L’educazione dei figli in Papua Nuova Guinea

di padre Piero Gheddo*

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ROMA, giovedì, 3 febbraio 2011 (ZENIT.org).- La CEI ha scelto l’educazione come “orientamento pastorale” per questo decennio (2010-2020), specialmente l’educazione dei minori. Il modello della famiglia unita che educa i figli trasmettendo la fede con l’amore fra i genitori e verso i loro piccoli è lo schema culturale del cristianesimo. Un missionario in Papua Nuova Guinea mi racconta come si formano i bambini nella famiglia papuana, secondo la loro cultura non cristiana. “In Italia, premette, molti non capiscono l’importanza della missione fra i non cristiani, perchè dicono che le culture sono più o meno eguali e l’una vale l’altra”.  

Il cremonese padre Giorgio Bonazzoli del Pime è in P.N.G. dal 1993, come insegnante di teologia nel seminario maggiore di Rabaul: più di 100 alunni per sei diocesi. Il paese, esteso due volte l’Italia con 6,5 milioni di abitanti, è indipendente dall’Australia dal 1975 e la Costituzione dice che è “una nazione cristiana”. Il 70-75% degli abitanti sono battezzati, 30% cattolici, gli altri protestanti di varie Chiese e sette. I missionari erano presenti già a metà del 1800 (nel 1855 il Pime ebbe il martire beato Giovanni Mazzucconi), ma l’evangelizzazione, praticamente iniziata dopo la II guerra mondiale, è ancora molto superficiale. Padre Giorgio racconta:  

 “La formazione del minore è questa. A 4-5 anni bambini e bambine vanno fuori di casa e vivono nella ‘House Boy’, la casa del ragazzo o in quella delle ragazze. Non sono educati dai genitori, ma si formano vivendo con altri della loro età, per imparare a cavarsela da soli. Qui c’è la famiglia allargata, non solo papà e mamma, ma nonni, zie, zii, cugini, fratelli, sorelle. Tutti si prendono cura del minore, ma in pratica deve decidere da solo. Vengono fuori personalità forti, però individualiste al massimo. Se non riescono ad affermarsi, diventano timidi e paurosi e sono condannati a dipendere dagli altri. E’ una società nella quale fin da piccoli vincono i più forti, gli altri sono perdenti e si rassegnano.

I genitori vogliono bene ai loro figli, ma secondo la mentalità comune ciascuno pensa a se stesso. Se il bambino o il ragazzo dà fastidio, lo puniscono in modo anche violento, lo picchiano, gli danno pugni o calci. Un genitore arrabbiato può danneggiarlo gravemente. Il governo ha fatto una legge che proibisce ai genitori di punire fisicamente il minore, il quale può denunziarli se usano violenze contro di lui. Così, vivendo da solo, il ragazzino fa quel che vuole, nessuno lo corregge. Se resiste diventa una personalità forte, altrimenti rimane un debole che poi è oppresso dalla società. I ragazzi crescono con le loro idee, le loro reazioni, le loro abitudini, ciascuno secondo il suo carattere. Anche le ragazze crescono allo stesso modo. Interessa la propria persona, l’altro non interessa, può farti del male, non è visto come persona sulla quale puoi contare, ma come un potenziale nemico”.

Dico a padre Giorgio che nei testi di etnologi si legge che questi popoli, diciamo “primitivi”, hanno un forte senso comunitario: è vero o no?

Certo hanno il senso comunitario – dice Giorgio – ma in modo diverso dal nostro: sanno che questo è mio padre, mio zio, mia cugina, mia sorella; sanno come comportarsi con quelli che fanno parte del clan, della grande famiglia: si fanno le feste comuni, si danza assieme, sanno come salutare i vari familiari e cose di questo genere. Ma chi non fa parte della grande famiglia non esiste, non interessa, dagli altri debbo difendermi. Anche questo fa parte del vivere insieme, ma non ha niente a che fare col nostro modo di intendere la socialità che si estende a tutti, non solo ai consanguinei. Prevale sempre l’individualismo dei singoli.     

