Preti e cittadini

ROMA, sabato, 19 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la relazione tenuta giovedì 17 febbraio da mons. Mariano Crociata, Segretario generale della CEI, alla Commissione presbiterale italiana.

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Ho voluto intitolare così questo intervento, sullo sfondo della situazione della Chiesa in Italia, non perché sia il tema più urgente o quello che più di altri risponda alle esigenze del momento, ma solo in ragione di due circostanze che suggeriscono una riflessione su un ambito di costante interesse e dalle implicazioni rilevanti anche in un tempo come il nostro. Le due circostanze a cui mi riferisco sono gli argomenti all’ordine del giorno del Consiglio permanente della CEI di fine gennaio e la prossima celebrazione del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia.

A mo’ di digressione devo peraltro notare che la riunione del Consiglio permanente segnala argomenti rilevanti per la vita della Chiesa, primo fra tutti la presentazione e la recezione degli Orientamenti pastorali per il decennio, i quali sono già stati oggetto di dibattito in questo incontro della Commissione presbiterale e torneranno all’attenzione dei Vescovi nella prossima assemblea di maggio; e poi anche il prossimo Congresso eucaristico di Ancona e la situazione dei seminari.

Uno dei temi del Consiglio a cui mi riferisco – insieme al quale bisogna ricordare anche il documento conclusivo della settimana sociale di Reggio Calabria – portava il titolo: “Ricognizione sulle esperienze di formazione socio-politica di ispirazione cattolica e prospettive per il futuro”. Non è mia intenzione ripercorrere l’esposizione e il dibattito che si è svolto in quella circostanza – comunque incoraggiante un impegno crescente dell’opera formativa in sintonia con i richiami del Santo Padre Benedetto XVI e, successivamente, del cardinale Angelo Bagnasco sulla necessità di una nuova generazione di cattolici in politica. Voglio piuttosto lasciarmi sollecitare dalla domanda sulla responsabilità civica del prete, sul modo in cui si possa e si debba essere simultaneamente prete e cittadino. Nessuna pretesa di entrare nel merito delle grandi questioni che sono sottese a un tale quesito già di per sé abbastanza complesso; soltanto un avvio di riflessione di tipo pastorale e spirituale.

Potrà apparire una provocazione, ma l’indicazione positiva, anche se indirettamente, e più netta al riguardo la trovo nel Codice di diritto canonico. Il comma 3 del canone 285 prescrive: «È fatto divieto ai chierici di assumere uffici pubblici, che comportano una partecipazione all’esercizio del potere civile». Al comma 2 del canone 287, poi, si aggiunge: «Non abbiano parte attiva nei partiti politici». Non c’è dubbio che si tratti di indicazioni negative e limitative, dalle quali il discorso apparirebbe chiuso ancor di prima di venire avviato. A un primo sguardo non sembrerebbe esserci compatibilità, o addirittura rapporto, tra il ministero presbiterale e l’impegno civico. Certo non è escluso tutto ciò che sta prima e oltre l’assunzione di un ufficio pubblico e di un impegno partitico diretto, e non è poco, poiché tali assunzioni e impegno sono una espressione eminente e compiuta di responsabilità civica, significativa espressione del diritto e del dovere di cittadinanza, verso cui, del resto, lo stesso magistero non esita a incoraggiare.

La positività intrinseca a tali divieti emerge, seppure indirettamente, dal senso non sacrale ma sacramentale del ministero ordinato propriamente inteso in orizzonte ecclesiologico. Dico senso non sacrale – senza in nulla sminuire il valore antropologico del sacro – solo per precisare che non è la polarità sacro-profano a motivare quella proibizione, poiché essa in Cristo è stata superata. Cristo Gesù, con la sua incarnazione e soprattutto con la sua morte e risurrezione, ha abbattuto ogni confine (cf. Ef 2,14) trasformando la storia in spazio della santità. Alla polarità sacro-profano è subentrata quella tra santità e peccato. E santità è categoria eminentemente personale; le persone vengono santificate – poiché non possono diventare sante da se stesse – e con la loro esistenza possono trasformare e – in senso derivato – santificare il mondo, la storia.

