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“Sul Presente e il Futuro dell’Italia”
1. Una storia sempre inconclusa e senza termine?
I 150 anni dell’Italia unita, quando volgendosi all’indietro e pur tra tante difficoltà si vogliano raccogliere e comprendere con un’occhiata sola dal loro inizio a questo nostro presente, sembrano presentare più persistenze che fratture o discontinuità, più nodi ancora da sciogliere che questioni risolte una volta per tutte, più tendenze sotterraneamente orientate a una profittevole incompiutezza che decise propensioni a una unità la quale, incontrovertibile e sostanziale, non sia sempre costretta a ridiscutere il proprio passato per cercare di offrire non solo e non tanto una spiegazione plausibile al proprio oggi, quanto e soprattutto una direzione non troppo aleatoria o inquietante verso il proprio domani. Quel passato storico (né troppo distante nei secoli, né così vicino da essere ancora avvolto nei fumi delle inevitabili partigianerie politiche o faziosità ideologiche), che per la maggior parte dei Paesi è suggello di identità oltre che fattore di rassicurazione riguardo al sempre più incerto futuro, in Italia pare condannato a essere un tempo inconcluso o mai da considerare definitivamente chiuso: solo così, infatti, può protrarsi senza ulteriori traumi l’armistizio tra i ‘vincitori’ e i numerosi, differenti ‘vinti’ della vicenda unitaria nelle sue principali scansioni. O – per dire con maggiore precisione e attenzione all’attualità – può perpetuarsi la posizione di incontrastabile ‘assolutezza’ della politica, proprio col preservare, quali che ne siano gli alterni protagonisti, quella vita politico-statale la cui base più profonda e delicata di legittimazione sta appunto nella sua capacità di ‘tenere insieme’ come totalità le tanti ‘parti’ della nostra società.
È possibile che ciò che sto cercando di sintetizzare sia il frutto di un’impressione semplice e superficiale. Anche in questo caso, tuttavia, resterebbe la domanda sul perché tale impressione inevitabilmente affiori e sotto mille spoglie si diffonda, ogniqualvolta l’urto del presente si fa più forte e sembra in grado di scompaginare radicalmente quella che – al fine di tenerla distinta dal più circoscritto (e freddo) ‘sistema’ dei partiti e delle istituzioni statali – ho chiamato la vita politico-statale. Anche la ricorrenza dei grandi anniversari risente della fase del ciclo in cui una tale vita si trova o ritiene di trovarsi a essere. A tale proposito – lo aggiungo solo per curiosità scientifica – sarebbe assai interessante, oltre che istruttivo, se qualche studio confrontasse il 150° che ci apprestiamo a festeggiare con il centenario di cui non pochi di noi conservano il ricordo. E, mediante una rigorosa comparazione, ci mostrasse consonanze e dissonanze, ripetizioni e volute o impreviste difformità, non solo sul piano delle celebrazioni, delle loro principali modalità pubbliche, dei loro tentativi culturali e politici di penetrare nelle più consolidate rappresentazioni sociali, ma anche e in particolare nel campo delle interpretazioni e valutazioni storiografiche di quella complessa vicenda di eterna incompiutezza, di fratture ricomposte in modo mai definitivo, di nodi ancora da sciogliere piuttosto che questioni risolte una volta per sempre, a cui mi richiamavo all’inizio.
Rispetto a cinquant’anni fa, è più fragile e decomposta la Nazione italiana (e, con essa e magari indipendentemente da essa, la società), o si è invece progressivamente indebolito il sistema politico-statale? O, piuttosto, quel sistema partitico, che si è equiparato al sistema politico-statale e frequentemente si è assiso sopra di esso, incontra sempre maggiori difficoltà nell’adempiere la funzione di esclusivo tessuto connettivo, di insostituibile sintesi dell’intera società? Non avrò la pretesa, con le considerazioni che seguono, di abbozzare una pur parziale risposta a tali quesiti. Stimo indispensabile, tuttavia, almeno il formularli. Se infatti teniamo a mente questi interrogativi, ci rendiamo agevolmente conto del fatto che il più pesante e meno penetrabile cono d’ombra da cui sono avvolti, insieme, presente e futuro dell’Italia è costituito da ciò che semplicisticamente siamo soliti chiamare ‘crisi della politica’, o che, semplificando eccessivamente, definiamo crisi partitica (sia essa quella della cosiddetta Prima Repubblica, o la crisi che, in atto nella Seconda, all’altra direttamente consegue, ne amplifica alcune cause e aggiunge fattori nuovi).
