La forza profetica della Dottrina sociale della Chiesa

ROMA, giovedì, 17 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’editoriale di Claudio Gentili, scritto in occasione del  XX anniversario de “La Società” (www.fondazionetoniolo.it/lasocieta), la rivista di studi e documentazione della Fondazione Toniolo sulla Dottrina sociale della Chiesa.

L’editoriale esamina l’evoluzione della riflessione sulla Dottrina sociale della Chiesa dalla Laborem Exercens alla Caritas in Veritate.

Print Friendly, PDF & Email
Share this Entry

* * *

La nostra Rivista compie vent’anni. Innanzitutto desidero rivolgere un pensiero deferente e grato a chi l’ha fatta nascere e a chi ha consentito a “La Società” di perseverare con fedeltà sulle orme del Magistero della Chiesa al servizio della diffusione e dell’approfondimento culturale e pratico della Dottrina sociale. In primis Mons. Mario Toso, Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, tra gli ideatori della Rivista insieme a Mons. Giampaolo Crepaldi, oggi Vescovo di Trieste e Don Adriano Vincenzi, Presidente della Fondazione Toniolo, il nostro editore. Ma questo ringraziamento è rivolto a tutti quelli che hanno voluto bene alla nostra Rivista, a partire dal primo direttore, Sandro Fontana, a tutti i collaboratori della redazione, alle associazioni cattoliche che hanno creduto alla funzione formativa della nostra Rivista, ai responsabili dei gruppi della DSC, ai lettori tutti.

La nostra Rivista nasceva nel 1991. Nello stesso anno in cui il Beato Giovanni Paolo II promulgava l’enciclica sociale Centesimus annus. Erano gli anni in cui la Dottrina sociale riemergeva da dopo un letargo quasi ventennale. Come è noto, alla fine degli anni ’60, una parte rilevante della teologia cattolica ha cantato il de profundis alla Dottrina sociale ritenendola una ideologia della terza via superata e inapplicabile e chiamando i cristiani a una scelta di campo tra capitalismo e socialismo. Il Discorso di Puebla del 1979, nell’ambito della seconda Assemblea dell’episcopato latino-americana, il Discorso all’Episcopato Italiano del 1985 a Loreto, le potenti parole delle tre Encicliche Sociali, Laborem exercens (1981), Sollicitudo rei sociali (1987) e Centesimus annus numerosi discorsi tenuti a tutte le latitudini hanno fatto di Giovanni Paolo II il Papa della riscoperta della Dottrina Sociale della Chiesa (DSC).

E non solo di una DSC proclamata ma di una DSC all’opera nelle grandi trasformazioni sociali che hanno attraversato gli ultimi decenni: dalla fine della guerra fredda, al crollo del comunismo sovietico, dal dinamismo della Chiesa latino-americana, all’affermazione della libertà religiosa, al dialogo interreligioso, al mea culpa giubilare, alle straordinarie giornate della gioventù, alla difesa incrollabile dei diritti negati dei poveri del mondo. La nostra rivista non si può comprendere senza il Magistero sociale di Giovanni Paolo II e senza quello straordinariamente coerente con il primo di Benedetto XVI. Come ha ricordato più volte nei suoi illuminanti saggi Mons. Toso, il nostro modo di approcciare la Dottrina Sociale è estraneo ad ogni riduzionismo ideologico e si fonda sulla chiara identificazione della DSC come teologia morale con un forte ancoraggio trinitario.

C’è un trittico trinitario, che nella riflessione magisteriale del Papa polacco, ci pare davvero fondativo. Si tratta delle tre encicliche – da leggere in armonia – Redemptor Hominis (dedicata al Figlio), Dives in Misericordia (dedicata al Padre) e Dominum et Vivificantem (dedicata allo Spirito).E vi è un trittico sociale che da questa riflessione teologica direttamente dipende: la Laborem Exercens, la Sollicitudo Rei Socialis e la Centesimus Annus.

Il pensiero moderno ha smarrito il nesso soggetto-persona e si arrovella spesso con affanno attorno al tema della composizione io-noi, individuo-società. Giovanni Paolo II spiega che l’uomo non può rinunciare a essere se stesso (verità dell’identità) e non può essere se stesso da solo (verità della relazione). L’appartenenza alla famiglia degli uomini, attraverso la mediazione della famiglia parentale porta inevitabilmente al riconoscimento del vincolo irriducibile che lega ogni persona a Dio, nel momento in cui Cristo “svela l’uomo all’uomo” (Gaudium et Spes n.22). Tutte le problematiche sociali così care al “Papa operaio”, dal lavoro al mercato, dalla giustizia sociale alla pace, dai diritti della persona alla libertà religiosa, alla globalizzazione, all’iniquo rapporto Nord Sud del mondo, stanno dentro il trittico delle encicliche trinitarie e si basano sulla riflessione sulla esperienza elementare.

