Bhutan: nulla di fatto per la comunità cristiana

Prematura la notizia sul riconoscimento dei cristiani

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di Paul De Maeyer
 

ROMA, giovedì, 3 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Il Bhutan, il piccolo Paese dell’Himalaya schiacciato fra i due giganti Cina ed India, viene oggi considerato un vero e proprio paradiso dell’escursionismo o “trekking”.

Ma il Paese del “Drago tonante” (o “Druk Yul”, come il Bhutan viene chiamato nella lingua nazionale, lo Dzongkha), è anche l’unica nazione al mondo dove il buddhismo Mahayana nella sua forma tantrica Vajrayana (o del “veicolo adamantino”), simile al buddhismo tibetano o “lamaismo”,  è religione di Stato.

A garantire al buddhismo lo status di religione nazionale è la giovane Costituzione* del Bhutan. “Il buddhismo è l’eredità spirituale del Bhutan, che promuove i principi e i valori di pace, non-violenza, compassione e tolleranza”, così stipola l’art. 3, par. 1 della “Carta Magna” del Bhutan, promulgata nel 2008, quando dopo più di un secolo di monarchia assoluta il Paese – grande più o meno quanto la Svizzera – si è trasformato in una monarchia costituzionale.

A volere la svolta era stato il “Druk Gyalpo” o “Re Drago” Jigme Singye Wangchuck, che nel 2006 abdicò anticipatamente a favore di suo figlio, l’attuale regnante Jigme Khesar Namgyel Wangchuck. A spingere l’allora re a scegliere la strada della democratizzazione e della lenta modernizzazione del Bhutan erano gli sviluppi tumultuosi nel vicino Nepal, conclusasi con la fine della monarchia nel 2008.

La giovane Costituzione del Bhutan garantisce d’altronde anche la libertà di religione. “Un cittadino del Bhutan avrà il diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione”, così stabilisce l’art. 7, il quale tratta i “Diritti fondamentali”, nel suo par. 4.

Ma nonostante questa solenne dichiarazione, il Bhutan non è tanto paradisiaco per la piccola comunità cristiana. Anche se mancano i dati ufficiali, si calcola che i cristiani costituiscano oggi l’1% circa della popolazione del Paese, il quale conta circa 700.000 abitanti. La maggioranza dei cristiani è formata da protestanti, mentre i cattolici sono solo alcune centinaia.

Come ribadisce l’agenzia AsiaNews (31 gennaio), nel paese rimane infatti vietato il proselitismo, la pubblicazione di Bibbie, la costruzione di scuole cristiane e anche l’ingresso a sacerdoti e religiosi. L’unico sacerdote cattolico autorizzato a visitare con una certa frequenza il Bhutan è d’altronde un gesuita imparentato con la famiglia reale. Si tratta di padre Kinley Tshering, il quale visita ogni anno a Natale la capitale Thimpu e celebra la messa in casa, ufficialmente per il suo compleanno, che cade il 24 dicembre.

Il grande problema dei cristiani delle diverse denominazioni è che a differenza del buddhismo e dell’induismo (quasi un quarto, cioè il 22% circa, della popolazione è induista, soprattutto nel Sud del Bhutan) il cristianesimo non gode infatti di alcun statuto o riconoscimento ufficiale. Mentre gli induisti sono rappresentati dalle Hindu Dharma Samudaya (ovvero la Comunità Religione Induista registrata più di un anno fa presso la commissione per gli affari religiosi del Bhutan, la Chhoedey Lhentshog), nulla di simile esiste per i cristiani.

La speranza era dunque grande quando nel novembre scorso il segretario della Chhoedey Lhentshog, Dorji Tshering, aveva raccontato via telefono all’agenzia Compass Direct News (4 novembre 2010) che nella sua prossima riunione, programmata per fine dicembre, la commissione avrebbe probabilmente discusso il tema e permesso ai cristiani di registrarsi come organizzazione o religione riconosciuta, dando alla piccola comunità del Bhutan il diritto di praticare pubblicamente il culto e di costruire luoghi di culto. Il progetto di legalizzare il cristianesimo sembrava godere del consenso del palazzo reale.

