ROMA, martedì, 22 febbraio 2011 (ZENIT.org). Pär Lagerkvist è un nome ingiustamente trascurato. Poeta, drammaturgo e romanziere, Premio Nobel del 1951, dalla sua opera più nota – Barabba – fu tratto un kolossal con Anthony Quinn, Vittorio Gassman e Silvana Mangano. Ma il trionfalismo hollywoodiano è quanto di più distante si possa immaginare dalla stringata scrittura di Lagerkvist; e si racconta che alla prima proiezione lo scrittore si mise a ridere, mentre la moglie si addormentò.
Pur dichiarandosi non credente, tutta la sua opera è permeata da una spasmodica tensione verso quell’infinito che altrettanto fermamente nega. Avverso a ogni scetticismo di comodo, Lagerkvist si lasciò interrogare intimamente dall’enigma di un male che cova anche all’interno delle civiltà più sviluppate. Di ritorno da un viaggio alle sorgenti della civiltà europea – la Palestina e la Grecia – lo scrittore svedese rimase esterrefatto nell’attraversare un’Europa dominata dagli slogan nazionalistici. Fu il seme dal quale concepì – nel 1944 – il suo capolavoro: Il nano (Iperborea, pp. 208, € 11,50). Il romanzo racconta la vita di una corte rinascimentale immaginaria vista attraverso gli occhi del nano di corte, anonimo e fedelissimo servitore del principe Leone. Conosceremo ogni personaggio e ogni vicenda attraverso il suo sguardo incredibilmente acuto, capace di svelare ogni malefatta e di portare alla luce ogni fantasia malevola, eppure totalmente incapace di riconoscere il bene.
Il nano può vedere distintamente perfino di notte, contare anche i singoli fili d’erba, eppure non riesce a scorgere le stelle. È sì un genio, ma un genio del disprezzo e dell’odio. Il nano è «inattaccabile, indistruttibile, incrollabile», un essere completo che appartiene perfettamente a se stesso, un uomo “tutto d’un pezzo” come gli inflessibili moralisti di cui è parodia. Egli è infatti il fustigatore sarcastico incapace di ridere e prestarsi all’autoironia, l’esecratore universale che cerca sempre di far pendere la bilancia verso il basso e irride qualunque genere di conoscenza – ovvero di relazione – della vita. Il nano si ritrae da maestro Bernardo – ritratto dello scienziato umanista modellato su Leonardo – come se egli fosse un pazzo, perché qualunque cosa riesce ad affascinarlo. Disprezza quell’«orribile peccato» che è l’amore – incarnato dai due adolescenti Giovanni e Angelica, novelli Romeo e Giuletta che l’infido nano spingerà a tragedia. Non apprezza neppure la passione carnale: è disgustato dalla lascivia della principessa Teodora e dalle gozzoviglie del falstaffiano don Riccardo, un volgare «buffone che ama la vita» in tutte le sue forme, pericoloso destabilizzatore da eliminare appena se ne presterà l’occasione. Il nano detesta l’innocenza, le viscere e più di tutto la musica, che s’insinua nel corpo senza che se ne possa avere controllo… in altre parole, egli odia tutto quello che è interiorità e debolezza.
«Quando nasce l’uomo è tenero e debole – ha scritto Pier Vittorio Tondelli – quando muore è duro e rigido. […] Perché ciò che è duro e forte è servo della morte; ciò che è tenero e debole è servo della vita». E per il nano è proprio così: detesta ogni concessione al lato umano, apprezza soltanto il potere e più ancora la sua violenta imposizione, rappresentata dal mercenario Boccarossa, brutale monolito d’istinti che non ha la debolezza di un’anima né il rallentante tormento di un pensiero. Ciò nonostante il nano non è un guerriero: adora la soffiata e la delazione, torturare i nani più inermi, e avvelenare – oltre che materialmente – con il sospetto e la calunnia. Come potrebbe, all’apice del proprio delirio di onnipotenza, ammettere di essere un codardo…?
Il nano è l’unico personaggio del romanzo a non avere nome: egli è il diabolus ex machina, il cuore di tenebra che catalizza e permette che si realizzino i sentimenti più antiumani covati dal Potere, anche quando esso si ammanta con le vesti dell’umanista principe Leone, luminoso e colto come un Medici, ma ambiguo e scaltro come un Machiavelli. Il nano – in fondo – non è che un’appendice del principe stesso, l’ombra perpetuamente assisa alle sue spalle, la bassezza morale alla quale egli è disposto a ricorrere quando i mezzi leciti non sortiscono l’effetto desiderato. «Credono che sia io a spaventarli – afferma infine il nano –, e invece è il nano nascosto dentro di loro, quell’essere simile all’uomo, dal volto di scimmia, che leva la testa dal profondo della loro anima […] E sono deformi senza che ne traspaia nulla».
