ROMA, sabato, 19 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato l’11 dicembre da mons. Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, in occasione del convegno “Dio oggi: con lui o senza di lui cambia tutto”, organizzato a Roma dal Comitato per il Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana.
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«Il Signore vi parlò dal fuoco. Voce di parole voi ascoltavate. Nessuna figura voi vedevate: era solo una voce» (Deuteronomio 4,12). «Se un pagano viene e ti dice: Mostrami la tua fede!…, tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei sacri quadri» (Giovanni Damasceno, Patrologia Graeca XCV, 325). Sono questi i due estremi antitetici di uno spettro cromatico ideale. Esso si apre col gelido precetto aniconico del Decalogo che, sia pure per evidente apologetica anti-idolatrica, aveva intimato l’arresto all’arte sacra d’Israele: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra né di quanto è nelle acque sotto la terra» (Esodo 20,4). Ma si è alla fine giunti all’immenso patrimonio artistico cristiano, a cui faceva cenno il cantore delle icone, san Giovanni Damasceno (VIII sec.).
«Io sono colui che sono!»
La rappresentazione figurativa – fatta qualche esile e secondaria eccezione come, ad esempio, i cherubini (esseri alati di matrice mesopotamica) o i dodici buoi del grande bacino idrico rituale del tempio di Sion (1 Re 7,25) – nell’Antico Testamento è stata rubricata sotto la sua degenerazione che la relegava alla sfera proibita dell’idolo, anche quando di per sé ambiva a presentare lo stesso Jhwh a un popolo incline al realismo a livello gnoseologico. Il celebre toro d’oro (spregiativamente poi ridotto a vitello) eretto nel deserto voleva incarnare la potenza creatrice e fecondatrice non di Baal, la divinità cananea della quale il toro era un segno iconografico, bensì dello stesso Dio d’Israele (Esodo 32, 1-6), come accadrà anche per le analoghe due statue erette dal re Geroboamo I (1 Re 12, 28) che si attireranno l’anatema del profeta Osea («il vitello di Samaria è opera di artigiano, non è un dio e sarà ridotto in frantumi» 8,6).
La stessa riserva accompagnerà ogni altro emblema iconologico, come il serpente di bronzo (2 Re 18,4) o «la statua di metallo fuso» del santuario di Mica, trasferita poi nel tempio tribale di Dan (Giudici 17, 3-4; 18, 11-26), inesorabilmente votati alla deriva idolatrica, che era affiorata in Israele già durante il crepuscolo del regno di Salomone (1 Re 11, 4-8) e con la regina-madre Maacà nell’arco del lungo regno di Asa (1 Re 15,13). Certo è che l’incubo idolatrico, pendente come una costante spada di Damocle sulla religiosità popolare di Israele, genererà non solo un altrettanto continuo divieto di produzione artistica, ma anche un’inesorabile denuncia profetica – che non esiterà a ricorrere alla risorsa dell’ironia e fin del sarcasmo (si leggano Isaia 44, 9-20 o Geremia 10, 1-16) – e provocherà pure una sistematica e sferzante critica sapienziale, come è dimostrato nel settenario di idolatrie diverse condannate dal trattatello dei cc. 13-15 del Libro della Sapienza. Per non parlare poi del costante monito legislativo, a partire appunto dal primo comandamento decalogico e dal comma d’apertura del Codice sinaitico dell’Alleanza, sul quale si modelleranno tanti articoli dei vari codici biblici: «Non farete dèi d’argento e dèi d’oro accanto a me: non ne farete per voi!» (Esodo 20, 23).
Effettivamente ogni rappresentazione figurativa materiale del Dio d’Israele collide con un dato teologico di base, la sua realtà personale. Il suo stesso nome – come è noto, nella cultura dell’antico Vicino Oriente l’onomastica coincide con la definizione della realtà stessa a cui si assegna – non è espresso attraverso un sostantivo statico, ma con un verbo di sua natura dinamico, l’hyh della celebre formula teofanica del roveto ardente: «Io sono colui che sono!», sintetizzato nel semplice «Io-Sono» (Esodo 3,14), che sarà assunto anche dal Cristo giovanneo (ad esempio, 8, 24). In opposizione all’idolo inerte e silente, statua artigianale, «opera delle mani dell’uomo, che ha la bocca ma non parla, ha occhi ma non vede, ha orecchi ma non ode, ha narici ma non odora, ha mani che non palpano, ha piedi che non camminano, ha gola che non emette suoni» (Salmo 115, 4-7), l’Io-Sono parla e agisce, interviene giudicando e salvando e tutta la Rivelazione ne è l’attestazione.