La Trinità è assunta come essenziale punto di riferimento per il porsi della persona (creata come uomo e donna) in quanto soggetto costitutivamente in comunione.Le celebri Catechesi sul corpo di Giovanni Paolo II esprimono con singolare efficacia il primo nucleo dell’esperienza umana elementare. Il corpo mediante la sua “visibile” mascolinità e la femminilità rende visibile ciò che è invisibile: lo spirituale e il divino. Indagare l’uomo a partire dall’affermazione che il corpo è sacramento di tutta la persona rende credibile la possibilità di una nuova centralità dell’uomo contro la pretesa del pensiero debole della fine del soggetto. Proprio il corpo, come sacramento di tutta la persona, ne rivela l’ultima e radicale irriducibilità. Nel pensiero del Papa teocentrismo, cristocentrismo e antropocentrismo stanno insieme.

Il fil rouge che lega i numeri della rivista che si sono succeduti dal 1991 a oggi è senza dubbio il magistero di Giovanni Paolo II e quello di Benedetto XVI. Due encicliche si può dire che scandiscono la riflessione de “La Società”, la Laborem Exercens e la Caritas in Veritate del 2009. Queste due encicliche sono legate da una idea di fondo: la percezione che la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica e il trait d’union tra queste due encicliche è la Evangelium Vitae. Infatti l’apertura alla vita è il cuore dello sviluppo umano integrale e i cosiddetti valori “non negoziabili” stanno nel DNA della natura umana. Vita, famiglia, libertà religiosa e educativa sono fondativi dell’umano. Senza etica della vita è illusoria l’etica sociale. I diritti al lavoro, alla casa, alla salute, la pace, la giustizia sociale, la custodia del creato germogliano dall’accoglienza alla vita. Oltre al ventesimo anniversario della nostra Rivista, quest’anno ricorre il 30mo anniversario della Laborem Exercens del 1981, dedicata al tema del lavoro umano. Giovanni Paolo II, con uno stile che procede per cerchi concentrici, guarda all’uomo, posto al centro dei conflitti sociali del tempo presente, valorizzandolo nell’intimo legame con il lavoro. «Il lavoro umano è la chiave essenziale, di tutta la questione sociale» (3).

La riflessione sul lavoro dell’uomo ci ricorda che la Bibbia si apre con Dio che lavora: «In principio Dio creò il cielo e la terra» (Gen 1,1) e che crea l’uomo a sua immagine. Attraverso il lavoro l’uomo realizza se stesso, poiché il lavoro, per essere pienamente vero, ci deve parlare oltre che dell’uomo e della sua dignità, anche di Dio. Di un Dio che lavora sei giorni e il settimo si riposa fa festa e gioisce, trovando bella l’opera delle sue mani (Gn 2,2), di un Dio che si è identificato per quasi trent’anni della sua vita terrena nel lavoro del carpentiere di Nazareth (Mc 6,3), di un Dio che ha redento il lavoro e ha chiamato i suoi discepoli a seguirlo mentre erano al lavoro, invitandoli a diventare pescatori di uomini (Lc 5,10).

C’è un asse teorico che, nonostante le differenze, corre da Locke, uno dei padri della cultura liberale, fino a Marx che ne è stato il critico più radicale, passando per le poderose analisi di Hegel. Questi autori sono le pietre miliari dell’era dell’intronizzazione del lavoro, che assurge a fondamento della definizione dell’umano e del suo destino storico. Ecco, l’assolutizzazione prometeica del lavoro ha mortificato il profilo soggettivo dell’uomo che lavora. Ed è la risposta a questa assolutizzazione del lavoro il proprium della Laborem Exercens: il tema del primato dell’uomo sul lavoro.

Nel lavoro si riassumono le tre questioni cruciali del nostro tempo: la questione
sociale, quella ecologica e quella antropologica. Eppure si avverte un deficit di riflessione teologica e antropologica sul lavoro. Sembrano prevalere, nella prassi concreta dei cristiani che danno attenzione al tema del lavoro, istanze di tipo assistenziale o rivendicativo ed è carente il discernimento sociale sulle res novae che riguardano il lavoro e i lavori.

