di Mariaelena Finessi
ROMA, giovedì, 17 febbraio 2011 (ZENIT.org).- «Presente in ogni comportamento, la paura è un’emozione che può condizionare le nostre scelte ma, soprattutto, le nostre “non scelte”». Docente di psicologia all’università Gregoriana, padre Giovanni Cucci così spiega la persistenza nell’era moderna di una delle più ataviche emozioni umane.
In un incontro pubblico tenuto sabato scorso presso la sede della Civiltà Cattolica a Roma, il gesuita sostiene che «la paura è il nome che diamo alla nostra incertezza ed ignoranza. E poiché non si può conoscere tutto, ecco allora che la paura non può essere estirpata». A nulla sembrerebbero servire allora gli antifurti, i metal detector, i satelliti artificiali, le porte blindate o le videocamere: «Tutto questo non ci rende più sicuri perché scienza e tecnologie sono strutturalmente incapaci di dare risposte alle paure dell’uomo». Il motivo è semplice: «La paura è frutto della fantasia, lavora sull’immaginazione, su ciò che potrebbe accadere».
Basti pensare, come scrive il filosofo polacco Zygmunt Bauman, che «in questi anni – soprattutto in Europa ed oltreoceano – la forte propensione alla paura e la maniacale ossessione per la sicurezza hanno fatto la più spettacolare delle carriere». Spesso a scapito proprio del benessere. La conferma è in uno studio londinese con il quale si sostiene che «corre di ammalarsi il doppio chi ha paura di essere attaccato o minacciato». Di più, la ricerca di un’eccessiva sicurezza ha delle ricadute a livello emotivo. E la conseguenza, spesso, è la noia. «E cos’è la noia – si domanda padre Cucci – se non l’accidia che, spegnendo l’entusiasmo, porta a commettere le azioni peggiori?».
Lo stesso consumismo è legato alla prospettiva di assicurarsi il futuro. Pietro Bernardone, padre di San Francesco d’Assisi una volta disse: «Tutti gli uomini agiscono per paura. Io sono diventato ricco per paura di restare povero». Uno dei maggiori canali commerciali per vendere le notizie e l’ascolto, poi, sono ad esempio le malattie e il thriller che alimentano i circuiti dei bestseller: la morte si rifugge ma al tempo stesso crea morbosità. «Nel 1999 – ricorda il gesuita – subito dopo lo strage di Denver, nonostante il 20% di crimini in meno, le news di nera nei media Usa erano aumentate del 600%». Quanto ai media, qui incriminati, essi non risparmiano categorizzazioni e in tv e sui giornali è facile sentir parlare di “folli”, “disturbati” e “mostri”. Classificazioni che ci rassicurano perché creano una netta cesura tra il buono e il male «mentre gli psichiatri si fanno garanti di questi pregiudizi».
Nella sua analisi sulle angosce da insicurezza Bauman evidenzia una sorta di paradosso, in virtù del quale se è vero che viviamo nelle più sicure delle società fino ad oggi esistite, è anche vero che «il viziato, coccolato “noi” si sente malsicuro, minacciato e impaurito, più incline al panico». Al contrario, precisa Cucci «la stima in se stessi nasce, e si accresce, solo superando gli ostacoli». Il teologo domenicano Timothy Radcliffe sembra legare la questione allo stile di vita dell’Occidente, più ricco di quello dell’Africa «dove le persone – scrive ne “Il punto focale del Cristianesimo. Che cosa significa essere cristiani?” – sopportano pericoli terribili ogni giorno con calma e fiducia».
A ben vedere, comunque, per Cucci «la paura rimane invincibile finché ci si limita a considerarla dall’esterno, come un segnale di allarme di fronte ad un nemico visibile o nascosto, sempre pronto a colpire. Si tratta piuttosto di riconsiderare la dimensione interiore del pericolo». Il nemico, come aveva compreso la tradizione filosofica e spirituale, risiederebbe infatti non fuori ma dentro di noi, «ed è in quella sede che va riconosciuto, affrontato, sanato». Per questo, aggiunge, «solo un cammino religioso e spirituale è in grado di rassicurare il nostro cuore pauroso» perché, ricorda, «la vita di ciascuno non è preda del caso o del prepotente di turno, ma si trova saldamente nelle mani di Dio».
