La Turchia espropria terreni al monastero di Mor Gabriel

Le comunità religiose del Paese non hanno personalità giuridica

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di Paul De Maeyer

ROMA, venerdì, 11 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Non c’erano riusciti neppure i Mongoli nel XIV secolo, quando uccisero 40 monaci ed altri 400 fedeli, ma forse ci sta riuscendo la Turchia del primo ministro Recep Tayyip Erdogan, cioè a far scomparire uno dei più antichi conventi cristiani in assoluto al mondo. Stiamo parlando del monastero siro-ortodosso di Mor Gabriel [1] o “Dayro d-Mor Gabriel”, chiamato “Deyrulumur” in turco e situato nella regione di Turabdin (o Tur Abdin), nel sudest dell’Anatolia. Il convento porta il nome di Mor Gabriel (634-668), vescovo di Turabdin, noto per la sua testimonianza di santità e la sua attività di taumaturgo.

La fondazione del monastero, che sorge oggi a sudest della città di Midyat, nella provincia di Mardin, vicino al confine con la Siria, risale all’anno 397 d.C. ed è avvenuta su iniziativa di due monaci, Mor Samuel e Mor Simon, morti rispettivamente nel 409 e nel 433. Il complesso, che vanta alcuni elementi costruiti con gli aiuti di imperatori bizantini come Arcadio (395-408) e Teodosio II (408-450), ospita oggi una piccola comunità composta da 3 monaci e 14 suore.

Mor Gabriel non è solo un monastero. Soprannominato anche la “seconda Gerusalemme”, Mor Gabriel è infatti la sede del metropolita Mor Timotheus Samuel Aktas e il centro culturale e spirituale della sempre più piccola comunità siro-ortodossa della Turchia e dei numerosi siriaci che hanno deciso di emigrare in Occidente, fra cui gli USA e l’Olanda. Nella zona di Turabdin – significa “Montagna dei servi di Dio” – vivevano negli anni ’60 infatti ancora circa 130.000 siriaci, oggi è il loro numero è sceso ad appena qualche migliaio (AsiaNews, 26 gennaio 2009).

Il monastero è al centro di un’aspra e costosa battaglia legale avviata nel 2008 dai capi di tre villaggi curdi confinanti dominati dalla tribù Çelebi – Yayvantepe, Eglence e Candarli -, che hanno ricevuto l’appoggio di un parlamentare del partito filo-islamico di Erdogan (l’AKP o Partito per la Giustizia e lo Sviluppo), il capo tribale Suleyman Çelebi. Le accuse mosse nei confronti della comunità monastica sono varie, fra cui quella di svolgere attività di proselitismo, un riferimento al fatto che il monastero accoglie anche giovani che studiano l’aramaico orientale o siriaco. È stata avanzata inoltre la tesi che il monastero sia stato costruito sul posto dove sorgeva in precedenza una moschea, un’accusa completamente infondata e persino assurda, visto che Mor Gabriel è ben anteriore alla nascita dell’islam. L’accusa convincente – almeno agli occhi della giustizia turca – è stata poi quella sostenuta dal ministero del Tesoro: appropriazione indebita di terreni. Anche questa è comunque un’accusa poco comprensibile, dato che la comunità di Mor Gabriel paga regolarmente le tasse sulle terre in questione.

La vicenda ha conosciuto di recente la sua conclusione forse definitiva. Con una sentenza resa pubblica il 27 gennaio (ma risalente al 7 dicembre 2010), la “Yargitay” o Corte di Cassazione di Ankara – il più alto tribunale d’appello della Turchia – ha capovolto un verdetto emesso il 24 giugno 2009 dal tribunale di Midyat ed ha dato ragione al ministero in questione. Secondo la sentenza della Yargitay, 12 parcelle di terra con una superficie complessiva di 99 ettari sono da considerare “boschi” ed appartengono dunque “ipso facto” per legge allo Stato turco (Forum 18 News Agency, 7 febbraio).