Tutti ricordiamo il libro di M.-D. Chenu “Per una teologia del lavoro”. È auspicabile che la teologia torni a interrogarsi sul lavoro. In uno scenario completamente diverso a quello che aveva di fronte il celebre domenicano. Nella crisi dell’ideologia che presiedeva a una visione forte del lavoro, ha acquisito centralità la questione ecologica, nel suo duplice versante del limite delle risorse e dei processi di inquinamento. Ma non è stata ancora sufficientemente tematizzata la questione dell’ecologia sociale del lavoro. È stata la crisi del concetto di homo faber che ha fatto piazza pulita di una idea di lavoro totalizzante e esclusiva, lasciando spazio a una idea del lavoro a cui non è estranea la festa e che viene integrata con le altre dimensioni della vita (la cura di sé, la crescita culturale, le relazioni, la genitorialità).

La Laborem Exercens ci insegna che il lavoro è vocazione, risposta alla chiamata di Dio a trasformare la terra, a servire la vita. E ci insegna che esso, in virtù del peccato originale, è segnato da un rapporto difficile con il tempo, con il denaro, con l’altro uomo. Può diventare alienante e sostituirsi alla vita e ai suoi ritmi, impedendo ai genitori la presenza fondamentale nella educazione dei figli o impedendo una vita serena. Il lavoro insomma è gioia, ma anche frustrazione, relazione fraterna e cooperativa ma anche sfruttamento.

Il lavoro non lo porta la cicogna ma è legato all’intrapresa economica e allo spirito imprenditoriale, ma anche allo spirito cooperativo e sociale. Per educare al lavoro bisogna aver chiaro il carattere antropologico del mercato e dell’impresa come espressioni della libertà di iniziativa dell’uomo.

Percepiamo con preoccupazione le difficoltà di chi non riesce a trovare il lavoro e il dramma di chi lo perde specialmente in questa grave situazione di crisi economica. Per la Chiesa e i cristiani la disoccupazione non è mai un fatto fisiologico ma una sfida che ci interpella e ci chiama a ricordare sempre il primato del lavoro sul capitale e al tempo stesso (proprio perché il lavoro non lo porta la cicogna) a costruire una società in cui cresca lo spirito di impresa e questo spirito abbia sempre un saldo ancoraggio etico.

Accanto al tema del lavoro la nostra Rivista ha dedicato costante attenzione al tema della famiglia, spesso sottovalutato da chi si occupa di temi sociali. Vi è una strettissima relazione tra famiglia, lavoro e giovani. “Quando la precarietà del lavoro – ha affermato Benedetto XVI il 12 ottobre del 2007 in occasione del Centenario delle Settimane Sociali – non permette ai giovani di costruire una loro famiglia lo sviluppo autentico e completo della società risulta seriamente compromesso”.

La famiglia è uno dei principali fattori di solidità del nostro vivere civile. La famiglia è tradizione, relazione col passato, trasmissione di benedizioni. La famiglia “ecologica”, quella che la nostra Costituzione all’art. 29 riconosce come “società naturale fondata sul matrimonio”, garantisce la solidarietà intergenerazionale e l’ attenzione per i più piccoli, i più deboli, gli anziani.

Vi sono due fenomeni che minacciano la famiglia. Il primo è la crisi educativa, con padri-amiconi e insegnanti-socializzatori che dimenticano che l’educazione è sempre l’incontro tra una autorità e una libertà e che educare è introdurre nella realtà. Il secondo è quello che il Cardinale Bagnasco ha definito “suicidio demografico”. Oltre il 50 per cento delle famiglie oggi è senza figli e, tra quelle che ne hanno, oltre la metà si fermano a un solo figlio. Perennemente citata nei programmi politici di tutti i partiti, la famiglia è all’atto pratico, oggetto di una incomprensibile disattenzione. La famiglia non ha bisogno di assistenza, ma come l’insieme del sistema economico, di politiche e di investimenti audaci e duraturi per la crescita. E veniamo agli anni più recenti, scanditi dalla ultima enciclica sociale che ha un carattere riassuntivo e rievocativo dei temi della questione sociale.

