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1. Il Dio della fede biblica e l’“invenzione” della storia

Il Dio della Bibbia è il Dio della storia: interviene in essa, è riconosciuto ed amato a partire dalle meraviglie che vi compie e dalle parole che vi fa risuonare, esercita la sua signoria sulle vicende umane. “Dove altri percepirono solo un infinito silenzio, Israele udì una voce. Israele poté scoprire che il Dio unico è udibile e interpellabile, che va tra gli uomini dicendo Io e facendosi Tu per loro: un Tu che parla e a cui si può parlare”[1]. Il protagonista umano della storia è il suo interlocutore privilegiato: al vertice dell’opera dei sei giorni Dio crea l’uomo a sua immagine e somiglianza. La storia intera, nel suo sviluppo, non sarà altro che un dialogo - accolto o rifiutato dall’uomo - fra il Signore dell’universo e gli abitatori del tempo. L’iniziativa sarà sempre di Dio: “La Bibbia non è la teologia dell’uomo, ma l’antropologia di Dio che si occupa dell’uomo e di ciò che egli chiede” [2]. Più che dirci ciò che gli uomini pensano del divino, ci testimonia ciò che Dio pensa degli uomini e della loro storia. All’uomo la dignità e l’onere della risposta: nella visione biblica la storia è desiderio e attesa, domanda e ascolto, ma anche bestemmia e scandalo della creatura davanti al suo Creatore e Signore.

Una gustosa leggenda rabbinica ci aiuta a comprendere quest’idea della storia come interrogazione e corrispondenza: essa narra che all’atto di creare il mondo l’Eterno convocò alla sua presenza le lettere dell’alfabeto, chiedendo chi di loro volesse essere la prima lettera del creato. Tutte fecero a gara proporsi, non diverse dagli umani. Sola restò in silenzio l’“aleph”, la più eterea e volatile fra le lettere dell’alfabeto ebraico, la più modesta. L’Eterno fece allora la sua scelta e chiamò la “beth” a iniziare l’opera del mondo, perché è la lettera con cui comincia ogni benedizione del Santo (“berakah”): perciò la prima parola della Torah è “berešit”, “in principio” (Genesi 1,1). La “beth” - inizio del creato - non è, però, che un quadrato aperto sul lato sinistro, nella direzione in cui in ebraico prosegue la scrittura, quasi a dire che l’inizio non è compimento, ma domanda e attesa. Il racconto prosegue, perciò, mostrando come l’Eterno abbia voluto ricompensare la “aleph” per la sua umiltà, dandole il primo posto nel Decalogo: “Io sono il Signore Dio tuo”. La parola dell’eterno fondamento invisibile che viene ad affacciarsi nel tempo con la rivelazione comincia infatti con “io”, “anochì”, la cui iniziale è “aleph”[3]. Se dunque la storia dell’uomo e del mondo inizia con la “beth” ed è perciò sempre aperta in direzione del suo sviluppo, la verità di Dio ci viene offerta solo a partire dall’“aleph”, con cui inizia l’“Io” della Sua sovrana auto-comunicazione. La storia è domanda aperta, a cui l’Eterno offre la misteriosa risposta dell’“aleph”, dell’umiltà della Sua rivelazione, della Sua chiamata e della Sua operosa presenza fra gli uomini[4].

Proprio così, è alla fede biblica che si deve l’“invenzione” della storia: dove altri colsero “l’eterno ritorno” dell’identico[5], i credenti del patto riconobbero un destino, l’appello a una patria intravista, anche se non posseduta. La storia non è l’infinita ripetizione del ciclo dei giorni e delle stagioni, portato a coscienza per esorcizzare il dolore e farne una semplice tappa dell’eterno ritorno, ma la risposta a una chiamata, l’andare verso una meta. L’uomo biblico sa che questo viaggio è suscitato e accompagnato dall’Altro, che non lascia mai solo il Suo interlocutore umano né è indifferente alla sua risposta. Come la sposa del Cantico, Dio è in cerca dell’uomo, lo chiama, percorre le notti per trovarlo e abbracciarlo. Il Dio della storia è un Dio che fa storia: la storia degli uomini è l’altra faccia della storia di Dio. Dio ha bisogno degli uomini e crede in essi, più di quanto essi credano in Lui. Dalla “preistoria della salvezza”, che è l’opera della creazione, all’alleanza con Noè e poi con Abramo, fino all’alleanza del Sinai e alla venuta del Messia, il tempo storico è anche tempo di Dio, spazio del Suo avvento, luogo della Sua promessa e delle Sue sorprese.

Fra queste, la più indeducibile e alta per la fede cristiana è l’incarnazione del Figlio, con la quale il Verbo viene a mettere le sue tende fra gli uomini e a farsi egli stesso protagonista di una storia pienamente umana. Nella vicenda di Gesù di Nazaret si compie così la rivelazione dell’uomo e della storia: “In realtà - afferma la Costituzione Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II - solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo... Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione… Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato”[6]. Nel suo culmine - la Pasqua - la storia del Figlio incarnato si offre come la “storia della storia”, denso compendio del destino di morte e resurrezione di ogni uomo e del mondo. Dio fa Sua la morte per dare a noi la vita: la storia è agli occhi della fede questa unità di morte e di vita a favore della vita.