A questo punto, allora, scatta una domanda: questo Dio-persona non riducibile a una statua, non raffigurabile in un’immagine, rimane inesorabilmente aniconico, irrappresentabile se non a livello concettuale? La risposta evidente è: no. Ed è la stessa Bibbia a indicarci almeno tre percorsi iconologici che salvaguardano la trascendenza senza per questo costringerci all’iconoclasmo. Il Dio «splendido e magnifico», come si canta nel Salmo 76,5, ha una vera e propria via “analogica” attraverso la quale è possibile non solo dirlo, ma anche raffigurarlo. La formulazione più limpida, a livello teorico e tematico di questo percorso, è reperibile nel già citato Libro della Sapienza che riflette anche il contributo del pensiero greco, essendo stata quest’opera probabilmente elaborata ad Alessandria d’Egitto, nella Diaspora giudaica. Si legge in 13,5: «Dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia (analogôs) si contempla (theoréitai) il loro Autore», un’idea ripresa anche da san Paolo, sia pure con altra finalità, nella Lettera ai Romani (1, 20: «Le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute»).
«Dio creò l’uomo a sua immagine»
Eccoci, allora, di fronte alla prima via analogica “figurativa”, quella delle creature in sé assunte come modello estetico. La “gloria” – kabôd in ebraico denota la stessa essenza intima divina nel suo svelarsi epifanico – è intuibile nel riflesso creaturale, come si canta nel Salmo 19: «I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il firmamento…, senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce» (vv. 2.4). Non è, quindi, una narrazione verbale, bensì un racconto figurato cosmico, che si dispiega come una pergamena miniata tra cielo e terra, per usare una suggestiva metafora presente in un inno sinagogale di Shavu‘ôt– Pentecoste.
Ma c’è una creatura che espleta in modo capitale l’analogia figurativa divina ed è la coppia umana. È ciò che è illustrato in modo efficace in un versetto della Genesi (1,27). Tra parentesi, ricordiamo che la qualità estetica del creato, espressa attraverso il reiterato uso dell’aggettivo tôb che indica il “bello-buono”, ha nella creatura umana il suo apice: essa, infatti, non è solo tôb, ma tôb me’ôd, è «molto bella» (1,31). Ma ritorniamo al nostro versetto che, già nella sua configurazione stilistica fondata sul tipico parallelismo esplicativo semantico, delinea la funzione iconologica teologica dell’essere umano nella sua realtà bipolare sessuale:
«Dio creò l’uomo a sua immagine,
a immagine di Dio lo creò
maschio e femmina li creò».
È evidente, anche graficamente, che l’“immagine” divina, in ebraico celem, nella versione greca eikôn, ha il suo sorprendente parallelo esplicativo in «maschio e femmina». Dio è, allora, da rappresentare come sessuato e accanto a lui si deve far assidere una dea paredra, come l’Astarte o l’Asherah idolatrica dei popoli circostanti a Israele? La risposta è ovvia
mente negativa, sulla base della polemica anti-idolatrica che pervade la Bibbia e a cui sopra abbiamo già fatto riferimento. L’“immagine” divina, d’altronde, non è neppure da cercare – stando al testo sacro – affidandoci alla tradizionale linea spiritualista, attestata ad esempio dalla Genesi alla lettera di sant’Agostino che non aveva dubbi al riguardo: «Che l’uomo sia fatto a immagine di Dio viene detto a causa della parte intima dell’uomo, ove ha sede la ragione e l’intelletto. L’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio soprattutto per quanto riguarda l’anima». L’“immagine” divina stampata nell’uomo e nella donna è nella loro capacità generativa: essa è la rappresentazione più “somigliante” (1,26) del Dio Creatore: non per nulla la storia della salvezza successiva sarà delineata dalla “Tradizione Sacerdotale” della Genesi sulla base delle genealogie (1,28; 2,4; 9,1.7; 10; 17, 2.6.16; 25,11; 28,3; 35,9.11; 47,27; 48,3-4).
