In Laos, famiglie di cristiani costrette ai margini della giungla

Cacciate dal villaggio di Katin rischiano ora la sopravvivenza

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di Paul De Maeyer

ROMA, lunedì, 28 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Il Laos – il paese del sud-est asiatico governato dal 1975 dai comunisti e sul quale sono state scaricate durante la Guerra del Vietnam più bombe che nell’intera II Guerra Mondiale – ospita una piccola comunità cristiana. Secondo le stime dell’agenzia Églises d’Asie, delle Missioni Estere di Parigi (MEP), i cristiani rappresenterebbero circa l’1% della popolazione formata da 6 milioni di abitanti, di cui 43.000 cattolici.

La Costituzione della Repubblica Popolare Democratica del Laos – così si chiama ufficialmente il paese – garantisce negli articoli 6 e 30 la libertà di religione. Ma l’esercizio di questa libertà è oggetto di severe restrizioni e particolarmente malviste dalle autorità sono le conversioni al cristianesimo.

A farne drammaticamente le spese è un gruppo di una sessantina di cristiani, composte da 18 famiglie, cacciate in due momenti diversi dal villaggio di Katin, nel distretto di Ta-Oy, nella provincia meridionale di Saravan (o anche Salavan). Costrette a vivere ai margini della giungla e in rifugi di fortuna, la situazione delle famiglie in questione è divenuta “critica” a causa degli stenti e della privazione di acqua e di cibo. A lanciare l’allarme è l’organizzazione Human Rights Watch for Lao Religious Freedom (HRWLRF). “I pozzi si stanno prosciugando mentre si avvicina la stagione secca e le loro scorte di cibo sono esaurite”, ha detto una fonte di HRWLRF a Compass Direct News (25 febbraio).

La vicenda dei cristiani di Katin risale al 2008, con la conversione di un primo gruppo di abitanti e la morte sospetta per asfissia di uno di loro, un uomo conosciuto solo con il nome di Pew. Già il funerale cristiano di quest’uomo fece scatenare l’ira delle autorità locali. Quando videro infatti che i familiari avevano messo una croce di legno sulla sua tomba, li accusarono di “praticare i rituali dei nemici dello Stato” e confiscarono un maiale ed un bufalo come punizione (CDN, 16 luglio 2009).

Per far rinnegare alle famiglie cristiane la loro fede, le autorità locali non hanno esitato a giocare sporco, sequestrando ad esempio capi di bestiami. Nel luglio del 2009, i capi villaggio hanno persino messo al bando il cristianesimo a Katin. L’unica forma di prassi religiosa che hanno autorizzato era il culto degli spiriti.

Ma nonostante le pressanti intimidazioni, 11 famiglie hanno resistito e non hanno abbandonato la fede. Davanti al loro rifiuto, la risposta del villaggio è stata durissima: minacciate con le armi, le famiglie in questione – 48 persone in totale, adulti e bambini – sono stata cacciate da Katin nel gennaio 2010. Inoltre, i loro beni sono stati confiscati e molte delle loro case distrutte.

“Perché credete [nella Bibbia]?”, così hanno chiesto i capi villaggio, spalleggiati da un funzionario per gli Affari religiosi della provincia di Saravan e da un funzionario del distretto di Ta-Oy. “È solo un libro” (CDN, 8 febbraio 2010). “Per poter fare ritorno nel vostro villaggio, dovrete rinnegare la vostra fede cristiana”, così hanno aggiunto i responsabili.

Per alleviare la precaria situazione alimentare, le famiglie avevano seminato il riso fuori stagione. Ma la speranza di poter raccogliere i frutti del loro lavoro è stata stroncata in modo cinico dai capi villaggio, che il 26 dicembre scorso hanno fatto distruggere le risaie delle famiglie. Hanno prosciugato i “paddies” (come vengono chiamati i campi di riso), bruciato le recinzioni e calpestato inoltre le giovani piantine per evitare ogni eventuale ricrescita. Solo tre giorni prima, il 23 dicembre, erano state espulse con la forza altre sette famiglie cristiane di Katin, che si sono aggiunte alle 11 cacciate in precedenza, accentuando in questo modo l’emergenza alimentare.

Anche se il Laos ha ratificato nel 2009 la Convenzione Internazionale dei Diritti Civili e Politici (ICCPR), è molto improbabile che le espulsioni siano avvenute all’insaputa o senza il previo consenso delle autorità distrettuali o provinciali. “Di norma – così ha dichiarato un portavoce di HRWLRF a Compass Direct News – i capi villaggio non fanno nulla senza aver consultato formalmente il capo distretto” (29 dicembre 2010). Anche se in varie occasioni organismi ufficiali laotiani hanno affermato che i cristiani di Katin hanno tutti i diritti a rimanere nel loro villaggio, “è difficile credere che i capi villaggio di Katin abbiano agito per propria autorità”, ha aggiunto il portavoce.

A subire le restrizioni alla libertà di religione o di culto è anche la Chiesa cattolica locale. Lo dimostrano le peripezie che hanno accompagnato la prima ordinazione sacerdotale in quasi quarant’anni nel Laos del Nord, avvenuta il 29 gennaio scorso a Thakhek, il capoluogo della provincia centro-meridionale di Khammouan e sede del vicariato apostolico di Savannakhet. L’ordinazione di padre Pierre Buntha Silaphet, 34 anni, per mano di monsignor Louis Marie Ling Mangkhanekhoun, vicario apostolico di Pakse e presidente della Conferenza episcopale di Laos e Cambogia (CELAC), era infatti programmata inizialmente per il 12 dicembre scorso nei pressi di Sayaboury (o Sayabouly), nel nord del paese, ma “in extremis” – cioè solo due giorni prima, il 10 dicembre – le autorità hanno rinviato l’evento per motivi di sicurezza. Come ha rivelato l’agenzia UCA News (31 gennaio), la chiesa scelta per la cerimonia si trovava davanti ad un accampamento militare.

Mentre in modo non ufficiale è stato fatto capire che la cerimonia doveva essere discreta ed assumere la forma di una festa contadina – così ha riferito l’agenzia AsiaNews (25 gennaio) -, la grande domanda è se il nuovo sacerdote ordinato nel vicariato apostolico di Luang Prabang potrà effettivamente esercitare il suo ministero ed aiutare l’attuale vicario apostolico, monsignor Tito Banchong Thopayong. Quest’ultimo gestisce da solo il vicariato di Luang Prabang, che copre una vasta regione montagnosa nel nord del paese, da quando i comunisti decisero di cacciare nel 1975 tutti i sacerdoti stranieri dal Laos, senza possibilità di ritorno. Monsignor Banchong, classe 1947, ha passato in totale anche 9 anni in carcere.

La Chiesa cattolica del Laos è divisa oggi in quattro vicariati apostolici (Luang Prabang, Paksé, Savannakhet e Vientiane) e conta appena 15 sacerdoti ed un centinaio di suore. L’anno scorso – il 10 aprile – migliaia di cattolici hanno partecipato a Thakhek all’ordinazione del nuovo vescovo del vicariato apostolico di Savannakhet, monsignor Jean Marie Prida Inthirath, parroco di Khoksang e Keng Kasi ed inoltre rettore dell’unico Seminario maggiore del paese asiatico, quello di San Giovanni Maria Vianney, sempre a Thakhek.

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ZENIT Staff

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