Anche nella tradizione ebraica l’idea della “shekhinah” divina - il misterioso attendarsi di Dio in mezzo al Suo popolo - mostra come la storia possa essere fatta propria dall’Eterno per amore degli uomini: si tratta di una presenza così profonda e vicina da divenire condivisione del dolore e della gioia. Dice un commovente “midrash” della fine del IV secolo: “In qualunque luogo furono esiliati gli ebrei la Shekhinah andò con loro. Andarono in esilio in Egitto e là andò la Shekhinah… andarono esuli in Babilonia, ed essa andò con loro… furono in Edom ed essa era con loro… ma quando torneranno, la Shekhinah farà ritorno insieme a loro”[7]. Il Dio e Padre d’Israele è, dunque, tutt’altro che il Dio lontano che schiaccia l’uomo: è anzi il Dio di compassione e di tenerezza, che entra nella storia e la fa sua per operarvi le Sue meraviglie a favore degli uomini. Ecco perché l’incontro con questo Dio non si realizzerà mai fuggendo dalla storia, ma impegnandosi in essa: non l’eternizzazione del presente, ma lo storicizzarsi dell’Eterno è per la tradizione ebraico-cristiana la via della salvezza del mondo. Il Dio-con-noi, l’eterno Emanuele, Signore del tempo e della storia, è tale perché aiuta con la Sua grazia l’uomo a far lievitare il tempo verso l’eternità e a trasfigurare dall’interno la storia con l’anticipo della bellezza futura.

2. La “polis” greca e l’“invenzione” della politica

Nello scenario descritto, trova poco spazio l’agire politico: la mediazione - che di esso è l’anima - non è arte dei Profeti. Essi scelgono piuttosto la denuncia, la critica che scaturisce dalla “riserva escatologica” legata alla fede. L’“invenzione” della politica appartiene ad Atene, non a Gerusalemme: l’idea di una “teologia politica” appare estranea e paradossale a orecchie educate all’ascolto della Parola rivelata. Carl Schmitt, che introdusse questo concetto nel dibattito teologico-filosofico del Novecento, lo fece per veicolare la tesi della corrispondenza strumentale fra il potere politico e le rappresentazioni teologiche nella storia segnata dal credo cristiano[8]. La fede favorirebbe la gestione del potere mondano, perché proietterebbe in avanti, verso il futuro di Dio, la soddisfazione delle inevase esigenze di giustizia e di pace. Fede e potere si dividerebbero le sfide della storia: al potere l’esperienza, alla fede l’attesa. Contro le posizioni di Schmitt, Erik Peterson volle sostenere che ciò può essere vero del monoteismo, non della fede trinitaria[9]. Mentre il monotesimo aveva potuto servire come legittimazione teologica dell’unità dell’impero, la dottrina ortodossa della Trinità avrebbe invece minacciato seriamente quest’ultima. È quanto avrebbe spinto gli imperatori dalla parte degli ariani, teologi della corte bizantina. Solo la fede trinitaria avrebbe garantito la libertà critica rispetto al potere politico, fondando quella capacità di “critica sociale”, che sarebbe il vero apporto del cristianesimo alla ricerca del bene comune.

Pur riconoscendo il valore che questa tesi aveva in relazione all’ora in cui fu espressa, dominata dalla barbarie totalitaria, è innegabile che le cose siano più complesse: non è certo la critica dirompente che manca al monoteismo dei profeti, quanto piuttosto la fatica della mediazione, il senso della politica! La semplice deduzione di un atteggiamento politico dal monoteismo o dalla fede trinitaria non regge. Quel che bisogna riconoscere è che la politica come mediazione fra i diversi appetiti e le possibilità in gioco non nasce a Gerusalemme, ma ad Atene: il termine stesso ci riporta alla Grecia classica, e precisamente a quella città unica dove, per la prima volta, apparve la “democrazia”, il governo popolare della “polis”. È Eschilo a registrare questa genesi nella forma altissima della tragedia: “Il ‘nemico’ è promosso nella scena tragica al rango di protagonista e finge di parlare greco, ma proclama valori opposti a quelli su cui la Grecia sta definendo, per differenza appunto, il proprio profilo politico e culturale. Il numero e l’oro contrapposti alla povertà di risorse riscattata dalla virtù individuale e dalla responsabilità collettiva; l’atteggiamento di subordinazione dei sudditi di fronte a un sovrano assoluto che non deve rispondere a nessuno contrapposto al valore individuale e corale di un popolo che tale si riconosce in quanto è un popolo libero, composto di soggetti tenuti tutti, fino ai più alti ruoli del potere, a dare conto delle proprie scelte, a risponderne alla città e, nel caso, a pagarne il prezzo”[10].