Interessante è, però, notare la calibratura che viene effettuata dall’autore sacro su questa rappresentabilità iconica divina nella creatura umana. Nel precedente versetto si legge: «Facciamo l’uomo a nostra immagine (celem), a nostra somiglianza (d emût)» (1,26). Ora, il primo termine adottato dall’autore è celem, già presentato in 1,27: esso denota una vicinanza reale rispetto al soggetto rappresentato, una “verità” figurativa, una sorta di divina “immanenza” epifanica nella creatura umana. L’altro vocabolo, invece, d emût, suggerisce una certa distanza nel rapporto di similitudine, una specie di astrazione che è insita anche nella desinenza –ût propria dei vocaboli ebraici astratti; si vuole, perciò, ribadire la permanenza di una distanza, dovuta alla trascendenza del soggetto rappresentabile. La figura umana, quindi, è un’efficace e reale icona di Dio, ma non ne esaurisce la realtà piena. Si abbozza, così, in modo semplificato ma genuino il concetto di simbolo che l’arte dovrà sempre custodire. È possibile dipingere o scolpire Dio sulla scia del modello che egli ci ha offerto, la creatura umana. Si esclude, allora, una radicale ineffabilità e invisibilità divina e, dunque, ogni iconoclasmo. Ma al tempo stesso si proclama l’irriducibilità della divinità a un modello rappresentativo totalizzante, lasciando sempre aperta la distanza dell’infinito e dell’eterno.
«Quando verrò e vedrò il volto di Dio?»
C’è, però, una seconda via che la Bibbia privilegia nella sua raffigurazione divina ed è quella della Parola. È significativo che l’entrata in scena di Dio in entrambi i Testamenti sia appunto affidata al dabar-logos divino: «In principio Dio disse: Sia la luce!… In principio era il Verbo» (Genesi 1,3; Giovanni 1,1). Ora, la Parola di Dio che si cristallizza nel testo sacro rivela, a sua volta, due modalità iconologiche per dire Dio. Entrambe si sviluppano nella linea della precedente tipologia analogica creaturale. Iniziamo col primo modello che è definibile col termine “antropomorfismo”. Nelle pagine bibliche è tratteggiata l’intera figura divina analogicamente modulata sulla corporeità umana. I vari lineamenti occupano un rilievo enorme nella tessitura simbolica della teologia biblica e in quella giudaica successiva che introdurrà anche stravaganti riflessioni sul “corpo” di Dio in ambito cabbalistico. Proviamo solo ad evocarne i tratti principali che si accompagnano a una serie di metafore di indole più esistenziale e psicologica e che, in ultima analisi, si riconducono al concetto di Dio persona.
Così, il Signore ha un volto che il fedele ansiosamente spera di contemplare: «Quando verrò e vedrò il volto di Dio?» (Salmo 42,3). «Gli uomini retti contempleranno il suo volto… Il tuo volto, Signore, io cerco» (11,7; 27,8). È, però, interessante notare che proprio attorno a questa componente capitale della figuratività di Dio scatta la stessa dialettica registrata per l’“immagine” e la “somiglianza” a cui sopra accennavamo. Infatti, da un lato, c’è il desiderio e la possibilità di “vedere il volto di Dio”, ma d’altra parte si introduce la sua inattingibilità di fondo (e non solo perché egli «nasconde il suo volto», come spesso si dice nel Salterio per indicare il suo sdegno e il suo giudizio). Suggestiva è la scena che ha per protagonista la grande guida dell’Esodo, Mosè, il quale aspira a contemplare la gloria del volto di Dio e che riceve una risposta a prima vista sorprendente: «Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo». Alla fine vedrà Dio ma solo di spalle, mentre s’allontana (33, 18-23). Eppure il Signore stesso ribadisce che «con Mosè egli parla bocca a bocca, in visione e non per enigmi e costui contempla l’immagine (temûnah) del Signore» (Numeri 12,8). Si ha qui la logica della trascendenza-immanenza, della veridicità della rappresentazione divina, ma anche della sua radicale “insufficienza”.
Il “vedere il volto di Dio” trascina, dunque, con sé sempre un’ambiguità che è, però, necessaria, come diceva anche Isaia nel racconto della sua vocazione, quando egli si era sentito “perduto” perché «i suoi occhi avevano visto il re, il Signore degli eserciti». Eppure il profeta non è annientato, ma è purificato per avere una visione mistica del Dio invisibile (6,5-7), un po’ come accadrà a Giobbe che, attraverso la catarsi della sofferenza, approderà alla visione: «Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono» (42,5). Sta di fatto, comunque, che non solo il volto ma anche il profilo del Signore è integralmente disegnato nella Bibbia. Si ha la sua bocca, dalla quale «escono scienza e prudenza» (Proverbi 2,6) e soprattutto la sua parola vivificante (Deuteronomio 8,3; Matteo 4,4). C’è persino il suo naso che sbuffa nell’ira (l’ebraico ’af che onomatopeicamente incarna questo soffiare sdegnato). Ben noto è il suo braccio liberatore e la sua mano che salva: «con mano potente e braccio teso» è uno stereotipo frequente per designare l’azione divina nell’evento esodico (ad esempio, Deuteronomio 4, 34), allorché «gli ha dato vittoria la sua destra e il suo braccio santo» (Salmo 98,1).