A centocinquant’anni dall’Unità d’Italia, lo ‘stabile squilibrio’ tra sistema politico-statale e società – uno squilibrio stabilizzatosi proprio in ragione delle tante fratture che lo rendevano necessario e non sostituibile – rischia ora di spezzarsi. E può spezzarsi per cause del tutto interne al sistema politico-statale, anche (o proprio) in forza della sostanziale equiparazione di quest’ultimo al sistema dei partiti. È questo il dato che, realmente nuovo, occorre cercare e osservare con particolare attenzione, in mezzo ai nodi storici ancora non sciolti e tra le antiche fratture riapertesi o allargatesi con intensità e forme differenti. Tenterò di considerare tale dato nuovo, soffermandomi su tre temi. Che, secondo un ordine non casuale, sono: il grado di innovabilità del sistema politico-statale, il federalismo, il ruolo e la formazione della classe dirigente. La pur breve illustrazione di ognuno dei tre temi vorrebbe riuscire a mostrare, anche se solo in filigrana, la crescente forza e attualità – almeno, credo, per gran parte dei partecipanti a questo Forum – di una questione su cui tornerò alla fine del mio intervento, e che per ora anticipo formulandola così: si è aperto il tempo, per i cattolici, di tornare a essere con decisione ‘guelfi’?
2. Riformare ciò che appare sempre meno riformabile
Il primo tema che mi appresto a considerare (e che ho posto sotto il titolo per nulla paradossale «riformare ciò che appare sempre meno riformabile») necessita di un’osservazione preliminare. Se non falsificata, certamente è stata più volte vanificata – in quel campo dai confini sempre scarsamente rispettati, che è la politica – l’enunciazione di Albert O. Hirschman, secondo cui in ogni condizione c’è sempre una riforma possibile. Più resistente è invece quest’altra constatazione dello studioso tedesco esule negli Stati Uniti, e cioè che «colui che ha di mira il mutamento sociale su grande scala dev’esser posseduto, per dirla con Kierkegaard, dalla “passione per ciò ch’è possibile”, piuttosto che affidarsi a ciò che l’analisi fattoriale ha certificato come probabile».
Anno dopo anno, da almeno tre decenni a oggi, nel nostro Paese le riforme costituzionali sono rapidamente sprofondate nelle sabbie mobili di un paradosso: più risultano necessarie, più diventano a tal punto impossibili da apparire ormai inutili. Ed in effetti, ora, sembrerebbe di essere già pienamente nella condizione in cui – fatta salva un’ennesima riforma elettorale, che propriamente riforma costituzionale non è – nessuna parte o frazione partitica abbia un qualche interesse e veda per sé un vantaggio, né di medio periodo né (tantomeno) di brevissimo raggio, nell’impugnare il vessillo di grandi o più minuscole riforme istituzionali.
Si potrebbe ipotizzare che, nelle fasi in cui la situazione politica viene avvertita come straordinaria e altamente rischiosa per i suoi stessi attori principali, le riforme appaiano inevitabilmente ridondanti o superflue rispetto all’impiego di altri strumenti di competizione e lotta partitica, mentre risulta più agevole immaginare la loro possibile (e utile) realizzazione nei momenti in cui l’eccezionalità della situazione contingente cederà il passo alla ‘ordinarietà’ del tempo della politica. In realtà, nessuna riforma istituzionale può essere disgiunta dal gioco dell
e parti politiche e dai disegni o dalle ambizioni di questo o quel leader di vertice. Di più: quand’anche una riforma istituzionale abbia alla sua base – in vista del bene del Paese, com’è pur auspicabile – la maggior condivisione spontanea o l’obbligata convergenza delle molteplici e differenti parti politiche, ciascuna di queste ultime è del tutto avvertita del fatto che, una volta attuata, ogni riforma inevitabilmente toccherà e muterà non solo i rapporti tra le forze partitiche, ma anche il rispettivo peso specifico.
