ROMA, mercoledì, 9 dicembre 2009 (ZENIT.org).- L’articolo che presentiamo oggi si propone di ricordare l’uso antico di accompagnare la vestizione dei paramenti liturgici con delle preghiere, brevi ma molto ricche dal punto di vista biblico, teologico e spirituale. Simile pratica tradizionale è da ritenersi tutt’altro che superata. Essa va al contrario riscoperta nella sua bellezza ed utilità per la vita spirituale del sacerdote.



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1. Cenni storici

Le vesti usate dai ministri sacri nelle celebrazioni liturgiche sono derivate dalle antiche vesti civili greche e romane. Nei primi secoli, l’abito delle persone di un certo livello sociale (gli honestiores) è stato adottato anche per il culto cristiano e questa prassi si è mantenuta nella Chiesa anche dopo la pace di Costantino. Come emerge da alcuni scrittori ecclesiastici, i ministri sacri portavano le vesti migliori, con tutta probabilità riservate per tale occasione [1].

Mentre nell’antichità cristiana le vesti liturgiche si sono distinte da quelle civili non in ragione della loro forma particolare, ma per la qualità della stoffa e per il loro particolare decoro, nel corso delle invasioni barbariche i costumi e, con essi, gli abiti di nuovi popoli sono stati introdotti in Occidente e hanno apportato cambiamenti nella moda profana. Invece, la Chiesa ha mantenuto essenzialmente inalterate le vesti usate dal clero nel culto pubblico; così si è differenziato l’uso civile delle vesti da quello liturgico.

In epoca carolingia, infine, i paramenti propri ai vari gradi del sacramento dell’ordine, tranne alcune eccezioni, sono stati definitivamente fissati ed hanno assunto la forma che hanno ancora oggi.

2. Funzione e significato spirituale

Al di là delle circostanze storiche, i paramenti sacri hanno una funzione importante nelle celebrazioni liturgiche: in primo luogo, il fatto che non sono portati nella vita ordinaria, e perciò possiedono un carattere cultuale, aiuta a staccarsi dalla quotidianità e dai suoi affanni, al momento di celebrare il culto divino. Inoltre, le forme ampie delle vesti, ad esempio del camice, della dalmatica e della casula o pianeta, pongono in secondo piano l’individualità di chi le porta, per far risaltare il suo ruolo liturgico. Si può dire che la “mimetizzazione” del corpo del ministro al di sotto delle ampie vesti, in un certo senso lo spersonalizza, di quella sana spersonalizzazione che toglie dal centro il ministro celebrante e riconosce il vero Protagonista dell’azione liturgica: Cristo. La forma delle vesti, dunque, dice che la liturgia viene celebrata in persona Christi e non a nome proprio. Colui che compie una funzione cultuale non attua in quanto persona privata, ma come ministro della Chiesa e come strumento nelle mani di Gesù Cristo. Il carattere sacro dei paramenti risulta anche dal fatto che vengono assunti secondo quanto descritto nel Rituale Romano.

Nella forma straordinaria del Rito Romano (cosiddetta di San Pio V), la vestizione dei paramenti liturgici è accompagnata da preghiere relative ad ogni veste, preghiere il cui testo si trova ancora in molte sagrestie. Anche se queste orazioni non sono più prescritte (ma neppure vietate) dal Messale della forma ordinaria emanato da Paolo VI, il loro uso è consigliabile, perché aiutano alla preparazione ed al raccoglimento del sacerdote prima della celebrazione del Sacrificio eucaristico. A conferma dell’utilità di queste preghiere, va notato che esse sono state incluse nel Compendium eucharisticum, pubblicato recentemente dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti [2]. Inoltre, può essere utile ricordare che Pio XII, con decreto del 14 gennaio 1940, assegnò un’indulgenza di cento giorni per le singole orazioni.

3. Le singole vesti liturgiche e le preghiere che accompagnano la vestizione

1) All’inizio della vestizione, il sacerdote si lava le mani recitando un’apposita preghiera; oltre al fine pratico dell’igiene, questo atto ha anche un simbolismo profondo, in quanto significa il passaggio dal profano al sacro, dal mondo del peccato al puro santuario dell’Altissimo. Lavarsi le mani equivale in qualche modo al togliersi i sandali davanti al roveto ardente (cf. Esodo 3,5). La preghiera accenna a questa dimensione spirituale:

Da, Domine, virtutem manibus meis ad abstergendam omnem maculam; ut sine pollutione mentis et corporis valeam tibi servire.

(Da’, o Signore, alle mie mani la virtù che ne cancelli ogni macchia: perché io ti possa servire senza macchia dell’anima e del corpo) [3].

All’abluzione delle mani, segue la vestizione vera e propria.

