I cristiani del Tur Abdin, il “Monte Athos” dei siriaci

Intervista a Sabino Chialà, studioso di ebraico e siriaco

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di Chiara Santomiero

ROMA, venerdì, 18 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Risale a fine gennaio una sentenza della Yargitai o Corte di Cassazione di Ankara, che ha stabilito l’espropriazione di una rilevante porzione di terreni del monastero siro-ortodosso di Mor Gabriel (risalente al IV secolo), nella regione del Tur Abdin, un altopiano nel sud-est dell’Anatolia (cfr. ZENIT, 11 febbraio 2011).

Per comprendere meglio la realtà della piccola ma tenace comunità cristiana presente in quella zona, ZENIT ha intervistato Sabino Chialà, del monastero di Bose, studioso di ebraico e siriaco, che ha visitato di recente i monasteri ancora attivi nel Tur Abdin.

Che cos’è il Tur Abdin?

Chialà: Viene definito il “Monte Athos” dei siriaci, a causa dell’alto numero di monasteri che vi sono concentrati. Si dice che prima dell’arrivo delle orde di Tamerlano nel XIV secolo nel Tur Abdin fossero attivi quasi cento monasteri, con migliaia di monaci. Tur Abdin significa proprio “montagna degli adoratori” e si erge non lontano da due città che furono i centri di irradiazione della tradizione cristiana siriaca: Edessa e Nisibi, oggi Shanliurfa e Nusaybin.

L’altopiano e il Monte Izla o Izlo, che ne costituisce la parte più meridionale, sono ricordati per i numerosi asceti, siro-occidentali e siro-orientali, che lo hanno abitato, figli di quella grande tradizione che ha visto fiorire personalità come Afraat, Efrem, Giacomo di Sarug, Filosseno di Mabbug, Isacco di Ninive, Giovanni di Dalyata e tanti altri che ci hanno lasciato gioielli di letteratura spirituale apprezzati anche dalla Chiesa latina.

Cosa resta di tutto ciò?

Chialà: Restano, per prima cosa, le comunità di cristiani che, nelle città come nei villaggi, continuano a vivere su una terra che sentono profondamente legata alla loro storia. A Diyarbakır, l’antica Amida, costeggiata dal fiume Tigri e cinta da poderose mura basaltiche, resta una piccola ma vivace comunità cristiana: alcune famiglie di siro-ortodossi e pochi armeni. Si ritrovano nella chiesa della Yaldot Aloho (Madre di Dio), risalente al VII secolo e recentemente restaurata, animata dal presbitero Petros e dalla sua famiglia. Vi è anche la chiesa caldea di Mar Petyon, da poco rimessa a nuovo, e una chiesa armena abbandonata e cadente, ma che mostra ancora l’antica ricchezza. C’è addirittura un gruppo di nuovi cristiani, alcuni coraggiosi convertiti, guidati da un fervente musulmano che, dopo l’incontro con l’Evangelo, ha chiesto di essere battezzato. A Mardin, una specie di roccaforte abbarbicata alle ultime montagne che si affacciano sulla Mesopotamia e fino agli inizi del secolo scorso a maggioranza cristiana, restano oggi solo un’ottantina di famiglie cristiane, quasi tutte siro-ortodosse, con un loro presbitero: padre Gabriele e la sua vivace e numerosa famiglia – composta dalla “presbitera” e da tredici figli – che officia nella chiesa dei Quaranta martiri (Kırklar Kilisesi) datata al VI secolo. Delle altre comunità – siro-cattolici, armeni e caldei – restano solo un paio di famiglie e le rispettive chiese, ormai non più aperte al culto eppure gelosamente custodite. Non mancano villaggi interamente cristiani come Bsorino con circa 250 abitanti e le sue 23 chiese! Il villaggio di Kafro, invece, è stato interamente ricostruito da un gruppo di famiglie che, dopo anni di emigrazione in Germania, hanno scelto di ritornare e di ritentare la vita nel loro luogo d’origine, cercando di mettere insieme un passato e un presente che stentano a riconoscersi.

Come si configura la convivenza con le altre espressioni religiose?