Ma la santificazione non raggiunge gli individui isolatamente, anche se sempre personalmente, poiché la santità nasce nella storia come evento comunitario, come evento di Chiesa; la santità affiora nella storia nella forma della Chiesa, alla quale viene aggregata una moltitudine crescente di credenti. Questo modo di essere e di venire al mondo mostra della Chiesa la costituzione misterica, di sacramento, di presenza inseparabilmente umana e divina. Questa natura originaria, e la missione che coerentemente le afferisce, non consente in alcun modo alla Chiesa – in «non debole analogia» con il mistero del Verbo incarnato, come si pronuncia la Lumen gentium al n. 8 – di ridurre o, addirittura, cancellare né la dimensione divina né quella umana. In un equilibrio difficile ma possibile per grazia, la Chiesa vive la sua presenza nel tempo proiettata e, in qualche modo, già partecipe dell’eternità. Questo significa il carattere escatologico della Chiesa. Essa non si può ridurre a una grandezza sociale e storica tra le altre, ma non si può nemmeno esonerare dal suo radicamento storico-sociale e dal suo compito di evangelizzazione e di santificazione. Nel suo carattere di segno e anticipazione del compimento dell’unità del genere umano in sé e con Dio (cf. Lumen gentium, n. 1), essa non può rinunciare a operare affinché questo mondo sia trasformato dalla potenza dello Spirito del Risorto, così da vedervi radicare e crescere i germi della verità e della vita, della giustizia e della pace.

Missione della Chiesa è annunciare Cristo e testimoniare e assecondare gli effetti della sua trasformante presenza nelle persone, nelle comunità, nella società intera. Fa parte della sua missione istituire spazi e diffondere motivazioni e convinzioni che manifestino luoghi di umanità redenta, anticipazioni del Regno che viene. In questa prospettiva si colloca, senza riduzionismi sociologici ma con una costitutiva apertura escatologica, l’insegnamento sociale della Chiesa. Esso non è lo strumento per la creazione di una società cristiana, ma l’espressione della potenzialità del Vangelo di rendere più umano il mondo aprendo il cuore dell’uomo e l’intero ambiente sociale all’orizzonte di Dio. In questo senso ciò che la Chiesa cerca non è diventare una forza alternativa o una proposta organizzativa specifica della società rispetto ad altre, ma piuttosto contribuire al bene intero della persona e della società coinvolgendosi fino in fondo ma, nello stesso tempo, mantenendo una riserva critica che non è opposizione all’uno o all’altro sistema, bensì distanza sistematica da ciò che non può mai assumere valore assoluto, perché relativo e contingente nella ricerca umana di una soluzione sempre migliore circa il modo di organizzare la vita dell’uomo nel mondo.

Come si colloca il prete in questa visione delle cose? Direi, molto semplicemente, come uomo sacramentalmente assorbito dall’identità ecclesiale e dalla sua missione, così da diventarne, sempre in relazione a Cristo, l’espressione fedele e la manifestazione personale visibile e riconoscibile. In questo senso possiamo fare uso delle categorie dell’agire in persona Ecclesiae e in persona Christi. Nel suo agire agisce la Chiesa intera, agisce Cristo Gesù in persona; e precisamente nel suo agire di pastore che annuncia e insegna, che celebra e santifica, che guida e coordina nella carità. Allora la massima efficacia della presenza e del servizio del prete in ordine alla cittadinanza sta nel contribuire a far crescere cristiani e comunità in cui si riconosca la verità e il bene delle persone e della società tutta: cristiani come cittadini esemplari, comunità come ambienti sociali in cui la ricerca del bene comune, i valori della solidarietà e della sussidiarietà sono realtà in qualche modo tangibili attraverso la coscienza delle persone e nell’impronta fondamentale delle relazioni in
terpersonali, nella loro capacità di innervare spazi sociali sempre più ampi.