Infallibile conoscitore delle miserie umane, il nano è però del tutto inabile a stupirsi o a partecipare alle sorti altrui. La sua mostruosa disumanità – ha notato Fulvio Ferrari – è tutta concentrata nel suo sguardo, nel suo modo di avvicinare il mondo. O meglio, di non avvicinarlo e di non lasciarlo avvicinare. Proprio come il male di cui è incarnazione, il nano da l’illusione di conoscere tutto, mentre conosce solo se stesso. È un occhio malato, impietrito davanti a uno specchio che esclude la visione del mondo (e degli altri) dal proprio spettro. Il giovane Gilbert K. Chesterton aveva inaugurato la sua formidabile carriera di polemista asserendo: «È assai probabile che ci troviamo ancora nell’Eden. Sono stati solo i nostri occhi a mutare» (The Defendant). E alcuni decenni dopo gli avrebbe fatto eco alcuni versi di J.R.R. Tolkien: «…il Male […] non sta / nell’immagine divina ma nello sguardo, / non nella fonte, ma nella mala scelta, / e non nel suono, ma nella voce perversa» (“Foglia”, di Niggle). Entrambi, in fondo, avevano una medesima fonte in comune: «La lampada del corpo è l’occhio. Se dunque il tuo occhio è limpido, tutto il tuo corpo sarà illuminato; ma se il tuo occhio è malvagio, tutto il tuo corpo sarà nelle tenebre. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grandi saranno le tenebre!» (Mt 6,22-23).
Un assaggio dell’opera
Sono alto ventisei pollici, ben fatto, il corpo proporzionato, forse la testa è un po’ troppo grossa. I capelli non sono neri come quelli degli altri, ma rossicci, molto ispidi e folti, rigettati indietro dalle tempie e dalla fronte, ampia anche se non particolarmente alta. Il mio volto è imberbe, ma per il resto assolutamente identico a quello degli altri uomini. Le sopracciglia si congiungono. Ho una notevole forza fisica, specie se vengo provocato. Quando fu organizzato l’incontro tra me e Josafat, dopo venti minuti di combattimento lo misi con le spalle a terra e lo strangolai. Da allora sono l’unico nano a corte.
La maggior parte dei nani sono buffoni. Devono dire facezie ed eseguire trucchi che inducano al riso i padroni e gli ospiti. Io non mi sono mai abbassato a cose del genere. Né nessuno me lo ha mai nemmeno proposto. Già il mio aspetto d’altra parte impedisce un tale impiego della mia persona. Il mio volto non s’addice a ridicoli scherzi. E io non rido mai. Non sono un buffone. Sono un nano, e nient’altro. Ho invece una lingua tagliente che può, forse, procurare un po’ di divertimento a qualcuno tra le persone che mi circondano. Non è la stessa cosa che essere il loro buffone.
Ho detto che il mio volto è identico a quello degli altri uomini. Ma non è del tutto esatto, in realtà è molto più avvizzito, completamente solcato da rughe. Io non lo considero un difetto. Sono fatto così e non posso farci niente se gli altri non sono come me. Mi rivela esattamente per quel che sono, senza abbellimenti né trucchi. Forse non è intenzionale. Ma è così che mi piace apparire.
Le rughe mi fanno sembrare molto vecchio. Non lo sono. Ma ho sentito dire che noi nani discendiamo da una razza più antica di quella che oggi popola il mondo, e che per questo siamo già vecchi quando nasciamo. Non so se sia vero, ma in tal caso saremmo noi le creature originarie. Non
mi dispiace affatto appartenere a una razza diversa da quella attuale, e che sia evidente dal mio aspetto. Trovo infatti il volto degli altri assolutamente insignificante.
I padroni sono ben disposti nei miei confronti, specialmente il principe, che è un potente e grande signore. Un uomo dai vasti progetti e capace anche di attuarli. Un uomo d’azione, benché al tempo stesso molto colto, una di quelle persone che trovano tempo per tutto, e a cui piace conversare sui più disparati soggetti fra cielo e terra. Le sue vere intenzioni le nasconde parlando d’altro. Può sembrare superfluo interessarsi tanto di tutto – sempre che egli se ne interessi davvero – ma forse deve essere così, forse deve farlo proprio perché è un principe. Dà l’impressione di comprendere e dominare qualsiasi argomento, o almeno di volerci riuscire. Nessuno potrebbe negare che sia una personalità che incute rispetto. Di tutti quelli che ho incontrato, è l’unico che io non disprezzi. È molto falso.
Conosco bene il mio signore. Non che con questo pretenda di conoscerlo perfettamente. Ha un carattere piuttosto complicato, non tanto facile da decifrare. Sarebbe comunque un errore affermare che nasconda in sé degli enigmi, non è affatto così, ma in un certo senso resta impenetrabile. Io stesso non arrivo a capirlo del tutto e, a dire il vero, ancor meno a spiegarmi perché lo segua con la devozione di un cane. D’altra parte neanche lui capisce me. Non provo affatto nei suoi riguardi la soggezione che provano gli altri. Mi piace però essere al servizio di un signore capace di incutere soggezione. Non voglio negare che sia un grand’uomo. Ma nessuno è grande di fronte al proprio nano.
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*Paolo Pegoraro (Vicenza, 1977) si è laureato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana e in Letterature comparate presso l’Università “La Sapienza” di Roma. Collabora da anni alle pagine culturali di numerose riviste, tra cui L’Osservatore Romano, La Civiltà Cattolica e Famiglia Cristiana.