Deleterio quando supera la soglia che ingegna invece a cercare soluzioni migliori, l’eccesso di timore impedisce di vivere in serenità. «Sono convinto che se c’è qualcosa da temere – così il presidente Usa, Franklin D. Roosevelt, nel discorso inaugurale del 4 marzo 1933 – è la paura stessa, il terrore sconosciuto, immotivato e ingiustificato che paralizza». E la paralisi colpisce anche l’intelligenza selettiva nella misura in cui non ci consente di distinguere il fondamentale dal secondario. Così facendo non vi sono più differenze e tutto è sullo stesso piano. Un modus vivendi «che è alla base del suicidio giovanile, per cui un evento banale viene letto come catastrofe».
«Anche in ambito religioso – aggiunge padre Cucci – la paura è un ostacolo potente perché si ricorda più di una buona predica». Così si ha più paura dei castighi che di una relazione, quello tra l’uomo e Dio, che è di amore-affetto. È ciò che avviene con il cosiddetto “pensiero magico”, quando nella elaborazione cognitiva manca una relazione causale tra soggetto e oggetto, «per cui, ad esempio, non appena un individuo si ammala si interroga sconsolato su quale sia il male da lui commesso per fargli meritare una punizione tanto grande».
«Spesso anche nel predicatore si evince più la paura della morte in croce che il mistero celebrato. Ad esempio Martin Lutero nella predica del Venerdì Santo racconta di una collera così grande che non poteva essere placata se non con la morte del Figlio». Un Dio, diranno altri, che si fa carnefice di Gesù mentre lo storico francese Jean Delumeau nel libro “Il peccato e la paura. L’idea di colpa in Occidente dal XII al XVIII secolo” racconta la “pastorale della paura”, ossia una pervasiva pedagogia attuata dalle prediche, dall’iconografia macabra che sommata ad una serie di calamità e orrori bellici che caratterizzarono quei secoli dovettero apparire altrettante punizioni in cerca di una colpa.
«Ma anche qui si è giunti ad un paradosso – spiega il gesuita -, perché approdando al definitivo silenzio sul peccato e il castigo si arriverà pure alla scristianizzazione dell’Europa». Non bastano i riti per poter conservare la fede: nel Vangelo è infatti stigmatizzata la categoria del fariseo per il quale alcuni comportamenti sacramentali assicurerebbero la serenità. «In realtà si è dinanzi ad una morte spirituale, la tendenza è di ridurre il rapporto con Dio ad un livello “legale” (“non rubare”, “non uccidere”, ecc.)». Quando la nuvola si abbassa, e si smarrisce l’orizzonte, maggiore è il timore, «sentimento che unito alla sfiducia erano, per Gesù, i veri nemici dell’uomo: ricorrenti infatti, nelle pagine bibliche, le incitazioni a “non temere”. Appunto, a “non avere paura”».
Si badi bene, avverte però Cucci, che «l’assenza di paura è presunzione, non è coraggio. Solo lo psicopatico si espone a situazioni mortali. Il coraggio, al contrario, è l’analisi, la valutazione ponderata del rischio, la “fortezza della mente” come lo chiamava San Tommaso». Essere coraggiosi vuol dire mettere in conto il rischio di morire, in assoluto la più grande paura dell’uomo, più acuta quando ci si sente o si è soli. È vero allora, come dice Don Abbondio, che il coraggio non è che uno se lo può dare «ma ci si può sostenere a vicenda, con fiducia, la stessa che il bimbo nutre per la mamma» perché ad impedire all’uomo di vivere una vita piena «è la paura della fragilità che non si vuole accettare e – conclude padre Giovanni Cucci – l’intimità che non si vuole condividere».