di Chiara Santomiero
ROMA, venerdì, 25 febbraio 2011 (ZENIT.org).- “Una conferma della totale trasparenza della sua vita come uomo e come sacerdote”: ha sintetizzato così mons. Slawomir Oder, postulatore della causa di beatificazione di Giovanni Paolo II, il processo canonico che ha verificato le virtù eroiche del venerabile servo di Dio Karol Woityla aprendo la strada alla beatificazione del 1° maggio prossimo.
L’occasione è stata una conferenza svoltasi questo venerdì a Roma all’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. “Non vi fu – ha proseguito Oder – un Woityla pubblico e uno privato: l’opinione che il mondo aveva maturato nei suoi riguardi negli oltre 26 anni del suo pontificato, si è dimostrata vera”.
Di conseguenza “la sua simpatia, il fervore della preghiera, la spontaneità del raccontarsi, la capacità di intessere rapporti, non erano semplici attributi di un’immagine mediatica, ma costituivano la reale essenza della sua persona”. Piuttosto il “vero tesoro” del processo è “la conferma certa della fonte della sua coerenza, energia, entusiasmo, profondità e naturalezza” che è “l’incontro con Dio, il suo essere innamorato di Cristo e sentirsi amato da Lui”.
“Cercano di capirmi dal di fuori – aveva confidato una volta Woityla – ma io posso essere compreso solo dal di dentro”. Da qui “quell’autentico dono e gusto e gioia della preghiera” a cui Woityla “è rimasto sempre fedele, fino alle ore della sua agonia”. Una preghiera che costituiva “l’aria che respirava, l’acqua che beveva, il cibo che lo nutriva”. Come risulta da più testimonianze, per Giovanni Paolo II “il primo compito del Papa verso la Chiesa e il mondo è quello di pregare”
“Il percorso mistico di Woityla – ha spiegato Oder – si è profilato come un progressivo fare di se stesso un anawim, il ‘povero d’Israele’ che non ha altra speranza e altro punto di riferimento se non Dio”. “E’ dalla preghiera – ha aggiunto Oder – che nasceva la fecondità del suo agire”. Non per niente, ai collaboratori che invitati a suggerire delle soluzioni a particolari problemi ammettevano di non averle ancora trovate, era solito ripetere: “Si troveranno quando avremo pregato di più”. Dalla preghiera nasceva anche “la capacità di dire la verità senza paura poiché chi è solo davanti a Dio non ha paura degli uomini”.
Una straordinaria libertà interiore che si esprimeva, innanzitutto, nel rapporto con i beni materiali. “Anche da Papa – ha affermato Oder – egli è stato uomo di radicale povertà”. “Commuove – ha raccontato il sacerdote polacco – la testimonianza delle persone a lui vicine a Cracovia che per fargli rinnovare il guardaroba dovevano ricorrere allo stratagemma di lavare i nuovi indumenti più volte in modo da farli sembrare usati perché sapevano che altrimenti li avrebbe subito donati a una persona bisognosa”.
Tuttavia, uno degli aspetti più toccanti della sua scelta di povertà, secondo Oder è “aver lasciato la parola poetica per accogliere il Verbo”, superando, con la scelta del sacerdozio, “l’attrazione che esercitava su di lui un’altra vocazione, quella per il teatro”.
La libertà interiore si esercitava anche nei confronti degli altri e se “sapeva ascoltare e accettare la critica, prediligendo la collaborazione” tuttavia “non rinunciava a prendere posizioni difficili e scomode” per timore “delle reazioni delle autorità ostili alla Chiesa negli anni in Polonia” o per “l’incomprensione dell’opinione pubblica predominante negli anni del suo Pontificato”. Il suo obiettivo, infatti non era “il proprio successo o una sua autonoma realizzazione” ma “annunciare la verità del Vangelo e difendere la verità sull’uomo”. Da questa libertà che si fonda sul rapporto con Dio “nasce il grido ‘Non abbiate paura’, inizio e cifra del suo pontificato”.
Forse proprio la ricerca di vicinanza ad ogni uomo “nel desiderio di essere solidale con le sue gioie e i suoi dolori, di cercare e di vivere la verità dell’essere uomo” ha reso Woityla “così caro e amato dal popolo di Dio”. Si è verificato, secondo Oder “un fenomeno singolare: Woityla che ha perso ben presto la sua famiglia naturale, aveva un forte senso della famiglia, sapeva donare il calore umano”.
Come attestano le lettere che continuano ad arrivare all’ufficio del postulatore e in cui ci si rivolge a Giovanni Paolo II come “il nostro Papa, Lolek, Karol, zio, nonno, padre”. Un fenomeno che non è limitato ai cattolici: “in un incontro occasionale – ha raccontato Oder – una donna ebrea mi disse di aver perso il padre due volte; la prima quando le era morto il padre naturale e la seconda con la morte di Giovanni Paolo II”.
Un altro tratto essenziale della personalità di Woityla non va dimenticato: “la presenza della croce nella sua vita, portata con dignità e, alla fine, in un silenzio che parlava più della parola” rivendicando “il diritto all’esistenza che la società dell’effimero nasconde con vergogna”. “Milioni di persone nel mondo – ha ricordato Oder – conservano nella memoria l’immagine trasmessa dalla tv, del Papa di spalle nella sua cappella privata, abbracciato alla croce durante la celebrazione del Venerdì santo”.
“Sono convinto – ha affermato Oder – che celebrare il processo sia stato utile”. Lungi dall’essere “il burocratico esame di un’esistenza” ha, invece, “consentito di restituire intensità e vigore agli aspetti già noti della vicenda umana di Papa Woityla insieme agli episodi inediti offerti alla condivisione comune”. Se “scopo della Chiesa, come affermava Woityla, è portare il più grande numero di persone alla santità”, il popolo dei devoti “non ha dubbi – ha concluso Oder – sulla singolarità del suo esempio, spinto fino all’estremo sacrificio”.