La Caritas in Veritate, infatti, si pone nella grande tradizione aperta dalla Rerum Novarum di Leone XIII (1981) che si era occupata della questione operaia, della Quadragesimo anno di Pio XI (1931) che rifletteva sulla grande crisi finanziaria del ’29, della Mater et magistra di Giovanni XXIII (1961), di cui quest’anno si celebra il 50mo anniversario, che reagiva alla guerra fredda e al conflitto tra i blocchi dell’Est e dell’Ovest, della Populorum progressio di Paolo VI (1967) che affrontava il grande tema del Terzo mondo e della giustizia sociale planetaria, della Centesimus annus di Giovanni Paolo II (1991) che interrogava di fronte al crollo del muro di Berlino del 1989.

Per comprendere la novità della Rerum Novarum ci sono voluti dieci anni. Altrettanti ce ne vorranno per comprendere le novità di questa enciclica a cui la nostra rivista ha dedicato e continuerà a dedicare attenzione e riflessione. Come abbiamo già avuto modo di rilevare, questa enciclica, come la Laborem exercens e come la Centiesimus annus ha un forte ancoraggio trinitario. Papa Benedetto parla con semplicità di Dio e fonda teologicamente e trinitariamente tutta la ricerca della Dottrina sociale: senza Dio non sappiamo né chi siamo né dove andiamo. Noi amiamo Cristo e per questo amiamo i poveri, non sostituiamo i poveri a Cristo.

Il tema di ogni Enciclica sociale è il posto di Dio nel mondo. Con la Caritas in Veritate di Benedetto XVI, la Dottrina sociale della Chiesa fa un passo avanti nel difficile cammino della storia. L’Enciclica risponde ad una tentazione del nostro tempo. Poiché i cristiani sono simpatici quando fanno volontariato e si occupano dei poveri e risultano antipatici quando parlano di famiglia naturale, divorzio, aborto, eutanasia, cellule staminali, clonazione, allora – potremmo essere tentai di concludere “è meglio accontentarsi di fare la carità senza parlare della verità”.

E’ la tentazione di una sorta di “moratoria sulla verità” nel tempo del relativismo, facendo del Cristianesimo una filantropia. È una tentazione che alberga anche in molti cosiddetti “cattolici adulti” che mettono la sordina alle idee di fondo della Dottrina sociale per non affrontare temi eticamente sensibili e non trovarsi in dissenso col pensiero scientista dominante. Senza la forza della carità (intesa non come assistenza ma come amore) e la luce della verità cristiana l’uomo non è capace di tenersi insieme, perde i propri pezzi, si decompone.

Il pregio della Caritas in Veritate sta nel superamento (già avviato con la Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II) della separazione dei temi della vita e della famiglia da quelli della giustizia sociale e della pace, e nella chiara affermazione che oggi “la questione sociale è questione antropologica”. E su queste tematiche, in vent’anni la nostra rivista ha con coerenza sviluppato un attento discernimento sociale, senza cedere alle mode e soprattutto senza rinunciare al saldo ancoraggio ad una visione spirituale e non ideologica, della Dottrina sociale. Tutta l’Enciclica può essere riletta alla luce del famoso paragrafo 22 della Gaudium et spes: solo Gesù Cristo svela pienamente l’uomo all’uomo e gli permette di ‘tenersi’, come un tutto.

Noi cristiani sappiamo che non è possibile costruire una società perfetta. Una società definitivamente salva dentro la storia non esiste. E questo ha a che fare con il peccato originale. L’idea di progresso nasce con il cristianesimo. Ma l’idea di una
salvezza collettiva e programmabile non è cristiana ed è propria di quei sogni ideologici che in nome della giustizia e della società perfetta chiudono nei lager o deportano in Siberia. Sogni che hanno attraversato la storia delle dottrine politiche e dei messianismi ideologici da Gioacchino da Fiore a Rousseau, da Marx a Lenin, da Hitler a Stalin, da Mao a Che Guevara. Sogni che si sono rivelati speranze vane e hanno lasciato il passo alla disillusione.

Naturalmente il cristiano non è l’uomo dell’accettazione dell’ingiustizia e la nostra rivista non ha mai abbandonato l’attenzione costante ai temi sociali che spesso invece sono trascurati nella omiletica e nella pastorale. Cambiare il mondo significa togliere agli uomini le loro paure, ridurre le aggressività, dare una patria in cui ci si senta sicuri, a tutti ma soprattutto a bambini, stranieri, moribondi, malati, ridurre il divario tra il Nord e il Sud del mondo.

