I trappisti di Tiberhine, monaci indimenticabili

Per l’uscita del film “Gli uomini di Dio” di Xavier Beauvois

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di padre Renato Zilio*

LONDRA, mercoledì, 3 novembre 2010 (ZENIT.org).- “In nome del Dio Unico, Padre, Figlio e Spirito santo!” Così iniziava all’alba la preghiera cantata e ripetuta per ben tre volte: riassumeva il credo di due fedi, l’unicità e la trinità di Dio. Alle quattro del mattino era la nostra preghiera al monastero trappista, mentre subito dopo la moschea vicina lanciava il suo primo appello alla preghiera. Quasi una concorrenza tra credenti, ma che Dio, il Misericordioso, perdona volentieri… È questo il ricordo che mi insegue da anni, vivendo un paio di mesi con i monaci trappisti di Tiberhine. Mai avrei pensato che quelle voci sarebbero state spente un giorno dal taglio di un coltello. Facendo di loro degli agnelli offerti in sacrificio. A Dio e all’umanità.

Testimonianza viva di una Chiesa povera, fraterna ed umile in terra d’Islam questa comunità monastica era destinata a farsi feconda come un chicco di grano caduto nella terra. “Qui bisogna svuotarsi. Prendere il cammino della kenosis,” ricordava evangelicamente un vescovo. “Bisogna accettare di essere inefficaci. Vivere in un paese islamico solo come una presenza di preghiera e di solidarietà. E farlo come il Cristo, fino in fondo!” Sì, straordinaria vocazione: essere là unicamente come “uomini di Dio”.

Guardavo il vecchio monaco Amedée prendere il tè con gli operai musulmani del monastero. “È la mia seconda eucaristia!”, mi soffiava in un orecchio con devozione. Vedevo per mezzo di un semplice pezzo di pane e del tè quale grande senso di comunione respirasse con loro e con tutto un popolo, con il quale condivideva le sorti da tanti anni… Non stentavo per nulla a credergli. E rimanevo ammirato di una così grande e difficile spiritualità. Quella dell’incontro con l’altro.

Al monastero si viveva intensamente l’ospitalità, l’accoglienza dell’altro. Chiunque, infatti, era accolto fraternamente con cuore aperto e gioioso. “Per comprendere l’altro non bisogna conquistarlo,” scriveva Louis Massignon, “ma farsi suo ospite. Perché la verità si trova nell’ospitalità”. L’ospitalità, l’accogliersi reciprocamente, il far posto alla verità dell’altro è sempre un meraviglioso segreto per comprendersi. Per capire che “i sistemi si oppongono, ma le persone si incontrano”. E sanno costruire, spesso, una storia di relazioni nuove e inedite, di orizzonti più vasti o di ponti miracolosamente estesi. Sull’abisso, a volte, delle nostre immense differenze. Come questi monaci.

Mi risuonano, ancora, le parole ascoltate nel Maghreb: “Il centro di gravità della Chiesa non si trova in se stessa. E neppure nel suo rapporto con Dio. Ma si trova nella relazione di Dio con il mondo, che ha tanto amato… e in questo la Chiesa si fa serva e ministra”. Questi monaci amavano il loro mondo musulmano veramente. Appassionatamente. Come servitori di Dio e dei fratelli musulmani, fino a morirne… e per davvero!

A notte fonda, la preghiera con loro era scendere in una semplice, accogliente chiesetta monastica con la coscienza di trovarvi dei testimoni di una vita originale. Quella di noi, emigranti. Anch’essi camminavano sul filo del confine tra un mondo e un altro, tra una cultura, una lingua ed altre ben diverse, tra una religione ed un’altra immensamente differente. Liturgia mista, allora, in francese e in arabo. Quando, però, iniziavano i melismi e le melodie della lingua araba mi veniva sempre una stretta al cuore. Sapevo che era una lingua di cui i musulmani sono gelosi: lingua sacra, per eccellenza. Si trova sulla bocca stessa di Dio. Ma per i monaci era segno del loro amore per questo popolo e la loro cultura. In fondo, però, era la stessa cosa, l’amore non è forse il vero nome di Dio?

Alla fine della liturgia, un trappista spegneva tutte le luci e si rimaneva in un buio completo. Tutti fermi e immobili nell’oscurità anche per un’ora. Mi dicevo, allora: “Adesso sì che entriamo nello spirito di preghiera…”. Questo tempo per Dio, tutti insieme, in un silenzio prolungato nutriva la nostra anima, ci faceva toccare con mano la gratuità, la fiducia e la povertà della nostra fede. E insieme, naturalmente, la grandezza di Dio.

“Il nostro monastero, a dire la verità, era sconosciuto a tutti,” ricordava recentemente Jean-Pierre, monaco sopravissuto, “ed è ormai diventato una lampada… sopra il moggio. Sopra il mondo. Brilla di una luce che non si spegnerà mai. Mentre coloro che li hanno uccisi, dopo essersi trovati di fronte a sette monaci, sette agnelli sgozzati, avranno ben sentito forse dentro, nel più profondo, la voce di Dio…”

Parole di speranza e di perdono le sue. Null’altro il mondo si attende. Per vivere.

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*Padre Renato Zilio è un missionario scalabriniano. Ha compiuto gli studi letterari presso l’Università di Padova, e gli studi teologici a Parigi, conseguendo un master in teologia delle religioni. Ha fondato e diretto il Centro interculturale di Ecoublay nella regione parigina e diretto a Ginevra la rivista “Presenza italiana”. Dopo l’esperienza al Centro Studi Migrazioni Internazionali (Ciemi) di Parigi e quella missionaria a Gibuti (Corno d’Africa), vive attualmente a Londra al Centro interculturale Scalabrini di Brixton Road. Ha scritto “Vangelo dei migranti” (Emi Edizioni, Bologna 2010) con prefazione del Card. Roger Etchegaray.

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ZENIT Staff

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