di Paul De Maeyer
ROMA, venerdì, 18 febbraio 2011 (ZENIT.org).- In Gran Bretagna, il giudice Supperstone dell’Alta Corte di Londra ha respinto lunedì 14 febbraio una richiesta avanzata da una delle maggiori organizzazioni abortiste del paese – il British Pregnancy Advisory Service (BPAS) -, che voleva ottenere l’autorizzazione per consentire alle donne che scelgono l’aborto farmacologico di assumere la seconda pillola a casa. Secondo il BPAS, la formulazione della legge britannica permetterebbe l’aborto chimico anche dentro le mura domestiche.
Mentre il punto 3 della prima sezione dell’Abortion Act del 1967 [1] stipola che “ogni trattamento per la terminazione di una gravidanza dev’essere eseguito in un ospedale”, l’aborto chimico (o “early medical abortion” in gergo) avviene di norma attraverso la somministrazione di due farmaci, il mifepristone e il misoprostol, che servono rispettivamente per causare la morte del feto e poi espellerlo. Secondo il BPAS, l’aborto vero e proprio avviene con il primo farmaco, il quale va dunque somministrato per legge in una struttura sanitaria, mentre il secondo “accompagna” solo l’aborto già avvenuto e quindi la sua somministrazione può svolgersi anche in altro luogo, ad esempio a casa.
Agli occhi del BPAS, la consapevolezza che l’espulsione del feto possa verificarsi durante il viaggio di ritorno dalla clinica, anche sull’autobus, sarebbe fonte di inutile ansia nelle donne, le quali si sentirebbero invece più a proprio agio a casa. Inoltre l’aborto “a domicilio” ridurrebbe i costi, un argomento “conveniente” in tempi di ristrettezza di bilancio.
Ma l’argomentazione del BPAS non ha convinto il giudice Supperstone, che ha accolto invece la linea seguita dal ministro della Sanità del governo Cameron, Andrew Lansley. Per i legali del ministro, il misoprostol fa interamente parte del “trattamento” e va somministrato per legge in ospedale e non autosomministrato a casa.
La sentenza è stata accolta positivamente dai movimenti pro vita. Secondo Andrea Minichiello Williams, amministratrice delegata di Christian Concern, la decisione del giudice Supperstone “è un messaggio che accogliamo con soddisfazione in una società che è stata portata a credere che l’aborto sia una facile ‘risposta’ ad una gravidanza non pianificata”. “La Gran Bretagna – così si legge sul sito web di Christian Concern (14 febbraio) – ha una delle leggi sull’aborto più liberali d’Europa e uno dei tassi d’abortività più alti e noi dobbiamo ridurre il numero di aborti e restringere la legge, non attenuarla”.
Anche la Society for the Protection of Unborn Children (SPUC) ha espresso soddisfazione per la sentenza, definendola “una vittoria per le donne”. “Se il BPAS avesse vinto questo caso, ne sarebbe derivato un falso segnale e cioé che esiste una via ‘sicura’ per l’aborto”, così ha detto la portavoce, Katherine Hampton, come riferisce il sito dell’associazione (14 febbraio).
Da parte sua, il BPAS si è dichiarato “deluso” che la sua interpretazione dell’Abortion Act non è stata accolta dall’Alta Corte. Ma allo stesso tempo, l’organizzazione è comunque “molto soddisfatta”. Il giudice Supperstone ha stabilito infatti che il ministro della Sanità ha la facoltà di approvare “un ventaglio più ampio di luoghi” per l’aborto. Secondo l’organizzazione abortista, servirebbe solo “una ridefinizione legale di trattamento” per garantire alle donne “la migliore assistenza possibile” (Daily Mail, 15 febbraio).
La mossa del BPAS non sorprende. Come in altri paesi, ad esempio la Francia, dove l’aborto “a domicilio” è stato autorizzato nel luglio 2004 dall’allora ministro alla Salute Philippe Douste-Blazy, la richiesta dell’aborto “a casa” è la logica conseguenza – secondo alcuni il vero obiettivo – dell’aborto farmacologico. Di questo è convinto Assuntina Morresi, consulente del ministero italiano del Welfare e coautrice del libro “La favola dell’aborto facile”. “È l’aborto a domicilio il vero obiettivo dei sostenitori della RU 486, perché solo in questo modo abortire diventa un fatto esclusivamente privato, una questione di scelta fra tecniche mediche”, così ha scritto su Avvenire (17 giugno 2010).