Proprio per questo i gruppi della DSC nati in oltre 40 diocesi italiane e che si ritroveranno tutti insieme a settembre a Verona in occasione del primo “Festival nazionale della DSC”, nel mentre s’impegnano ad incarnare il Vangelo nel vivo della realtà sociale con spirito laico e senza integralismi, hanno un grande bisogno di alimentarsi sul piano teologico alle fonti del pensiero sociale. Solo chi ha solide basi teologiche e spirituali può laicamente mettere in pratica la Dottrina sociale.

Mettere il bavaglio alla Dottrina Sociale della Chiesa sarebbe un gesto contro i poveri e contro la storia. Chi denuncia le “ingerenze” della Chiesa nella vita pubblica (pensando agli interventi del Magistero quando sono in gioco i valori della vita, della persona, del bene comune) dovrebbe ricordare che – ammesso e non concesso che si tratti di “ingerenze” – si tratta di “ingerenze umanitarie”, cioè di interventi che mirano a proteggere la dignità delle persone immagine di Dio da ogni strumentalizzazione e da ogni sfruttamento.

La Chiesa, quando annuncia il Vangelo e le sue esigenze sociali, si fa paladina di ecologia umana, protegge l’ambiente umano da ogni sorta di inquinamento che ne minacci la dignità. Ogni uomo è per noi una storia sacra.

Non ci può essere efficace azione sociale senza solido pensiero sociale. Le migliori pagine della storia del movimento cattolico sono state scritte da uomini e donne che sapevano coniugare carità (azione) e verità (pensiero). Oggi assistiamo a una grave debolezza di pensiero. Anche nelle nostre associazioni. E il mondo soffre per mancanza di pensiero.

Se la carezza è l’unità di misura del riconoscimento della persona, possiamo definire la dottrina sociale della Chiesa come la carezza di Dio al mondo. La Dottrina sociale della Chiesa guarda il cielo e abbraccia la terra. Il Vangelo genera solidarietà, ma la Chiesa non è la croce rossa. I cattolici non si limitano al servizio della carità. La presenza sociale è sale (“nel mondo”) e luce (“ma non del mondo”). Se noi cattolici conosciamo solo le parole del mondo (“inginocchiati al mondo” come scriveva l’ultimo Maritain nel “Contadino della Garonna”) saremo omologati e irrilevanti. Senza primato della vita spirituale non esiste presenza sociale. Una nuova presenza dei cattolici nella vita sociale e politica non si improvvisa, ma si prepara lentamente in un cammino di formazione interiore, spirituale e sociale.

Alle volte in questi vent’anni ci siamo chiesti o ci è stato chiesto se aveva senso una rivista come la nostra o se non era meglio buttarsi nell’azione senza attardarsi nella lettura di complessi e approfonditi saggi sulla Dottrina sociale. Di fronte a questa tentazione attivistica che non ha mai abbandonato la cultura di molti cattolici impegnati nel volontariato, la nostra risposta è stata sempre univoca. Nelle parrocchie, negli oratori, nei gruppì di volontariato, nelle associazioni e nei movimenti c’è carenza di formazione al pensiero sociale e la nostra Rivista non ha affatto perso il suo valore. Il mondo oggi soffre per mancanza di pensiero. E anche tra i cattolici più impegnati non è infrequente imbattersi in persone che non hanno mai letto nulla dei Padri della Chiesa e dei moderni pensatori cattolici (da Maritain a Mounier, da Guardini a De Lubac, da Congar a Balthasar). Con il loro quaerere Deum i monaci benedettini hanno fatto cultura. È un messaggio che vale anche per noi e per il nostro tempo e che ci invita alla serietà e alla fatica dello studio e del discernimento. Uno studio e un discernimento che è faticoso ma aiuta a uscire dal moralismo politico ed è un ottimo antidoto per chi non vuole ridursi a spettatore del “Grande Fratello” o a tifoso scalmanato di “Anno Zero”.

La Dottrina sociale della Chiesa costituisce oggi un ideale crocevia, un’agorà, un punto di incontro e confronto non solo per i cristiani, ma per quanti credono nel bene comune e lo perseguono. Non si tratta solo di apprendere ed insegnare il pensiero della Chiesa, quanto di educare a un metodo di pensiero, ad un atteggiamento di vita, ad una capacità di “discernimento sociale”, ad un esercizio responsabile della cittadinanza. La Dottrina sociale della Chiesa non è un pensiero che esclude ma che apre agli altri, guida e sostiene i cristiani e le comunità nella ricerca del bene comune.

Print Friendly, PDF & Email
Share this Entry

ZENIT Staff

Sostieni ZENIT

Se questo articolo ti è piaciuto puoi aiutare ZENIT a crescere con una donazione