di Paul De Maeyer
ROMA, mercoledì, 9 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Un “sì” più netto di così non ci poteva essere. Infatti, ben il 98,83% dei 3.851.994 sud sudanesi che hanno partecipato allo storico referendum sull’indipendenza ha indicato sulla scheda di voto il simbolo di una mano che saluta, esprimendosi in questo modo a favore della scissione dal Nord, mentre appena l’1,17% si è espresso favorevolmente all’unità con il Sudan, scegliendo l’altro simbolo, quello di due mani unite in una stretta. Detto altrimenti: 3.792.518 sud sudanesi hanno detto “sì” alla creazione di un nuovo Stato, mentre solo 44.888 hanno detto “no” alla separazione da Khartoum [1].
Questo è il risultato dopo lo scrutinio della totalità delle schede del voto svoltosi da domenica 9 a sabato 15 gennaio scorsi. L’esito significa in primo luogo che la consultazione è valida, perché è stato ampiamente raggiunto e superato il quorum stabilito del 60% delle persone registrate. Inoltre, implica che già quest’estate – la data prevista è il 9 luglio – l’Africa avrà un nuovo paese, che sarà il 54° del continente, si chiamerà ufficialmente Repubblica del Sud Sudan (ormai il nome è stato deciso) e avrà Juba come capitale. Il Sudan del presidente Omar Hassan el-Bashir ha infatti accettato il risultato, togliendo dunque gli ultimi ostacoli all’indipendenza del Sud.
“Rispettiamo la scelta del popolo del Sud Sudan ed accettiamo il risultato del referendum”, così ha annunciato il governo di Khartoum in un comunicato trasmesso sulla televisione di Stato sudanese (Telegraph, 7 febbraio). “Il risultato del referendum è ben noto. Il Sud del Sudan ha scelto la secessione. Ma noi siamo impegnati a mantenere i collegamenti tra Nord e Sud, a mantenere le buone relazioni basate sulla collaborazione”, ha detto lo stesso Bashir, sul cui capo pende d’altronde ancora un mandato di cattura internazionale emesso dalla Corte Penale Internazionale (ICC), durante un discorso pronunciato nella sede del suo partito (Avvenire, 8 febbraio).
L’entusiasmo al Sud è molto grande. “Solo chi ha sofferto per tutti questi anni non può essere contento dei risultati. Abbiamo avuto pazienza e ce l’abbiamo fatta e nonostante tutte le sfide che dovremo affrontare, sono più che fiducioso riguardo al nostro futuro”, ha detto Juma Andrew, logista dell’organizzazione non governativa italiana Intersos, all’inviato di Avvenire (8 febbraio).
Tutti – gli stessi sud sudanesi inclusi – concordano infatti che il vero, duro lavoro inizia proprio ora. Le sfide che attendono la nuova nazione sono infatti enormi e numerose. Nel paese, dove manca proprio di tutto – dalle infrastrutture al sistema sanitario ed educativo -, si registra d’altronde un forte afflusso di sud sudanesi residenti al Nord che hanno deciso di fuggire e di ritornare a casa, accentuando l’emergenza umanitaria. “Abbiamo creato immediatamente dei campi profughi che dovrebbero essere transitori”, così ha detto il 23 gennaio alla Radio Vaticana il vescovo di Rumbek, monsignor Cesare Mazzolari. “Sono venuti al Sud per timore di un governo repressivo che, con l’indipendenza del Sud, potrebbe creare condizioni più difficili non solo per la gente del Sud che rimarrà al Nord”, ha spiegato.
L’altra grande sfida per il governo sud sudanese è la questione della spartizione delle ricchezze naturali, in primis il petrolio. Mentre i principali giacimenti petroliferi sudanesi (l’80% circa) sono concentrati nel Sud, Juba dipende dalle infrastrutture del Nord, fra cui il Grande Oleodotto del Nilo costruito dalla Cina, per l’esportazione dell’oro nero. Fra le altre risorse naturali del Sud spiccano inoltre il legno pregiato e le sue cave di marmo e di granito. Juba farà sentire poi anche la sua voce nella delicata questione delle acque del Nilo: proveniente dall’Uganda, il Nilo Bianco attraversa infatti il suo territorio.