Mi piace citare, a questo proposito, il documento Per un paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, che ben esprime questa visione di fede e di Chiesa che vive nella storia: «Le comunità cristiane costituiscono un inestimabile patrimonio e un fattore di sviluppo e di coesione di cui si avvale l’intero tessuto sociale. Lo sono in quanto realtà ecclesiali, edificate dalla Parola di Dio, dall’Eucaristia e dalla comunione fraterna, dedite alla formazione delle coscienze e alla testimonianza della verità e dell’amore. Fedeli alla loro identità, costituiscono anche un prezioso tessuto connettivo nel territorio, un centro nevralgico di progettualità culturale, una scuola di passione e di dedizione civile. […] È questo il primo, insostituibile apporto che le Chiese nel Sud hanno da offrire alla società civile» (n. 14). Le comunità cristiane che nascono secondo il Vangelo da un senso autentico di Chiesa diventano come dei consistenti nodi di incrocio di una rete che si estende e arricchisce la società di senso cristiano della vita e indivisibilmente anche di senso civico. Da lì scaturiscono anche vocazioni alla politica, perché proprio di vocazione si tratta quando una coscienza credente si sente toccata dalla chiamata alla responsabilità della cosa pubblica per la promozione del bene comune. Quale contributo alla cittadinanza maggiore di quello che viene dalla crescita di simili comunità? Quale cittadino più incisivo di un prete che costruisce nuovo tessuto cristiano, e per ciò stesso nuovo tessuto umano e sociale? La conclusione che traggo allora è che un prete mostra al più alto grado la sua qualità di cittadino attivo e responsabile quanto più e meglio è e fa il prete.

Vorrei completare la mia riflessione citando un discorso del Papa, facendo una applicazione alla nostra condizione attuale e indicando un ambito di riconoscibile unità.

Il discorso del Papa che vorrei citare è quello per gli auguri natalizi del 21 dicembre 2009. Benedetto XVI riprende il Sinodo dei Vescovi dell’Africa di qualche mese prima e osserva: «Compito dei Vescovi era di trasformare la teologia in pastorale, cioè in un ministero pastorale molto concreto, in cui le grandi visioni della Sacra Scrittura e della Tradizione vengono applicate all’operare dei Vescovi e dei sacerdoti in un tempo e in un luogo determinati. Ma in questo non si doveva cedere alla tentazione di prendere personalmente in mano la politica e da pastori trasformarsi in guide politiche. In effetti, la questione molto concreta davanti alla quale i pastori si trovano continuamente è, appunto, questa: come possiamo essere realisti e pratici, senza arrogarci una competenza politica che non ci spetta?» E prosegue chiedendosi: «Sono riusciti i Padri Sinodali a trovare la strada piuttosto stretta tra una semplice teoria teologica ed un’immediata azione politica, la strada del “pastore”? Nel mio breve discorso a conclusione del Sinodo ho risposto affermativamente, in modo consapevole ed esplicito, a questa domanda. […] Si potrebbe dire che riconciliazione e giustizia siano i due presupposti essenziali della pace e che quindi definiscano in una certa misura anche la sua natura. Limitiamoci alla parola “riconciliazione”. Uno sguardo sulle sofferenze e pene della storia recente dell’Africa, ma anche in molte altre parti della terra, mostra che contrasti non risolti e profondamente radicati possono portare, in certe situazioni, ad esplosioni di violenza in cui ogni senso di umanità sembra smarrito. La pace può realizzarsi soltanto se si giunge ad una riconciliazione interiore [… a ] processi interiori di riconciliazione, che hanno reso possibile una nuova convivenza. Ogni società ha bisogno di riconciliazioni, perché possa esserci la pace. Riconciliazioni sono necessarie per una buona politica, ma non possono essere realizzate unicamente da essa. Sono processi pre-politici e devono scaturire da altre fonti.» E conclude su questo punto: « Questa riconciliazione, però, richiede l’ampio “atrio” del riconoscimento della colpa e dell’umiltà della penitenza. Riconciliazione è un concetto pre-politico e una realtà pre-politica, che proprio per questo è della massima importanza per il compito della stessa politica. Se non si crea nei cuori la forza della riconciliazione, manca all’impegno politico per la pace il presupposto interiore. […] Ma tale purificazione e maturazione interiore verso una vera umanità non possono esistere senza Dio». Si tratta di una esemplificazione illuminante circa l’efficacia politica della presenza pre-politica della Chiesa e dei suoi pastori.