Dio ha un cuore quando proclama: «Ho trovato Davide, figlio di Iesse, uomo secondo il mio cuore» (Atti 13,22). Un cuore che batte d’amore: «Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione; perciò non darò sfogo alla mia ira» (Osea 11, 8-9). Il cuore – che per la Bibbia è sinonimo di coscienza, di interiorità – dà quindi il via all’iridescenza dei sentimenti. Essi vanno dall’affetto all’ira, come si è visto nel testo oseano; comprendono lo sdegno («Signore, non punirmi nella tua collera, non castigarmi nel tuo furore», Salmo 38,2), ma anche la gelosia, come spesso si ripete a partire dal Decalogo: «Io sono un Dio geloso» (Esodo 20,5). Passano dal “pentimento” (Genesi 6,6; Esodo 32,14) e giungono fino all’apice della fedeltà, della grazia (Esodo 34,6-7) e dell’amore che diventa la definizione stessa di Dio (1 Giovanni 4,8.16). A tutto questo poi si dovrebbe allegare anche l’apparato di simboli “psicologici” o esistenziali che sono ampiamente sviluppati nelle Scritture: il Dio padre, madre, sposo, amico, re, Emmanuele…
C’è, però, come si diceva, un’altra tipologia rappresentativa che si collega alla qualità basilare della Rivelazione biblica. Essa, infatti, è storica e quindi le teofanie hanno come loro sede privilegiata, più ancora dello spazio sacro del tempio, la sequenza degli eventi che scandiscono il tempo. Si ha, così, “la storia della salvezza” che è una trama di fatti fenomenici al cui interno, però, è in azione anche Dio che ad essi assegna una qualità ulteriore, trascenden
te. Proprio per questa caratteristica, la Bibbia, sulla quale incombe pur sempre il divieto decalogico iconico, si trasforma nel più vasto repertorio iconografico religioso, ben superiore a quello di altre religioni di forte contenuto immanentistico. Non per nulla la locuzione “grande codice dell’arte”, attribuita alla Sacra Scrittura dal famoso omonimo saggio di Northrop Frye, sulla scia di una frase del poeta William Blake, conferma l’indispensabilità del testo biblico, con la sua simbologia, le sue narrazioni, le sue figure, per l’arte occidentale. Come diceva Chagall, i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato iconografico che è la Bibbia, proprio attraverso i suoi personaggi e i suoi racconti, le sue storie e vicende umane e divine. Tutto questo raggiunge il suo acme nel Nuovo Testamento che introduce la terza via, la più alta e definitiva, per rappresentare Dio.
«Il Verbo carne divenne»
Alla base c’è la logica dell’Incarnazione che riassume in sé ed esalta tutti i precedenti discorsi che finora abbiamo abbozzato. Il testo che è da considerare come la sigla o la dichiarazione sorgiva è il celebre asserto del prologo di Giovanni (1,14): ho Lógos sàrx eghéneto, «il Verbo carne divenne», ove spicca l’accostamento paradossale della cultura greca tra Lógos e sárx. Come scriveva Borges nella sua poesia, intitolata appunto Giovanni 1,14: «Io che sono l’È, il Fu e il Sarà, / accondiscendo al linguaggio / che è tempo successivo e simbolo». In Gesù Cristo, Figlio di Dio e uomo vero, si condensano e si elevano tutte le forme di rappresentazione finora considerate. Il punto di partenza è appunto la sua umanità reale e piena, che conosce l’arco intero dell’essere e dell’esistere umano, dalla nascita alla morte, inserendosi così pienamente nel tempo e nel limite della creatura per redimerla e trasfigurarla.