Per Mor Gabriel, la sentenza è un brutto colpo. Perdere i terreni significa perdere i mezzi di sostenimento necessari per la propria sopravvivenza. Mentre fonti vicine all’agenzia Forum 18 hanno definito la sentenza “altamente politica ed ideologica”, l’intera vicenda è stata qualificata sin dall’inizio come “un processo spettacolo” o “farsa”. “L’obiettivo delle minacce e il processo sembrano essere un modo di reprimere ed espellere questa minoranza dalla Turchia, come un corpo estraneo”, così disse nel 2009 ad AsiaNews il capo della Federazione Aramaica, David Gelen. “La Turchia deve decidere – così continuò – se vuole conservare una cultura antica di 1600 anni, o se vuole annientare anche gli ultimi resti di una tradizione non musulmana. È in gioco la multiculturalità che ha sempre caratterizzato questa nazione sin dai tempi dell’Impero ottomano” (26 gennaio 2009).

La sentenza ha provocato poco clamore in ambienti europei, tranne in Germania, dove vari partiti, fra cui anche la frazione socialdemocratica nel Bundestag (Camera bassa) e persino Die Linke (La Sinistra), l’hanno respinta. “La frazione della SPD condanna espressamente l’espropriazione, perché i terreni circostanti sono fondamentali per la vita del monastero. Il monastero Mor Gabriel merita la nostra protezione”, si legge in un comunicato firmato da Cristoph Strässer e Angelika Graf (1 febbraio). Parole forti ha usato anche Erika Steinbach (CDU), portavoce del gruppo parlamentare tedesco per i Diritti umani e l’Aiuto umanitario, che ha parlato di una sentenza che simboleggia “la repressione della cristianità in Turchia”. “La tendenza negativa nella libertà religiosa in Turchia è incompatibile con i diritti umani”, ha detto la Steinbach (Assyrian International News Agency, 30 gennaio).

In un lungo articolo pubblicato il 7 febbraio sul sito dell’agenzia norvegese Forum 18 [2], Otmar Oehring, direttore dell’Ufficio per i Diritti umani dell’organizzazione cattolica tedesca Missio, ha analizzato la situazione delle varie comunità religiose in Turchia, fra cui anche la vicenda di Mor Gabriel. Secondo Oehring, il problema di fondo è semplice: nessuna comunità religiosa esiste ed è mai esistita per la legge turca. “Non hanno personalità giuridica, ma esistono”, così ha ammesso il 17 gennaio scorso il vice premier turco Bülent Arinc, commentando la battaglia legale attorno all’orfanotrofio di Büyükada, sull’omonima isoletta a largo di Istanbul nel Mare di Marmara, vinta dal patriarcato ecumenico di Istanbul davanti alla Corte Europea per i Diritti Umani di Strasburgo.

Per ora i rappresentanti di molte religioni preferiscono rimanere in silenzio. Temono – come dimostra il caso di Mor Gabriel – di attirare l’ostilità delle autorità e di dover affrontare lunghe e soprattutto costose battaglie legali, per perdere poi la loro “de facto” libertà, così ribadisce Oehring. Per l’autore, l’unica soluzione per sciogliere il nodo, che è “completamente incompatibile con la Convenzione Europea sui Diritti dell’uomo e le Libertà fondamentali”, è un cambiamento della Costituzione e del Codice Penale della Turchia. Lo ha ammesso nell’ottobre scorso anche l’allora capo del “Diyanet” (Direttorato per gli Affari religiosi), il professor Ali Bardakoğlu. “La soluzione è permettere all’istituzione religiosa di essere autonoma. La Turchia è pronta per questo”, aveva detto al quotidiano Radikal. Il mese successivo, Bardakoğlu ha dovuto lasciare il suo incarico. Il cosiddetto “Stato profondo”, che difende strenuamente l’eredità laica di Mustafa Kemal Atatürk (1881-1938), esiste dunque ancora in Turchia.

Per i monaci di Mor Gabriel, l’unica strada per non perdere per sempre le loro terre è quindi seguire l’esempio del patriarcato ecumenico di Costantinopoli e rivolgersi a loro volta alla Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo. “Ho taciuto di fronte a queste ingiustizie, ma non lo farò più”, ha promesso il metropolita Aktas (Economist, 2 dicembre 2010).

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1) Il monastero dispone di un sito Internet in tre lingue (siriaco, turco e inglese): http://morgabriel.org/

2) http://www.forum18.org/Archive.php?article_id=1537

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ZENIT Staff

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