2) Si comincia con l’amitto, un panno di lino rettangolare munito di due fettucce, che si appoggia sulle spalle e si fa poi aderire al collo; infine si lega attorno alla vita. L’amitto ha lo scopo di coprire l’abito quotidiano attorno al collo, anche se si tratta dell’abito del sacerdote. In questo senso, bisogna ricordare che l’amitto va indossato anche quando si utilizzano fogge di camici moderne, le quali spesso non prevedono un’apertura ampia nella parte superiore, e tendono piuttosto a stringersi attorno al collo. Nonostante ciò, l’abito quotidiano rimane ugualmente visibile e per questo è necessario coprirlo anche in questi casi con l’amitto [4].

Nel Rito Romano, l’amitto è indossato prima del camice. Nell’assumerlo, il sacerdote recita la seguente preghiera:

Impone, Domine, capiti meo galeam salutis, ad expugnandos diabolicos incursus.

(Imponi, Signore, sul mio capo l’elmo della salvezza, per sconfiggere gli assalti diabolici).

Con richiamo alla Lettera di san Paolo agli Efesini 6,17, l’amitto viene interpretato come «l’elmo della salvezza», che deve proteggere colui che lo porta dalle tentazioni del demonio, in particolare dai pensieri e desideri cattivi durante la celebrazione liturgica. Questo simbolismo è ancora più chiaro nel costume seguito a partire dal medioevo dai Benedettini, Francescani e Domenicani, presso i quali l’amitto si applicava prima sulla testa e poi si lasciava cadere sulla casula o sulla dalmatica.

3) Il camice o alba è la lunga veste bianca indossata da tutti i sacri ministri, che ricorda la nuova veste immacolata che ogni cristiano ha ricevuto mediante il battesimo. Il camice è dunque simbolo della grazia santificante ricevuta nel primo sacramento ed è considerato anche simbolo della purezza di cuore necessaria per entrare nella gioia eterna della visione di Dio in Cielo (cf. Matteo 5,8). Questo si esprime nella preghiera detta dal sacerdote, mentre indossa il camice, orazione che fa riferimento ad Apocalisse 7,14:

Dealba me, Domine, et munda cor meum; ut, in sanguine Agni dealbatus, gaudiis perfruar sempiternis.

(Purificami, Signore, e monda il mio cuore, perché purificato nel Sangue dell’Agnello, io goda degli eterni gaudi).

4) Sopra il camice, all’altezza della vita, è indossato il cingolo, un cordone di lana o di altro materiale adatto che si utilizza a mo’ di cintura. Tutti gli officianti che indossano il camice dovrebbero portare anche il cingolo (questa consuetudine tradizionale è oggi disattesa molto di frequente) [5]. Per i diaconi, i sacerdoti e i vescovi, il cingolo può essere di diversi colori, secondo il tempo liturgico o la memoria del giorno. Nel simbolismo delle vesti liturgiche, il cingolo rappresenta la virtù del dominio di sé, che san Paolo enumera anche tra i frutti dello Spirito (cf. Galati 5,22). La corrispondente preghiera, prendendo spunto dalla Prima Lettera di Pietro 1,13, dice:

Praecinge me, Domine, cingulo puritatis, et exstingue in lumbis meis humorem libidinis; ut maneat in me virtus continentiae et castitatis.

(Cingimi, Signore, con il cingolo della purezza e prosciuga nel mio corpo la linfa della dissolutezza, affinché rimanga in me la virtù della continenza e della castità).

5) Il manipolo è un paramento liturgico adoperato nelle celebrazioni della Santa Messa secondo la forma straordinaria del Rito Romano; è caduto in disuso negli anni della riforma liturgica, anche se non è stato abolito. Il manipolo è simile alla stola, ma di lunghezza minore: è lungo meno di un metro e fissato a metà da un fermaglio o da fettucce simili a quelle che si trovano nella pianeta. Durante la Santa Messa nella forma straordinaria, il celebrante, il diacono e il suddiacono lo portano all’avambraccio sinistro. Questo paramento forse deriva da un fazzoletto (mappula) che era portato dai romani annodato al braccio sinistro. Siccome la mappula si utilizzava per detergere il viso da lacrime e sudore, gli scrittori ecclesiastici medievali hanno assegnato al manipolo il simbolismo delle fatiche del sacerdozio. Questa lettura è entrata anche nell’apposita preghiera di vestizione:

Merear, Domine, portare manipulum fletus et doloris; ut cum exsultatione recipiam mercedem laboris.

(O Signore, che io meriti di portare il manipolo del pianto e del dolore, affinché riceva con gioia il compenso del mio lavoro).

Come si vede, nella prima parte la preghiera cita il pianto ed il dolore che accompagnano il ministero sacerdotale, ma nella seconda parte si fa riferimento al frutto del proprio lavoro. Non sarà fuori luogo richiamare il passo di un salmo che può aver ispirato questa seconda simbologia del manipolo, visto che la Vulgata così rendeva il Salmo 125,5-6: «Qui seminant in lacrimis in exultatione metent; euntes ibant et flebant portantes semina sua, venientes autem venient in exultatione portantes manipulos suos» (corsivo nostro).