Ma non sarà così, almeno per ora. “Il passato ci insegna che questo tipo di dichiarazioni sono solo annunci di propaganda del governo per far credere al mondo esterno che il Bhutan accetta tutte le religioni”, ha dichiarato ad AsiaNews (31 gennaio) l’ex consigliere reale in esilio in Nepal, Tek Nath Rizal, fondatore del Bhutanese Freedom Movement.

Infatti, a smorzare le speranze è stato il ministero degli Interni e della Cultura, Lyonpo Minjur Dorji, il quale ha detto sempre a Compass Direct News che non c’è bisogno di cambiare l’attuale situazione. “Chiedi ai cristiani se gli è stato impedito di riunirsi per celebrare il culto. Due dei nostri parlamentari sono cristiani. I cristiani non devono temere il governo”, ha dichiarato. Da parte sua, il segretario della commissione, Dorji Tshering, ha precisato la settimana scorsa che “certe questioni” richiedono un’ulteriore analisi prima di poter prendere una decisione. “L’intento della Legge sulle Organizzazioni Religiose del Bhutan è di proteggere e preservare l’eredità spirituale del Bhutan”, così ha ricordato (CDN, 1 febbraio).

Queste sono parole molto significative. Agli occhi delle autorità del Bhutan, una crescita del cristianesimo costituirebbe una minaccia per l’identità e la coesione della nazione. Il ministro Lyonpo Minjur Dorji non ha lasciato alcun dubbio e ha detto che “se perdiamo la nostra cultura, perdiamo tutto”. Il Bhutan infatti non vuole fare la stessa fine delle altre due piccole nazioni buddhiste dell’Himalaya, Tibet e Sikkim, inglobate rispettivamente dalla Cina nel 1959 e dall’India dopo un referendum nel 1975.

Ciò che il Bhutan teme di più è il proselitismo. Seguendo l’esempio di vari Stati indiani, come il Gujarat e il Rajasthan, a sua volta il Bhutan ha approvato il 29 novembre scorso – all’unanimità d’altronde – una cosiddetta “legge anti-conversione”, la quale introduce una nuova clausola nel Codice penale (art. 463) che punisce il proselitismo religioso e in particolare ogni “tentativo di conversione con la forza o qualsiasi altro mezzo” con pene fino a tre anni di prigione (Églises d’Asie, 542, 17 dicembre 2010).

La legge in questione non è altro che lo sviluppo logico del già menzionato art. 7, par. 4, della Costituzione del Bhutan, che subito dopo aver garantito la libertà di coscienza e religione avverte che “nessuna persona sarà obbligata ad appartenere ad un’altra religione per mezzo di costrizione o incoraggiamento”. Si tratta purtroppo di formulazioni molto vaghe e tutto dipende dunque da cosa si intende per “costrizione” o “incoraggiamento”, termini che permettono infatti un’ampia gamma di interpretazioni e lasciano la porta aperta all’arbitrarietà.

Nel frattempo, l’ondata anti-conversione e anti-proselitismo ha fatto già la sua prima “vittima” nel Bhutan. Si tratta di un protestante quarantenne di origini nepalesi, Prem Singh Gurung, condannato il 6 ottobre scorso da un tribunale locale di Gelephu a tre anni di carcere per “tentata promozione di disordini civili”. Come ha riferito Compass Direct News (18 ottobre 2010), che ha ripreso la notizia dal quotidiano locale Kuensel, l’uomo aveva proiettato in due remoti villaggi montani nel sud del Paese, raggiungibili solo a piedi, Gonggaon e Simkharkha, una serie di film nepalesi, facendo vedere tra un film e l’altro anche pellicole su Gesù.

La vicenda dimostra nuovamente che l’apertura del Bhutan al cristianesimo non c’è stata ancora. Comunque, come ha riportato l’agenzia Fides (27 gennaio), alcune congregazioni missionarie si sono già dichiarate pronte a raccogliere la sfida e a portare il Vangelo nel Paese. “Siamo disponibili ad aprire comunità maschili e femminili in Bhutan. Non conosciamo bene il territorio, ma se le autorità lo permetteranno e se si verificheranno le condizioni necessarie, potremmo volentieri avviare le nostre attività”, così ha dichiarato padre Arul Raj, missionario degli Oblati di Maria Immacolata (OMI), che vive a Chennai, nello Stato indiano di Tamil Nadu, ed è il fondatore di due ordini religiosi, uno femminile e uno maschile.

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ZENIT Staff

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