Dopo i progetti di ‘grande riforma’ degli anni Ottanta, la questione delle riforme istituzionali è interamente rifluita dentro il riformattato sistema partitico dagli anni Novanta sino a oggi, comprensibilmente passando in second’ordine rispetto ai più impellenti sforzi di solidificazione dei due poli e al necessitato schieramento, al loro interno, anche dei nuovi partiti o gruppi partitici. Ma sarebbe ingenuo e rischioso pensare che una tale questione possa avere ancora a lungo il suo storico andamento carsico, in cui la lunghezza del corso sotterraneo compensa le intermittenti erosioni di superficie. Infatti, quanto più si appesantisse e si cronicizzasse l’odierna situazione politica, tanto più diventerebbe probabile che nelle rappresentazioni sociali dei cittadini le riforme, anziché il prodotto (magari scarsamente efficace) di una estesa o ridotta parte di classe politica, vengano considerate e più o meno ingannevolmente immaginate come la levatrice di un nuovo ceto politico. Analogamente ad alcuni ambiti di attività economico-industriale, anche in politica – come già intuivano Montesquieu e Steuart – il margine di tolleranza per le prestazioni scadenti può essere assai ristretto. Diversamente dall’economia, però, quasi mai resiste vantaggioso e favorevole per troppo tempo.
In effetti, «riformare ciò che appare sempre meno riformabile», e così cercare di impedire che si oltrepassi senza limiti la soglia di tolleranza per le prestazioni del sistema politico-statale ritenute più scadenti, vede intrecciate e tra loro strettamente interdipendenti tre linee fondamentali di riforma. La prima è quella delle riforme propriamente costituzionali; la seconda, più ampia, è scandita dalle riforme istituzionali; la terza è la riforma (o – per essere più precisi, guardando alle condizioni del presente senza peraltro considerarle perpetue – la pur difficile e magari poco probabile ‘autoriforma’) dei partiti, quale condizione necessaria per l’incremento di rappresentatività e di qualità complessiva del ceto politico.
Lungo la prima linea di riforme ritroviamo pressoché tutti i nodi o le incoerenze presenti nell’attuale fase storica dello Stato, quale svolgimento e coronamento del ‘tipo’ della longeva organizzazione del potere nata e fatta crescere dalla modernità europea (ossia, appunto, l’assetto istituzionale-organizzativo dello ‘Stato moderno’). Sono i nodi o le incoerenze che – sempre in una prospettiva rigorosamente storica – i regimi democratici occidentali si sono trovati in grandissima parte a ereditare, dopo che la democrazia, finita la fase di contrapposizione alle incarnazioni assolutiste (e alle rappresentanze politiche o di interessi) dello Stato d’Ancien Régime, ha dapprima ‘usato’ le antiche istituzioni statali e poi si è in esse progressivamente immedesimata. Richiamo due soli esempi di siffatti nodi. Il primo è offerto dalla concreta meccanica di funzionamento dei tre ‘classici’ poteri che – fondati sulla ‘impersonalità’ del potere, oltre che distinti, separabili e ciascuno in grado di ‘arrestare’ l’altrui straripamento – dovrebbe garantire per intero il libero e ordinato svolgimento della vita politica. Il secondo esempio (che, più intricato e forse anche più rilevante dell’altro, avrebbe bisogno di una lunga argomentazione) consiste nella ricerca di una perfetta e ormai impossibile coincidenza fra ‘legittimazione a rappresentare’ e ‘legittimazione a governare’: la quale coincidenza, sempre più illusoria, è forse il principale fattore di quei vistosi fenomeni odierni per cui, in molte democrazie, la vita politica manifesta tendenze plebiscitarie e populiste, in stridente e crescente contrasto con un assetto istituzionale che si vorrebbe ancora governato interamente secondo la logica del primato ‘parlamentare’.