Chialà: In modo vario. A Midyat, altra cittadina nel cuore del Tur Abdin, anch’essa un tempo quasi interamente abitata da cristiani, sul cui profilo svettano ancora i campanili di sette chiese di cui ormai una sola è normalmente officiata, restano varie famiglie di cristiani e una colonna posta all’ingresso della città antica si mostra fiera di dichiararla luogo di convivenza di musulmani, cristiani e yezidi. Ci sono numerosi villaggi dove i cristiani convivono con i loro vicini turchi e curdi. Infine, ci sono dei villaggi che conservano ancora una chiesa o un monastero, restaurato e affidato a chi ormai vive lì al posto dei cristiani, come nel caso di Kfarbe, dove “custode” della bellissima e antica chiesa del VI secolo è una famiglia di curdi, che guidano il visitatore in un edificio che sentono anche loro.

Chi sono i cristiani del Tur Abdin?

Chialà: Essi si sentono figli legittimi di questa terra, la terra dei loro padri ed avvertono la responsabilità di preservare la memoria di quello che è stato e soprattutto di quello che è ancora. Alcuni di loro sono anche appassionati di storia e di archeologia, ma tutti sono desiderosi innanzitutto di vita, di vivere un presente che abbia senso. Di qui la loro ricerca di salvare tutto quanto è possibile. Anche grazie ai connazionali in diaspora e ad associazioni occidentali, moltiplicano i progetti di restauro di chiese e di qualsiasi retaggio del loro passato, senza chiedersi troppo quale potrà essere l’esito di tutti questi sforzi. Accanto agli edifici, i loro figli, cui sentono il dovere di trasmettere la lingua e il patrimonio letterario dei padri. Non essendovi nella scuola pubblica alcun insegnamento della lingua e cultura siriache e non essendo consentite scuole private confessionali, i ragazzi vengono mandati nei quattro monasteri ancora abitati. Al mattino frequentano le scuole statali delle cittadine vicine e al pomeriggio integrano con corsi di lingua siriaca sotto la guida dei maestri (malfone) dei monasteri, adattandosi al ritmo di preghiera e di lavoro della comunità. Imparano a conoscersi, approfondiscono la loro diversità, si attrezzano a resistere. Sono di questa terra eppure sentono tutto il peso del loro essere diversi; non solo lo sentono, ma lo coltivano…

Una sorta di terra di eroi?

Chialà: Sono soprattutto normalissimi uomini e donne che tentano di vivere la loro fede, così come è loro dato, senza alcun eroismo. Nessuno può prevedere il futuro, ma su ciascuno incombe la responsabilità del presente! Questo mi è sembrato il sentimento che anima ciascuno di loro. Ho visto anche occhi oberati da tristezza e angoscia per le nubi che si addensano all’orizzonte, soprattutto gli occhi di chi ha una funzione di guida di questo popolo, ma non ho visto flettere la responsabilità della speranza. Qui più che mai mi è sembrato di osservare cosa significhi portare il “peso della speranza”.

E poi ci sono i monasteri…

Chialà: Ancora oggi sono visibili tracce di numerosi centri monastici, alcuni ridotti a pochi ruderi; altri ben conservati ma vuoti; qualcuno animato da una vita sui generis. Nello splendido Deir da-Slibo, il Monastero della Croce, ad esempio, in una struttura ancora perfettamente monastica, convivono alcune famiglie e una monaca, che hanno scelto di stare lì per dargli vita, come possono, in una sorta di comunità di laici e religiosi dettata dalla necessità. Quattro monasteri, infine, sono animati da vivaci anche se esigue comunità.

Quali sono?

Chialà: Cominciando da est, il primo monastero ancora abitato è Deir Zafaran, il Monastero dello Zafferano. Vi risiede il vescovo della città di Mardin, Mor Filoxinos Saliba Özmen, insieme a un altro monaco, a una decina di studenti, al maestro (malfono Yaqub) e ad alcuni laici che collaborano alla gestione. Si tratta di un antico monastero, famoso anche per aver ospitato per alcuni secoli il patriarca della Chiesa siro-ortodossa, caratteristico per l’intenso colore giallo della pietra con cui è costruito e da cui proviene il nome. E’ circondato da un anfiteatro naturale, puntellato in cima da altri monasteri e grotte un tempo abitate da asceti. Quello della Yaldot Aloho (Madre di Dio), dove dalla roccia cadono ancora prez
iose gocce d’acqua che i sapienti monaci raccoglievano in vasche di pietra che sono ancora lì a continuare la loro opera. Poi c’è il monastero, ancora più spettacolare, di Mor Yaqub, le cui celle si affacciano come balconi su un panorama unico al mondo. Ancora più in là, quello di Mor Azazoyel. Deir Zafaran è, tra tutti, il monastero dove più si sente la mancanza di una comunità monastica più numerosa; ma tutt’intorno alle mura fervono i restauri, si dissoda il terreno, si piantano ulivi e alberi da frutta.