Quando i giovani formati in questo modo arrivano in teologia, questa mentalità di fondo rimane ben forte. Se rimproveri un alunno, ti dice di sì perché teme di essere punito, ma poi fa quel che vuole. Io sono straniero e loro, se parlano, dicono: ‘Questa è la mia cultura’ e chiudono il discorso. In qualunque cosa io li richiami, essi dicono: ‘E’ la mia cultura’. La cultura è diventata la leva, il pretesto per fare ciò che uno vuole. Manca il senso dello stato e del bene comune. La tendenza a far valere i propri ‘diritti’ contro quelli degli altri, diventa non voler cambiare nulla e frena lo sviluppo della nazione.

Quando dico queste cose ai miei seminaristi, loro mi ascoltano ma poi non dicono niente, forse pensano: ‘Lui è straniero e non capisce la nostra cultura’. Questo lo dico per far capire quanto è difficile la formazione di un prete! I nostri seminaristi hanno questa mentalità: a loro interessa la propria grande famiglia, il clan, gli spiriti. In questa mentalità ci sono cose valide, ma tante altre che sono da abolire.  

Con questo tipo di cultura è già difficile formare un buon cristiano. Poi ci sono anche i buoni cristiani, convinti. Ma spesso sono buoni e fervorosi fin che c’è la spinta del prete, i buoni esempi attorno e loro, cioè fin che hanno benzina nel motore. Quando cambia la situazione, quando finisce la spinta esterna, la macchina si ferma. Sono brava gente, ma non hanno assimilato i valori cristiani, nel profondo rimangono più o meno quelli di prima. Nelle missioni puoi avere dei cristiani che vengono a Messa, si confessano, pregano, sono devoti e fedeli alla Chiesa e questo per mesi o anche per anni. Poi magari non vengono più. Sono ridiventati pagani? No, rimangono cristiani, ma non vengono più per motivazioni esterne: ad esempio, il nuovo prete è meno simpatico dell’altro. 

Fra i cristiani abbiamo anche anime belle e sante, ma sono troppo poche. A me pare che non abbiano assimilato la vita cristiana che parte dall’amore a Cristo e al prossimo. In pochi decenni non è possibile passare da una cultura e mentalità pagana ad una cristiana autentica. Lo Spirito Santo può fare anche questo, ma sono casi singoli, esemplari, non comuni. Quando parlo ai giovani, se dico che voglio parlare della loro cultura, allora tutti stanno attenti, ti seguono, non pensano ad altro. Interessa solo quel che li riguarda. Se parlo di altri temi, allora non ti seguono più. E’ una mentalità diversa dalla nostra. Usano il computer, il telefonino, vedono la televisione, ma la mentalità di fondo non cambia. Questa è una sfida per noi educatori e per l’autorità ecclesiastica, continua padre Bonazzoli. Hanno la capacità di diventare preti, con sincerità e fervore, ma il sacerdote è visto come il capo, colui che comanda e dispone. Quindi deve essere furbo, fare i suoi interessi. Non è il motivo principale per cui si fanno preti, ma il secondo sì: tu diventi capo, quindi avrai molte cose a disposizione e questo servirà ai tuoi parenti, al tuo clan, al tuo villaggio. E’ una mentalità considerata naturale, giusta. Quando diventano preti o professori entrano nella parte di chi comanda e si fa servire. Prima loro hanno servito chi era a capo, adesso che sei tu il capo devi farti servire. Non lo fanno per egoismo o superbia, ma perché debbono entrare nella loro parte. In questo grado di maturazione cristiana la visione del prete non può essere diversa, perché tutti si aspettano questo da te. Lo Spirito Santo lavora, ma anche Lui ci mette il suo tempo”.

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*Padre Piero Gheddo (www.gheddopiero.it), già direttore di Mondo e Missione e di Italia Missionaria, è stato tra i fondatori della Emi (1955), di Mani Tese (1973) e Asia News (1986). Da Missionario ha viaggiato nelle missioni di ogni continente scrivendo oltre 80 libri. Ha diretto a Roma l’Ufficio storico del Pime e postulatore di cause di canonizzazione. Oggi risiede a Milano.

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ZENIT Staff

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