Ma, sovrapposte od ormai del tutto mescolate a quelle attinenti al tipo generale di ‘moderna’ organizzazione statale del potere, ritroviamo – nel campo ampio delle riforme costituzionali – anche le irrisolte o mai sino in fondo risolte questioni specifiche della nostra vicenda unitaria: sotto lo svolgimento formale-costituzionale dello Stato – dal nuovo Stato unitario e accentratore, allo Stato di diritto e liberale poi scalzato dall’ordinamento fascista e dalla ‘diarchia’ tra Re e Capo del governo (che è simultaneamente capo di partito e ‘duce’ del popolo), sino allo Stato repubblicano e alla sua immedesimazione in un particolare sistema pluralistico di partiti – non è infatti difficile individuare una dopo l’altra tutte quelle persistenze profonde o di superficie della nostra storia, che a loro volta ci riconducono ai grandi problemi dei rapporti fra società e Stato, dell’identità del popolo italiano, delle peculiari qualità e del grado di intensità del nostro sentimento di appartenenza alla Nazione. E sono questi più grandi, generali problemi a riempire – ben più di quanto non succeda lungo la linea di riforme costituzionali – le altre due linee da seguire per riformare ciò che lo scorrere del tempo tende a rendere sempre meno riformabile in modo tranquillo e ordinato: vale a dire, come le sintetizzavo poco fa, la linea delle riforme istituzionali e quella della riforma dei partiti.
Anche per questo motivo il federalismo, che appartiene a pieno titolo alle riforme istituzionali e non solo a quelle strettamente costituzionali, sembra portare con sé e inestricabilmente attorcigliare pressoché tutte le antiche e nuove questioni della storia italiana, a partire dalla frattura tra Nord e Sud.
Passo dunque a trattare il secondo dei tre temi, che ho anticipato di volere considerare a proposito dei più gravi rischi a mio avviso incombenti su quello ‘stabile squilibrio’ progressivamente e faticosamente costruito tra il sistema politico-statale e la società italiana. Quanto al terzo tema – cioè il ruolo e la formazione della classe dirigente – mi limiterò ad alcune brevissime osservazioni, non solo per rispetto dei tempi fissati al mio intervento, ma anche perché mi sembra che la rivista «Vita e Pensiero», nel suo quarto numero di quest’anno, ne abbia dato una sufficiente impostazione, già con l’editoriale intitolato I cattolici e la politica: da dove ripartire.
3. Federalismo, classe dirigente e formazione del ceto politico
Si potrebbe temere, per più di un motivo, che anche la riforma istituzionale del federalismo, non diversamente dai passati progetti di riforme costituzionali, sia purtroppo affetta dal micidiale ‘paradosso dell’impossibilità’. Non pochi studiosi e commentatori politici hanno sottolineato come risulti del tutto inutile (e spesso controproducente) varare leggi, quando manca l’essenziale per dare a queste concreto ed efficace compimento. E in qualche osservatore disincantato cresce la sensazione che per il federalismo stia ormai scadendo (o già sia scaduto) il limite massimo di tempo concesso dai duri fatti della storia e della politica. Dentro il groviglio di antiche e nuove questioni da cui il federalismo è avvolto, d’altro canto, la secolare lacerazione tra Nord e Sud non solo è venuta rafforzando la sua collocazione centrale, ma sempre più spesso tende anche a farsi coincidente con l’intero tema. Anziché strumento possibile (pur se, di necessità, imperfetto) di ricomposizione o riaggiustamento di una tale lacerazione, il federalismo ne diventa l’espressione estrema, il suggello
definitivo. In tal modo, però, quanto più le (comprensibilmente) differenti concezioni politiche intorno al federalismo tendono a ideologizzarsi, tanto più si diffonde l’erronea convinzione che il federalismo sia tutt’uno con la questione Nord-Sud. E tanto più tende a radicalizzarsi, simultaneamente, la persuasione dell’illusorietà di voler riformare ciò che non può o non intende essere utilmente e finalmente riformato.