6) La stola è l’elemento distintivo del ministro ordinato e si indossa sempre nella celebrazione dei sacramenti e dei sacramentali. È una striscia di stoffa, di norma ricamata, il cui colore varia secondo il tempo liturgico o il giorno del santorale. Indossandola, il sacerdote recita la relativa preghiera:

Redde mihi, Domine, stolam immortalitatis, quam perdidi in praevaricatione primi parentis; et, quamvis indignus accedo ad tuum sacrum mysterium, merear tamen gaudium sempiternum.

(Restituiscimi, o Signore, la stola dell’immortalità, che persi a causa del peccato del primo padre; e per quanto accedo indegno al tuo sacro mistero, che io raggiunga ugualmente la gioia senza fine).

Siccome la stola è un paramento di enorme importanza, che indica più di ogni altro lo stato di ministro ordinato, non si può non lamentare l’abuso ormai diffuso in molti luoghi che i sacerdoti non portino più la stola quando indossano la casula [6].

7) Infine, ci si riveste della casula o della pianeta, la veste propria di colui che celebra la Santa Messa. I libri liturgici hanno usato in passato i due termini latini casula e planeta come sinonimi. Mentre il nome di planeta si usava particolarmente a Roma ed è rimasto in Italia, il nome di casula deriva dalla forma tipica della veste che all’origine circondava interamente il sacro ministro che la portava. L’uso della parola casula si trova anche in altre ligue: «casulla» in spagnolo, «chasuble» in francese e in inglese, «Kasel» in tedesco. La preghiera relativa alla casula fa riferimento all’esortazione della Lettera ai Colossesi 3,14: «Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo di perfezione»; e, infatti, l’orazione con cui si indossa la casula o pianeta cita le parole del Signore contenute in Matteo 11,30:

Domine, qui dixisti: Iugum meum suave est, et onus meum leve: fac, ut istud portare sic valeam, quod consequar tuam gratiam. Amen.

(O Signore, che hai detto: Il mio gioco è soave e il mio carico è leggero: fa’ che io possa portare questo [indumento sacerdotale] in modo da conseguire la tua grazia. Amen).

In conclusione, si può auspicare che la riscoperta del simbolismo proprio ai paramenti e delle rispettive preghiere possa incoraggiare i sacerdoti a riprendere la consuetudine di pregare durante la vestizione, in modo da prepararsi con il dovuto raccoglimento alla celebrazione liturgica. Se è vero che è possibile pregare con diverse orazioni, o anche semplicemente elevando la mente a Dio, nondimeno i testi delle preghiere per la vestizione hanno dalla loro parte la brevità, la precisione del linguaggio, l’afflato di spiritualità biblica, nonché il fatto di essere state pregate per secoli da un numero incalcolabile di sacri ministri. Queste orazioni si raccomandano dunque ancora oggi, per la preparazione alla celebrazione liturgica, anche svolta in accordo alla forma ordinaria del Rito Romano.





Note

[1] Cf. ad esempio san Girolamo, Adversus Pelagianos, I, 30.

[2] Edito dalla LEV, Città del Vaticano 2009, pp. 385-386.

[3] Riprendiamo il testo delle preghiere dall’edizione del Missale Romanum emanato nel 1962 dal beato Giovanni XXIII, Roman Catholics Books, Harrison (NY) 1996, p. lx. La traduzione in italiano delle preghiere è nostra.

[4] La Institutio Generalis Missalis Romani (2008) al n. 336 permette di non assumere l’amitto quando il camice è confezionato in maniera tale da coprire completamente il collo, nascondendo la vista dell’abito comune. Di fatto, però, avviene di rado che l’abito non sia visibile, anche solo parzialmente; di qui la raccomandazione ad utilizzare comunque l’amitto.

[5] Lo stesso n. 336 della Institutio del 2008 prevede la possibilità di omettere il cingolo, se il camice è confezionato in maniera tale da aderire al corpo senza di esso. Nonostante questa concessione, bisogna riconoscere: a) il valore tradizionale e simbolico dell’uso del cingolo; b) il fatto che difficilmente il camice – sia in foggia più tradizionale, che soprattutto nei tagli più moderni – aderisce da sé al corpo. Se la norma prevede la possibilità, essa dovrebbe però restare piuttosto ipotetica in via di fatto: in concreto, il cingolo risulta sempre necessario. A volte si trovano oggi dei camici che hanno il cingolo incorporato: una fettuccia di stoffa unita al camice per mezzo di una cucitura all’altezza della vita e che si annoda al momento della vestizione: in questi casi la preghiera sul cingolo può essere recitata mentre si annoda. Resta però di gran lunga preferibile la forma tradizionale.

[6] «Il Sacerdote che porta la casula secondo le rubriche non tralasci di indossare la stola. Tutti gli Ordinari provvedano che ogni uso contrario sia eliminato»: Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Redemptionis Sacramentum, 25 marzo 2004, n. 123.