniezione, in media il 9% del volume totale di cellule rispetto al 7.21% al momento dell’iniezione.

“Questa non è una panacea. Pensiamo che somministrare queste cellule sia essenziale per fornire una immunoterapia e diminuire l’autoimmunità di questi pazienti”, dice Haller.

“Realisticamente speriamo di proteggere ciò che è rimasto della loro produzione di insulina per un vasto periodo di tempo. Pensiamo che l’ipotesi della regolazione immunitaria sia più verosimile rispetto all’ipotesi in base, alla quale le cellule staminali possano formare insulina producendo cellule da sé”.

L’idea sarebbe intervenire e riparare ogni danno iniziale durante il periodo “luna di miele” gradito da molti pazienti – periodo che può durare diversi mesi dopo la diagnosi, durante il quale il bisogno di insulina è minimo, aggiunge.

“L’idea del nostro gruppo è che non saremo in grado di curare il diabete senza un approccio di terapia combinata”, sottolinea Haller. “È ingenuo pensare che con un solo agente troveremo una cura definitiva per una malattia molto complicata come il diabete tipo 1. Probabilmente dovremo agire usando diverse medicine, per attaccare i vari aspetti della malattia. Curare il diabete potrebbe richiedere un approccio simile a quello usato per il trattamento di AIDS o cancro. La cura di pazienti affetti da queste complesse malattie non è migliorata notevolmente, finché non sono state somministrate terapie combinate. Sospetto che sarà lo stesso con il diabete”.

Lo studio è finanziato dalla Juvenile Diabetes Research Foundation e dal National Institutes of Health, con il supporto del UF’s Clinical Research Center. Il prossimo progetto dei ricercatori della UF è quello di reclutare un massimo di 23 pazienti che verranno sottoposti ad iniezioni di sangue del cordone ombelicale. Cercheranno anche di migliorare i piccoli vantaggi metabolici ed immunologici che hanno notato finora, possibilmente testando l’aggiunta di una delle molte medicine usate attualmente in altri esperimenti sul diabete tipo 1.

“Abbiamo bisogno di decidere quale agente funzionerà bene se combinato con il sangue del cordone ombelicale”, spiega Haller. Al momento non stiamo manipolando le cellule. Stiamo semplicemente iniettando il sangue del cordone ombelicale. Oltre all’aggiunta di altre medicine, potremmo aver bisogno di verificare la possibilità di prendere le cellule T dal sangue del cordone ombelicale e manipolarle senza rischi per migliorare le nostre scoperte”.

L’applicazione di sangue del cordone ombelicale umano nel trattamento del diabete tipo 1 è di estrema importanza, dice Colin P.McGuckin, professore di medicina rigenerativa alla Britain’s University of Newcastle presso la Tyne Medical School.

“Il lavoro condotto presso la University of Florida è stato il primo a mostrare che il sangue del cordone ombelicale contiene cellule che possono placare l’attacco del sistema immunitario al pancreas dei pazienti”, dice McGuckin. “Sappiamo che il sangue del cordone ombelicale contiene cellule molto specializzate il cui compito è evitare il rigetto della placenta del bambino alla madre durante la gravidanza, e queste sono probabilmente le uniche utili per il trattamento del diabete tipo 1. Con il nostro lavoro, che mostra come le cellule beta produttrici di insulina possano essere formate usando il sangue del cordone ombelicale, siamo sulla strada giusta per aiutare pazienti diabetici in futuro. Il primo passo, tuttavia, deve essere frenare l’attacco del sistema immunitario, ed è per questo che lo studio a Gainesville è così importante4 .

Il numero di Marzo 2005 della rivista  Diabetes  ha pubblicato un importante articolo su

una strada più “tradizionale” per la lotta contro il diabete. Essa utilizza sempre le staminali cordonali, ed è stata ideata dal Diabetes Research Istitute di Hollywood in Florida. I suoi ricercatori hanno cercato di indirizzare la differenziazione di queste staminali immature verso le cellule beta produttrici di insulina delle isole di Langherans. Ad esse sono stati forniti gli stessi segnali ricevuti dal pancreas durante il normale sviluppo embrionale. Gli scienziati dell'Università della Florida di Miami sono riusciti ad inserire questi messaggi critici nella cellula tramite la “terapia della proteina”, una nuova tecnica in rapida evoluzione, che è stata sviluppata per fornire peptidi e proteine all'interno di tessuti e cellule. Questi segnali sono stati inviati in una sequenza tale da indurre la trasformazione delle staminali cordonali trapiantate in cellule insulari.