Della percezione – collettivamente sempre più ampia – che il Paese sia malato di una sostanziale irriformabilità, studiosi e opinionisti anticipano per ora le conseguenze possibili o probabili. Resta invece sullo sfondo l’alternativa, secca e temibile, tra due esiti: o la capacità dell’intero sistema politico di non scivolare ulteriormente lungo il piano inclinato di una crescente stagnazione, o la rottura traumatica di alcuni (o molti) degli elementi costitutivamente strutturali del sistema politico-statale dell’età repubblicana. Le spie di allarme, che a tal proposito si stanno accendendo, non vanno tuttavia trascurate o sottovalutate. All’immagine – evocata qualche tempo fa – di una «secessione dolce», la cui natura più propriamente psicologica attiene alle rappresentazioni sociali, si vanno affiancando quelle di una «secessione silenziosa», praticabile o già praticata nella sfera dei comportamenti o degli intendimenti economico-industriali, e – come ha argomentato nelle scorse settimane Angelo Panebianco – di un «secessionismo culturale», politicamente forse più rischioso al Sud che non al Nord.
Eppure il federalismo ha dalla sua, come elementi principali di sostegno, almeno due fattori storici (o due processi di lungo periodo), di cui l’uno attraversa l’intera storia unitaria sino a oggi e l’altro, già in atto, determinerà o comunque influenzerà il domani della nostra comunità nazionale. Se bene inteso, il federalismo – appunto nei suoi termini più ampiamente istituzionali – non è soltanto un modo di riorganizzare e riequilibrare i poteri ‘costituzionali’ ai vari livelli, o di spostare competenze e funzioni dello Stato pur rilevantissime quali quelle di natura fiscale, ma è anche e soprattutto la ‘costruzione’ di corrispondenze funzionali (o le più funzionali possibile) tra centri politici e territorio, tra i gruppi in cui scalarmente si struttura la classe politica e le istituzioni di governo e di rappresentanza, tra le politiche pubbliche nei differenti snodi della loro decisione e attuazione e le aspettative dei cittadini, tra – infine, e per adoperare ancora una volta formule ipersintetiche, forse più allusive che esplicative – politica, economia e società. In questo primo senso, il federalismo è (potrebbe essere) l’indispensabile ‘ammodernamento’ dello Stato e delle sue più tradizionali istituzioni, dopo la fase lunga – dai primi del Novecento in poi – dello Stato-provvidenza (o del welfare statalmente assicurato, che ha anche alimentato, per finalità di consenso elettorale, vaste e difficilmente estirpabili aree di rendite parassitarie), e dopo quella – di poco più breve – della incontrastata pervasività della politica e dei partiti dentro la vita della società. Se bene inteso e intelligentemente attuato, il federalismo – ecco la seconda tendenza, destinata a consolidarsi nel futuro – è (potrebbe essere) quell’assetto non solo politico-istituzionale, ma anche economico-sociale, maggiormente in grado di identificare e rafforzare il contributo dell’Italia all’ancora incerta definizione del ruolo dell’Unione Europea dentro il sistema globale. E maggiormente in grado, al tempo stesso, di contrastare il rischio di essere trasformati in un Paese sostanzialmente insignificante (o eccezionalmente significativo – lo aggiungo senza un briciolo di celia – solo in quanto contenga lo Stato del Vaticano e abbracci la Santa Sede), per effetto di quegli spostamenti degli assi geo-politici e geo-economici che stanno ridisegnando il sistema globale, pur secondo i ritmi dei cambiamenti autenticamente epocali le cui accelerazioni più forti o violente si manifestano solo all’improvviso e pressoché inaspettatamente.
Un federalismo bene inteso e intelligentemente applicato – è questo un punto essenziale e irrinunciabile – non può che essere un «federalismo solidale», basato integralmente sul principio di sussidiarietà e via via costruito col ricorso a un tale principio, come sua applicazione del tutto conseguente e coerente, oltre che innovativa perché adeguata alle urgenze del presente e previdente rispetto al domani. Un federalismo solidale, quando nel suo orizzonte mostrasse con chiarezza l’inscindibile nesso tra il necessario ammodernamento delle istituzioni e l’altrettanto necessaria (e realistica) prospettiva di ciò che sarà il futuro welfare per la cittadinanza, richiamerebbe sia il Nord sia il Sud (concretamente: i loro abitanti, i loro ceti più rappresentativi, le loro classi dirigenti) a far crescere e praticare la troppo spesso evocata e troppo raramente praticata virtù della ‘responsabilità’: nei confronti dell’intero Paese, a partire dalla responsabilità rispetto a se stessi. E di necessità comporterebbe, questo federalismo solidale, il radicamento di un ceto politico ‘territoriale’, che, saldamente raccordato alle rappresentanze sociali, con esse lavori fianco a fianco, operando insieme per finalità comuni e per obiettivi condivisi.