Come ricordava Giovanni Paolo II nella sua Lettera agli artisti del 1999, il Secondo Concilio di Nicea del 787, celebrato dopo la bufera dell’iconoclasmo, appellò – considerandolo l’argomento decisivo per ricollocare le immagini nella fede e nella cultura cristiana – al mistero dell’Incarnazione: «Se il figlio di Dio è entrato nel mondo delle realtà visibili, gettando un ponte mediante la sua umanità tra il visibile e l’invisibile, analogamente si può pensare che una rappresentazione del mistero possa essere usata, nella logica del segno, come evocazione sensibile del mistero. L’icona non è venerata per se stessa, ma rinvia al soggetto che rappresenta». Ritorna anche qui il tema dell’“analogia” già prospettato dal citato passo della Sapienza riguardo al creato come riflesso del Creatore (13,5) con una nuova e ben più alta applicazione. Se, dunque, Gesù Cristo è vero uomo, proprio nella sua visibile umanità diventa “immagine-icona” del Dio vivente.
È ciò che è esplicitamente dichiarato dall’inno di apertura della Lettera ai Colossesi ove si presenta Cristo come «immagine (eikôn) del Dio invisibile» (1,15). È ciò che è formulato anche nell’incipit della Lettera agli Ebrei ove – ricorrendo a due metafore (l’irraggiamento e l’incisione o impressione di un sigillo) che la teologia giudaica alessandrina applicava alla Sapienza e al Logos divino (si veda, ad esempio, Sapienza 7, 25-26) – si proclama che Cristo è «irradiazione della gloria di Dio e impronta della sua sostanza» (1,3). L’umanità di Gesù Cristo è, perciò, la via principale per affermare la possibilità di raffigurare Dio. È suggestiva la celebrazione di questo tema che viene fatta nella liturgia cristiana orientale: Cristo è cantato come «il Bellissimo, di bellezza superiore a quella di tutti i mortali», perché è la gloria rivelata del Padre (così nell’Enkomía dell’Orthós del «Santo e Grande Sabato» pasquale).
Oltre che nell’uomo “immagine” divina, è nella Parola che si esprimeva il volto del Dio biblico. Anche questa tipologia è applicabile a Cristo la cui missione è quella di “narrare” il Padre: «Dio nessuno mai l’ha visto: il Figlio unigenito che è Dio e che è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Giovanni 1,18). Quel “rivelare” è in greco exêghéomai, un descrivere, uno spiegare, un mostrare in pienezza. È ciò che Gesù fa attraverso la sua predicazione del Regno di Dio, un concetto dinamico che suppone l’azione regale divina nella storia, un concetto “teologico” che egli rappresenta col ricorso all’analogia simbolica (e quindi figurativa) delle 35 parabole (72 se si allegano anche le metafore espanse e le comparazioni allargate). Esse diventano appunto lo svelamento della mente e dell’agire di Dio, del suo progetto efficace, delle sue attese e dei suoi giudizi, della salvezza offerta e della meta ultima a cui egli orienta la storia. Non per nulla, in sintesi, il quarto evangelista ha adottato la categoria Lógos, “parola, discorso”, per definire Gesù Cristo.
Infine, la rappresentabilità del Dio biblico si era affidata – com’è stato indicato – all’antropomorfismo e in quel processo simbolico aveva espletato una funzione significativa il “volto” divino inaccessibile eppur rivelato. Ora quella fisionomia ha una sua figurazione diretta ed esplicita nel viso di Cristo. È lui stesso a ricordarci che, fissando lo sguardo in lui, è possibile rintracciare i lineamenti del Padre, come accade in ogni figlio: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Giovanni 14,9); «chi vede me, vede Colui che mi ha mandato» (12,45). È per questo che ormai possiamo dire di conoscere Dio, attraverso la mediazione del Figlio, il «Verbo della vita» che «abbiamo veduto coi nostri occhi, abbiamo contemplato e fin toccato con le nostre mani» (1 Giovanni 1,1). Anzi, sulla scia di questa esperienza diretta è possibile ormai superare il limite imposto a Mosè e varcare la dialettica del visibile e invisibile Dio dell’Antico Testamento. La meta ultima della nostra visione del volto divino è, infatti, il «vedere Dio faccia a faccia… così come Egli è» (1 Corinzi 13,12; 1 Giovanni 3,2).
Dio è brutto o è bello?
L’arte è, allora, la narrazione visiva dell’esperienza dell’incontro con un volto, una parola, un’immagine veramente visibile perché incarnata. San Paolo andrà anche oltre, completando cristologicamente e cristianamente la dottrina dell’“immagine-icona” di Dio sviluppata dal passo di Genesi 1,27. Infatti, egli afferma che i cristiani, come figli adottivi di Dio, sono «predestinati ad essere conformi all’immagine (eikôn) del Figlio suo, primogenito tra molti fratelli» (Romani 8,29). Il cristiano è, di conseguenza, immagine dell’immagine di Dio e l’arte è l’icona dell’immagine dell’immagine, perché attraverso i vari volti umani essa ricompone il volto di Cristo che è impronta del volto divino. Alla fine, come affermava Macario il Grande nella sua I Omelia, «l’anima che è stata pienamente illuminata dalla bellezza indicibile della gloria luminosa del volto di Cristo, è ricolma dello Spirito Santo…, è tutta occhio, tutta luce, tutta volto» (Patrologia Graeca XXXIV, 451).