D’altronde, alcune cose non quadrano nel discorso del BPAS. L’organizzazione suggerisce infatti che l’aborto chimico è così sicuro e poco invasivo che non serve la struttura sanitaria ed inoltre che casa propria è il luogo più adatto per portare a termine l’aborto. Purtroppo, non è così. Gli effetti collaterali provocati dall’assunzione delle due molecole sono numerosi e per niente da sottovalutare. Secondo Assuntina Morresi, le vittime certificate in tutto il mondo dell’aborto chimico sono almeno 31 (Avvenire, 2 ottobre 2010).
Il sospetto è che il mifepristone sopprime la risposta immunitaria. Questo vale soprattutto per il misoprostol – un potente prostaglandinico -, specialmente se viene assunto per via vaginale. Questo spiega perché un batterio che fa parte della normale flora intestinale e vaginale, il Clostridium Sordellii, abbia potuto provocare in varie di queste vittime una setticemia fatale (LifeNews.com, 1 ottobre 2010). Proprio per questo motivo, la maggiore organizzazione abortista degli USA – Planned Parenthood Federation of America – raccomanda sempre la profilassi antibiotica per il misoprostol.
Inoltre, l’aborto chimico è un processo “enormemente dilatato nel tempo”, come ha notato il dottor Renzo Puccetti (ZENIT, 29 novembre 2009). L’espulsione del feto può avvenire già dopo alcune ore ma alle volte trascorrono vari giorni. Questo vale anche per il sanguinamento, che in media dura persino una decina di giorni.
La procedura non finisce sempre con un aborto completo, un elemento che a sua volta può provocare gravi complicazioni e persino la morte della donna, come nel caso della giovane californiana Holly Patterson, morta nel 2003 dopo che le era stata somministrata la pillola abortiva . Secondo il rapporto del medico legale della contea di Alameda, a provocare il suo decesso fu proprio un’infezione uterina, effetto di un aborto incompleto (LifeNews.com, 14 febbraio 2006).
Poi c’è l’impatto psicologico sulla donna. “Questo percorso richiede un uso abbondante di antidolorifici ed è stimato che in più della metà dei casi la donna riconosca l’embrione abortito, con i danni psicologici che tutti possiamo immaginare”, ha ricordato nel maggio del 2009 il sottosegretario al Welfare, Eugenia Roccella (ZENIT, 31 maggio 2009). Secondo Filippo Boscia, ginecologo e direttore del Dipartimento materno-infantile della ASL Provincia di Bari, sulla donna pesa oltre al dolore, alla solitudine e al senso di responsabilità nel doversi somministrare il farmaco letale anche il fatto di dover assistere per vari giorni e in piena coscienza al proprio aborto (Avvenire, 18 ottobre 2009).
L’aborto a domicilio dunque non è una conquista né “un diritto inalienabile”, come scrisse invece L’Express il 17 luglio del 2004. “L’aborto con la pillola compiuto a domicilio, nella solitudine della toilette di casa, dell’ufficio o di un treno, oltre che un rischio è una vergogna non degna di un Paese che ha rispetto per le donne”, ha scritto in pieno dibattito sull’introduzione della RU 486 in Italia Francesco Ognibene, giornalista di Avvenire (20 ottobre 2009).
Lo aveva già intuito Papa Giovanni Paolo II. “Per facilitare la diffusione dell’aborto, si sono investite e si continuano ad investire somme ingenti destinate alla messa a punto di preparati farmaceutici, che rendono possibile l’uccisione del feto nel grembo materno, senza la necessità di ricorrere all’aiuto del medico. La stessa ricerca scientifica, su questo punto, sembra quasi esclusivamente preoccupata di ottenere prodotti sempre più semplici ed efficaci contro la vita e, nello stesso tempo, tali da sottrarre l’aborto ad ogni forma di controllo e responsabilità sociale”, così scrisse il Pontefice polacco, che verrà proclamato beato il 1° m
aggio prossimo, nella sua enciclica “Evangelium vitae” del 25 marzo 1995 (EV, 13).
——-
1) Consultabile all’indirizzo web: http://www.legislation.gov.uk/ukpga/1967/87/contents