Ceto politico e rappresentanze sociali: da qui, con ogni probabilità, si deve incominciare a cercare le più funzionali corrispondenze tra la legittimazione a governare (e il concreto esercizio dell’attività di ‘governo’) e la legittimazione a rappresentare (e il suo grado effettivo di rappresentatività, vale a dire quanto una rappresentanza viene ‘sentita’ davvero come tale da coloro che sono rappresentati). Nella formazione di chi sarà chiamato a costituire la classe dirigente di domani, conoscenza e pratica del rapporto tra politica e rappresentanze sociali si riveleranno almeno altrettanto importanti di quanto lo saranno le competenze tecniche nei rispettivi ambiti di attività o l’abilità nel rispondere con successo alle sfide dell’internazionalizzazione. Una reale capacità e un’effettiva, continua manifestazione di leadership risulteranno decisive per entrare a comporre la classe dirigente. E – se posso concludere con un’immagine queste osservazioni sul ruolo e sulla formazione della classe dirigente, che avevo anticipato sarebbero state assai brevi – il ‘movimento’, e non già la conservazione statica della propria collocazione, dovrà caratterizzare vita e funzioni della classe dirigente. ‘Movimento’ (o ‘circolazione’, se si preferisce) tra politica e rappresentanze sociali. Ma anche attitudine al ‘movimento’, poi e soprattutto, proprio rispetto a quei più ampi campi in cui verrà richiesta e sarà chiamata a esercitarsi la leadership di una classe dirigente. Il domani che ci sta venendo incontro vedrà intensificarsi e moltiplicarsi, con ogni probabilità, le richieste di essere e sentirsi partecipi di forme di idem sentire, di essere e sentirsi appartenenti ad associazioni pubbliche in grado di agire nella vita politica il più direttamente possibile, o, almeno, senza dover essere sottoposte alla ‘mediazione’ in via esclusiva dei partiti.
La leadership di quote larghe della classe dirigente dovrà allora essere pronta, con la propria capacità di movimento, a svolgere un’azione al tempo stesso aggregativa, rappresentativa e stabilmente orientativa delle decisioni collettive, oltre che delle politiche pubbliche. E una tale azione sarà tanto più indispensabile, quanto più si consoliderà la tendenza già in atto in pressoché tutte le democrazie, sotto la spinta della quale la politica – anche nei momenti più puntuali di regolazione della competizione partitica attraverso la verifica del consenso elettorale – più che dai ‘valori’, quali cose desiderate o attese dall’individuo o da gruppi p
er il proprio materiale bene essere, viene scossa da quegli autentici valori che danno senso alla vita di ogni singola persona e dell’intera collettività. Integrando senza eccessive forzature il titolo di un saggio assai letto di un autorevole studioso, si potrebbe dire che, se i voti continueranno a contare, saranno soprattutto i ‘valori’ – i valori in quanto, anche, risorsa politica – a decidere della politica dell’incombente domani.
4. Progetto culturale e opere
Sono così giunto alle osservazioni conclusive. Che saranno anch’esse rapide, pur dovendo io assolvere l’impegno, preso all’inizio di questo intervento, di esplicitare perché sembri essersi aperto il tempo, per il cattolicesimo italiano, di manifestarsi con decisione ‘guelfo’, se non già di originare da subito un nuovo, energico guelfismo.