Lungo questo percorso sono stati premuti in sequenza una serie di “interruttori”, che attivano geni necessari per sviluppare le cellule beta produttrici di insulina, come: 1) Pdx1, che attiva il primo programma del pancreas, 2) Neurogenina 3 , la cui espressione trasforma  le staminali del pancreas in cellule endocrine, 3) Pax4, Isl1 e Nkx6.1, geni coinvolti nella caratterizzazione delle cellule beta.           

Il processo di trasformazione delle staminali è stato, in parte, reso possibile da una innovazione DRI, chiamata il “sandwich d'ossigeno”. Il loro sviluppo richiede una grande quantità di ossigeno per crescere, cosa che non poteva accadere nelle normali colture di Petri. Come alternativa, gli scienziati DRI hanno sviluppato un dispositivo a sandwich, che fa moltiplicare le staminali tra due fonti d' ossigeno, sia dall'alto tramite il mezzo di cultura, sia dal basso attraverso una membrana di silicone, che incorpora un legante di ossigeno. Ciò può portare alla rapida produzione di una scorta quasi illimitata di cellule delle isole di Langherans 5.

1 Department of Pediatrics – University of Florida – www.peds ufl.edu

2 Il Dr. J. Michael Haller è attualmente assistente alla cattedra di Pediatria presso l'Università della Florida. Dopo aver completato i suoi studi universitari presso la Duke University, è tornato al suo luogo di nascita, Gainesville, in Florida, dove ha completato la scuola di specializzazione medica in pediatria e la formazione in endocrinologia pediatrica. Il Dr. Haller ha iniziato a lavorare in ricerca sul diabete di tipo 1 durante il suo primo anno di scuola medica e da allora ha indirizzato la sua carriera accademica nello sviluppo di terapie sicure ed efficaci per la prevenzione e la cura del diabete di tipo 1. Ha pubblicato più di 30 ricerche e capitoli di libri in materia di diabete di tipo 1. E' un ricercatore attivo nel TrialNet Diabete di tipo 1 finanziato dal NIH, lavora come principal investigator  (PI) dell'Università della Florida per gli studi anti-CD20 e ha la carica di presidente del Comitato di studio di Implementazione Clinica dei Determinanti Ambientali del Diabete Giovanile (TEDDY). E' anche il PI di un nuovo studio che consente l' utilizzazione delle cellule staminali autologhe del sangue del cordone ombelicale  come potenziale terapia per il diabete tipo 1. In questo studio, i bambini con recente diabete di tipo 1 ricevono un'infusione di un quarto delle  cellule staminale del proprio sangue del cordone ombelicale, al fine di determinare se queste cellule siano in grado di fornire  una immunomodulazione sicura e significativa, che possa tutelare le rimanenti cellule beta. Haller è inoltre il PI di uno studio pilota che mira a determinare il potenziale del fattore stimolante le colonie di granulociti (GCSF), per aumentare la distruzione autoimmune delle isole nei pazienti con recente insorgenza di diabete tipo I. Gli studi hanno già dimostrato che GCSF può prevenire il diabete in modelli animali e questi risultati sono ora in fase di sperimentazione sugli esseri umani. Al Dr. Haller sono stati assegnati il premio Lawson Wilkins Clinical Scholar, un assegno per ricerche innovative JDRF, due premi NIH R21, e un JDRF Early Career Clinical Oriented award, per sostenere il suo lavoro di ricerca di terapie  combinate, in via di sviluppo per il diabete di tipo 1. Nel 2008, il Dr. Haller e i suoi colleghi Desmond Schatz e Mark Atkinson hanno ricevuto il più alto riconoscimento per la ricerca clinica JDRF, la Mary Tyler Moore e Robert S. Levine Excellence Award , per il loro approccio di gruppo allo sviluppo di terapie per il diabete di tipo I.

3 Il Giornale - 28/09/2010

4 Medical News Today – University of Florida - 16/07/2007

5 Diabetes Research Istitute – www.diabetesresearch.org - 2010

* Paolo De Lillo è dottore in Farmacia.


L’arredo dell’altare

ROMA, sabato, 26 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo di don Enrico Finotti – parroco di S. Maria del Carmine in Rovereto (TN) – apparso sulla rivista Liturgia ‘culmen et fons’ (dicembre 2010).