Le continue tensioni con gli allevatori nomadi “arabi” nella contestata regione di Abyei dimostrano l’importanza della questione. Nella regione posizionata a cavallo tra Nord e Sud, che gode di uno statuto speciale ed è inoltre molto ricca di petrolio, è saltato infatti proprio a causa delle persistenti divergenze un referendum speciale, che avrebbe dovuto svolgersi in parallelo con la consultazione popolare organizzata nel Sud.
Sul futuro della nuova nazione pesa inoltre l’incubo dei ribelli ugandesi del famigerato Esercito di Resistenza del Signore (LRA), che operano in un vasto territorio che comprende anche il Sud Sudan. A richiamare l’attenzione sul pericolo è stato nei giorni scorsi il vescovo della diocesi di Tombura-Yambio, monsignor Eduardo Hiiboro Kussala, che ha pubblicato una lettera aperta. “La minaccia del propagarsi della violenza potrebbe mettere a dura prova qualsiasi nuovo governo nel Sud Sudan, demolendo le risorse di una giovane nazione che si batte per proteggere i suoi cittadini e per impedire ad altri di essere trascinati nella lotta”, così ha detto il presule parlando con Aiuto alla Chiesa che Soffre (8 febbraio).
Cruciale per un Sud Sudan indipendente sarà dunque l’appoggio della comunità internazionale, non solo da parte delle grandi agenzie umanitarie e ONG ma anche dei singoli governi. Gli USA hanno già confermato il loro sostegno alla nazione che sta per nascere. Congratulandosi con il popolo del Sud Sudan, il presidente Barack Obama si è dichiarato in un comunicato due giorni fa “lieto di annunciare l’intenzione degli Stati Uniti di riconoscere formalmente il Sud Sudan come uno Stato sovrano e indipendente nel luglio 2011”. Per la Casa Bianca, il referendum sud sudanese è “un altro passo in avanti nel lungo cammino dell’Africa verso la giustizia e la democrazia” (Associated Press, 7 febbraio).
Anzi, per il presidente sudanese Bashir ci potrebbe essere persino una sorta di “dividendo della pace”. Se il governo di Khartoum collabora pienamente al processo di transizione e di indipendenza del Sud, l’amministrazione Obama potrebbe ricompensare il Sudan togliendolo dalla “lista nera” dei paesi che sponsorizzano il terrorismo, sulla quale era finito nel 1993. Secondo un comunicato del segretario di Stato Hillary Rodham Clinton, gli USA avrebbero già avviato la procedura (Agence France-Presse, 7 febbraio).
L’esito del referendum suscita anche qualche preoccupazione. Alcuni temono infatti il cosiddetto “effetto domino” o – come diranno altri – “effetto Tunisia”. Khartoum teme infatti che il referendum nel Sud Sudan possa servire da esempio per altre regioni sudanesi in cerca di indipendenza, in primo luogo il Darfour. Infatti, i commenti da parte della principale guerriglia del Darfour – il Movimento per la Giustizia e l’Eguaglianza (JEM) – lasciano poco spazio al dubbio. Se Bashir e il suo Partito Nazionale del Congresso (NCP) non cambiano rotta, “altre regioni cercheranno il diritto all’autodeterminazione”, ha avvertito un portavoce del JEM a Londra (Sudan Tribune, 8 febbraio).
Il referendum nel Sud faceva parte del “Comprehensive Peace Agreement” (CPA o Accordo Comprensivo di Pace), firmato il 9 gennaio 2005 nella capitale keniana Nairobi fra il regime di Khartoum e i ribelli del Movimento/Esercito Popolare per la Liberazione del Sudan (SPLA/M), che ha posto termine ad una lunghissima e brutale guerra civile tra il Nord musulmano e il Sud cristiano ed animista. Il conflitto era scoppiato subito dopo l’indipendenza del Sudan ottenuta dal Regno Unito nel 1956 ed è continuato per quasi mezzo secolo – tranne una pausa dal 1972 al 1983 – fino al 2005, provocando almeno due milioni di vittime e più di quattro milioni di sfollati o profughi.
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1) I dati sono consultabili sul sito Internet: http://southernsudan2011.com/