Nella relazione che ho recentemente tenuto alla 46° Settimana Sociale dei Cattolici Italiani di Reggio Calabria, mi è sembrato opportuno sottolineare come la straordinaria storia e l’altrettanto straordinaria capacità di pensiero e azione del ‘cattolicesimo politico’ italiano abbiano conosciuto i loro momenti più alti, quando – dentro lo svolgersi delle vicende, non di rado drammatiche, dei centocinquant’anni del Paese – il vigore e il rigore dell’aggettivo ‘politico’ hanno saputo attingere il loro più vitale alimento dai valori fondamentali e dai caratteri essenziali del cattolicesimo. Riprendo e ripeto qui le considerazioni svolte in quella circostanza. Abbiamo sempre più bisogno di una visione politica dalle radici e dalle qualità genuinamente e coerentemente ‘cattoliche’. Ne abbiamo bisogno perché, quando difettassimo di una simile visione, ogni pur rinnovata forma della nostra presenza pubblica o politico-partitica facilmente si ridurrebbe a quella di una mera ‘parte’ tra la pluralità delle parti, destinata più a essere contata che a ‘contare’, più ad attendere di essere variamente riconosciuta come rilevante che a ‘rilevare’ non solo in modo sempre diretto, ma anche – nelle circostanze necessarie – in misura decisiva. E abbiamo bisogno di una simile visione – aggiungo ora – soprattutto per stare attivamente ‘dentro’ la vita presente del Paese, portando come nostro contributo peculiare e impareggiabile un disegno preciso, oltre che il più possibile condivisibile e aggregante, per il futuro.
Il futuro dell’Italia, temo, sarà ancora a lungo segnato dalle persistenze della sua storia specifica e da alcuni dei nodi che la vicenda unitaria non è riuscita a sciogliere definitivamente e che in qualche occasione ha ulteriormente arruffato. Ma il futuro verrà soprattutto scandito dai grandi cambiamenti che stanno percorrendo il mondo intero e l’Occidente in modo del tutto particolare. All’avanzare della tecnica e all’ampliarsi smisurato dei suoi campi di applicazione, occorre chiedersi quale sarà la propensione del nostro Paese all’innovazione tecnologica. Dentro le nuove onde lunghe dell’evoluzione storica del capitalismo, c’è da domandarsi quali rapporti legheranno i regimi politici (e il loro sistema internazionale) alle dinamiche e al potere di mercati sempre più globali. Di fronte a rappresentazioni sociali plasmate senza sosta dai mezzi antichi e recentissimi di comunicazione di massa, è necessario interrogarsi su quali siano i valori culturali e le pratiche educative maggiormente in grado di orientare positivamente pensieri, convinzioni, azioni.
Tornare a essere con decisione ‘guelfi’ comporta affermare l’idea e la realtà di ‘italianità’ quale dato storico (insieme, culturale e popolare), di cui gli essenziali e più duraturi elementi sono religiosi, cattolici. E soprattutto richiede – diversamente, in questo caso, dal guelfismo ottocentesco – la consapevolezza che la ‘perennità’ dell’Italia cattolica e la sua ‘esemplarità’ nei confronti di altre nazioni, assai più che da una disposizione naturale, dipendono dall’energia e dal successo dell’azione dei cattolici di oggi.
Rispetto ad altre (per dire sinteticamente così) ‘identità’ culturali che sono state protagoniste della storia unitaria o di alcune sue fondamentali fasi, disponiamo di idee più appropriate alla soluzione dei problemi del presente. E siamo ancora dotati di strumenti d’azione meno obsoleti o improvvisati. Ma anche una tale posizione, che questi nostri tempi fanno sentire nella comparazione con altre identità migliore e più vantaggiosa, non può essere considerata per sua natura un bene perenne. Né potrebbe restare a lungo una risorsa inesauribile, quando la visione cattolica della realtà stemperasse i propri elementi costitutivi, mischiandoli e omologandoli a quelli delle concezioni ideologiche del Novecento o dei loro scampoli attuali.
Essere ‘guelfi’, oggi, implica la consapevolezza che la nostra posizione di vantaggio culturale va di giorno in giorno consolidata. Consolidandola, saremo già pronti per quelle nuove ‘opere’ che – soprattutto per ciò che riguarda la rilevanza e la capacità attrattiva della nostra partecipazione alla vita politica del presente – il futuro prossimo già ci domanda.