In conclusione vorremmo riservare solo un cenno a una domanda forse ingenua ma affascinante: è possibile dire qualcosa di più sul volto di Dio, attraverso l’Incarnazione, così che l’arte abbia qualche canone figurativo? Il paradosso è nel fatto che i Vangeli non ci hanno lasciato neppure un rigo sul profilo fisico di Gesù di Nazaret, neppure il “pittore” (stando alla tradizione) Luca. Le principali strade imboccate dalla cultura cristiana sono state due e antitetiche. Eppure entrambe hanno una loro verità. Da un lato, a partire dal III secolo i Padri della Chiesa hanno infranto quel silenzio visivo e hanno immaginato un viso sgraziato di Cristo fondandosi sulla sua sofferen
za redentrice, sulla sua passione e morte e sulla rilettura cristologica del celebre passo isaiano del quarto canto del Servo del Signore: «Non ha apparenza né bellezza per attrarre il nostro sguardo, non splendore per poterne godere» (53,1). Lapidario era stato Origene: Gesù era piccolo, sgraziato, simile a un uomo da nulla».
È un po’ sorprendente, ma a questo punto dovremmo dire che anche la bruttezza (non la bruttura) può salvare il mondo, capovolgendo il celebre e citatissimo asserto di Dostoevskij. La logica dell’Incarnazione comprende anche la sofferenza di Dio, il corpo martoriato, i posteriora Dei, come Lutero osava definire il profilo del Cristo crocifisso. Un volto, quindi, che riflette i visi rigati di lacrime dei fratelli e delle sorelle del «primogenito tra molti fratelli». In questo senso c’è un “brutto” nobile che parla di Dio e che impedisce ogni kitsch devozionale, ogni estetismo trionfalistico, ogni ottimismo di maniera. Tuttavia, bisogna riconoscere che l’approdo ultimo della vita di Cristo non ha come data il Venerdì Santo, bensì «la domenica della vita», per usare liberamente una locuzione hegeliana, ossia l’alba di Pasqua che è per eccellenza il definitivo «giorno del Signore» (Apocalisse 1,10). Non per nulla la Prima Lettera di Giovanni definisce Dio come Luce (1,5).
Si è, così, aperta un’altra strada figurativa che i Padri della Chiesa, a partire dal IV secolo, hanno esaltato fino a farla prevalere nella tradizione artistica successiva. Sulla base dell’estetismo greco-romano classico, attingendo spesso alla stessa tipologia figurativa delle divinità pagane o dei filosofi dell’antichità, si è proposto un Dio bello e radioso, un Cristo apollineo, irraggiante luce come il sole, incarnazione di un altro passo sottoposto a rilettura allegorico-messianica, il Salmo 45,3: «Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo». E nonostante sant’Agostino ripetesse che «noi ignoriamo totalmente quale fosse il volto» reale di Cristo, fu questa l’immagine divina vincente, ribadita in mille e mille ritratti stupendi dei tanti secoli dell’arte cristiana, ma anche nella pletora delle stucchevoli oleografie.
In realtà, entrambi questi itinerari iconografici hanno un loro valore per raffigurare il Dio biblico che è, sì, trascendente e luce, ma è anche Emmanuele, pronto a incamminarsi sui percorsi della storia e a giungere nel cuore dell’umanità col Figlio suo fatto uomo. In questa prospettiva diventa emblematica la sintesi operata dai vari Pantokrator posti nelle absidi delle grandi basiliche antiche: il Cristo trionfante e glorioso appare in tutto lo splendore della sua bellezza, ma reca ben visibili in sé ancora tutte le stimmate sanguinanti della sua passione. Dio invisibile e visibile, trascendente e vicino, glorioso e sofferente. Ecco, l’arte, che non ha come compito solo di presentare il fenomenico ma il mistero sotteso (l’Inconnu, come diceva il poeta francese Laforgue), quando si fa religiosa, deve sempre cercare di unire in un modo armonico l’Infinito e la carne, l’Eterno e la storia, il Figlio di Dio che è Gesù di Nazaret.