E gli altri?

Chialà: Non lontano da Midyat, verso nord, un secondo monastero ancora abitato è Mor Yaqub di Salah. Sorto accanto a un tempio pagano, di cui i monaci stanno portando alla luce importanti vestigia, conserva ancora intatta una chiesa del V secolo, intorno alla quale è stato ricostruito un ampio monastero, che accoglie due monaci – padre Daniel e padre Saliba -, quattro vivacissime monache e una decina di ragazzi con il loro maestro. I monasteri misti, composti di monaci e monache, soprattutto in Oriente, non sono affatto un dato tradizionale. Tuttavia qui tale forma è ormai vista come naturale. L’origine è da ricercarsi probabilmente nell’impossibilità per delle monache di vivere da sole in un contesto spesso minacciato da incursioni. Ne è risultata un’esperienza molto interessante di cooperazione tra quelle che pure restano due comunità l’una accanto all’altra, con una propria specificità. Per vivere, i monaci si dedicano soprattutto all’agricoltura. Intorno al monastero è sorto un orto dove sono impiegati anche alcuni abitanti curdi del vicino villaggio. Il terzo monastero ancora abitato è Mor Malke, nel cuore del monte Izla, non lontano da quello che si considera tradizionalmente il monastero più antico della regione, Mor Awgin. Anche qui, una piccola fiaccola, ma con una intensità di luce indimenticabile! Il monastero, la cui fondazione risale al IV secolo, è abitato da due monaci (padre Isho’ e padre Aziz), una monaca e qualche studente. L’ordine e la cura di questi luoghi sono al di là di ogni immaginazione. Tutt’intorno al monastero crescono alberi da frutta di ogni specie e vigne, che prendono terreno al bosco circostante che si estende a perdita d’occhio. Si tratta del monastero forse più minacciato dall’instabilità politica che a volte si fa sentire in questa zona a ridosso del confine, e i monaci non nascondono una certa apprensione, eppure guardano avanti e continuano a piantare alberi nel loro giardino fino a quando sarà loro dato di farlo.

Infine c’è Mor Gabriel…

Chialà: Mor Gabriel, nel centro del Tur Abdin, a una ventina di chilometri a est di Midyat, è l’altro grande monastero della regione, anch’esso sede di un vescovo, Mor Samuel Aktaş, insieme al quale vivono quattro monaci, una quindicina di monache e una trentina di studenti con i rispettivi insegnati (i due Isa, Gülten e Doğdu, e altri). Anche qui si resta stupiti per l’estrema cura riservata agli edifici e ai giardini tutt’intorno. Il monastero viveva da tempo difficoltà e tensioni con alcuni dei villaggi curdi che lo circondano che contestano la proprietà e l’attività dei monaci. La sentenza dello scorso gennaio è davvero un brutto colpo per la comunità, il segno della fragilità di una presenza in un luogo che pure occupano ininterrottamente fin dal IV secolo e che ora vedono a rischio. L’importanza del luogo non è solo storica, benché non si possa dimenticare che la chiesa principale in cui la comunità si ritrova ancora oggi a pregare risale al VI secolo. Mor Gabriel, tuttavia, è anche il simbolo di una presenza e in certo senso svolge una funzione di protezione, più simbolica che reale, nei confronti dei cristiani della regione.

Cosa intravede per il futuro?

Chialà: C’è da parte di questi monaci un intenso desiderio di sentirsi accompagnati, non dimenticati. Indubbiamente avrebbero bisogno di molte cose, anche di aiuti materiali ma ciò di cui più mi è parso sentissero il bisogno è di essere ricordati, di essere visitati, di sapere di essere parte di un mondo più vasto di quell’oasi di bellezza e di fragilità in cui vivono. La stessa sentenza che ha colpito Mor Gabriel ha avuto pochissima eco in Europa e i monaci hanno risposto alla nostra lettera di solidarietà chiedendoci di far conoscere la loro situazione.

Spero che le comunità cristiane possano rispondere a questo appello. Le possibilità sono molte: la visita fraterna di un gruppo, degli aiuti materiali, la permanenza di qualcuno per alcuni giorni, per condividere la loro vita. Una cosa è chiara: deve essere qualcosa di diverso dal soccorrere chi ha bisogno di aiuto; deve essere piuttosto stringere un’alleanza, coltivare un’amicizia.

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ZENIT Staff

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