Una seconda considerazione la vorrei svolgere in riferimento alla condizione attuale. Intendo per condizione attuale il legittimo pluralismo della opzione politica dei cattolici che si è determinata da circa due decenni a questa parte. Non intendo in alcun modo entrare nel merito della valutazione del sistema politico determinatosi e delle sue implicazioni. Intendo semplicemente constatare che la legittima opzione politica plurale determina una situazione in cui la distinzione tra appartenenza ecclesiale unitaria e frammentazione di opzione politica possono determinare effetti di conflittualità e al limite di reciproca esclusione e quasi delegittimazione dentro le realtà ecclesiali. Qui si coglie per un verso il rischio a cui è esposta la comunità cristiana e il ministero del presbitero, ma in positivo si evidenzia l’appello alla responsabilità pastorale e al suo compito educativo in questo tempo. Intuiamo prontamente quanto sia necessaria la capacità dei preti di non diventare strumento di divisione e di contrapposizione all’interno della comunità, ma al contrario segno di unità attorno a ciò che ci costituisce come credenti e come Chiesa, e quindi attorno a ciò che comunque ci deve vedere uniti anche nell’ambito sociale e politico.

Qui torna opportuno il richiamo – e siamo al punto conclusivo – sull’insegnamento sociale della Chiesa. C’è uno spazio di valori e di principi sul quale non può non esserci concordia tra tutti i credenti al di là delle appartenenze e delle militanze attive e di responsabilità degli schieramenti politici. A partire dall’idea del bene comune, il cui perno è la dignità intangibile della persona umana, il credente si ritrova sempre come espressione indivisa di una comunione ecclesiale integra e di solidarietà umana senza confini. All’interno dell’insegnamento sociale della Chiesa, in particolare nella sua formulazione dell’enciclica Caritas in veritate al n. 15, va trovato il criterio per promuovere l’unità trasversale dei cattolici in ambito sociale e politico, e quindi un punto di riferimento specifico per il servizio pastorale dei presbiteri nelle nostre comunità. Scrive il Papa nella sua enciclica: «La Chiesa propone con forza questo collegamento tra etica della vita e etica sociale nella consapevolezza che non può “avere solide basi una società che — mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace — si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata”». Si tratta di un plesso di valori indivisibili, e tuttavia con un ordine gerarchico interno che vede al primo posto i cosiddetti valori non negoziabili. Il senso di questo ordine gerarchico va rettamente inteso, pena il fraintendimento di tutto l’insegnamento. Non si vuole infatti attribuire minore dignità e importanza all’etica sociale; si intende invece riconoscere che quando si tratta della vita è in gioco un bene la cui compromissione, diversamente da altri beni, è irreversibile e toccando il quale si infrange l’ultima barriera dell’umano (cf. card. Angelo Bagnasco, Prolusione, 8 novembre 2010). Alla luce di questa coscienza diventa possibile non tenere divisa, ma unita la difesa della persona umana e di tutti i suoi valori.

Di qui la portata
civica e, perché no?, storica della nostra presenza e del nostro servizio ministeriale.

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ZENIT Staff

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