Sta qui la forza di Atene contro i Persiani: è la “pólis”, segnata dai due grandi slarghi dell’“agorá” e del “teatro”, quella che si contrappone al monolitico palazzo del potere persiano. L’“agorá” è il luogo dei dialoghi, dei commerci e delle manifestazioni della volontà popolare; il “teatro” è lo spazio dove si può dare voce al controcanto dell’anima, a tutto ciò che suona come coscienza critica della prassi politica e dell’esercizio del potere. La “pólis” nasce dalla combinazione feconda della pubblica piazza e del teatro, perché quest’ultimo “non risolve, ma contiene e rappresenta i conflitti e le contraddizioni della polis. Nella città il teatro è il luogo in cui viene proiettata l’alta sfida del gioco politico e la tenace professione di fede nella necessità della rappresentazione sulla quale si fonda la greca e occidentale, fin dalle origini secolarizzata, téchne politiké”[11]. Nasce così la “politica”: il suffisso “ikòs” aggiunto a “politéia” - “polítes”, alle figure, cioè, del “cittadino” e della “cittadinanza”, sta a dire che non si fa politica senza il riferimento alla “città” e all’interesse di quanti la costituiscono. Dalle necessità della “pólis” è generata e misurata la mediazione politica; al servizio di essa deve porsi in un continuo, dialettico interscambio con la ricerca del “bene comune”.

Tutto questo non potrà realizzarsi se l’agire politico non saprà fare i conti con le altrui ragioni, e soprattutto con il riferimento al valore ultimo del bene comune e delle esigenze etiche che lo garantiscono. In democrazia la politica ha bisogno dell’etica, che ne misuri costantemente il potere umanizzante al servizio del bene di tutti e l’aiuti ad individuare le priorità e le vie giuste per realizzarle. È qui che la tradizione cristiana ha potuto inserirsi per portare il suo contributo alla politica: e lo ha fatto nella maniera più alta elaborando il concetto di “persona”. Nata nell’ambito del dibattito cristologico e trinitario dei primi secoli, in particolare all’interno del cosiddetto “episodio dogmatico” che sta fra il Concilio di Nicea (325) e quello di Costantinopoli (381), per giungere a maturità col Concilio di Calcedonia (451)[12], l’idea di persona diventa la chiave di volta della concezione teologica della politica, perché assomma in sé due campi in tensione reciproca, quello della singolarità e quello della relazione. Nella dialettica fra l’uno e l’altro, la persona viene a situarsi come soggetto assolutamente unico (esse in se), che può liberamente destinarsi all’altro, stabilendo rapporti di reciprocità solidale (esse ad). È nell’unità di queste relazioni, nella loro reciproca interazione, che la persona si offre come il soggetto libero e consapevole della propria storia, posto sulla frontiera fra esistenza storica e valore morale, in grado di saldare i due campi in un’unità sempre ricca di tensione.

3. Dio, la storia e la politica: l’“invenzione”cristiana della persona

Quanto l’“invenzione” cristiana della persona sia stata gravida di conseguenze per pensare e realizzare correttamente la mediazione politica, vorrei mostrarlo riferendomi ad un caso esemplare: quello della Costituzione della Repubblica Italiana, elaborata sotto la decisiva influenza del pensiero personalista d’ispirazione cristiana, soprattutto a partire dal cosiddetto Codice di Camaldoli, messo a punto durante una settimana di studio tenutasi nel luglio 1943 nel monastero di Camaldoli, presso Arezzo, cui avevano partecipato una cinquantina di giovani dell’Azione Cattolica e della FUCI. Una rapida verifica dei principi personalistici fatti propri dal dettato costituzionale consentirà di percepire come, nell’orizzonte del rapporto fra Dio e la storia proposto dalla rivelazione biblica, il cristianesimo abbia saputo maturare un’idea della mediazione politica tutt’altro che astratta, capace di sviluppare e arricchire il guadagno offerto da Atene al mondo con l’idea di democrazia e di politica, assumendo al contempo l’orizzonte profetico - escatologico offerto da Gerusalemme.

L’idea dell’essere in sé della persona (“esse in”) è alla base del principio della sua singolarità e della sua infinita dignità: “La persona non è un oggetto: essa anzi è proprio ciò che in ogni uomo non può essere trattato come un oggetto...” [13]. Il riconoscimento dell’assoluta originalità dell’essere personale è baluardo contro ogni possibile manipolazione degli esseri umani, garanzia del rispetto incondizionato dovuto a ciascuno. La Costituzione recepisce questo principio quando afferma che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo” (art. 2). L’uso del verbo “riconoscere” mostra come questi diritti siano considerati preesistenti rispetto alla loro configurazione giuridica, non creati dallo Stato, obbliganti anzi di fronte ad esso. Da una simile impostazione, frutto anche della reazione ai soprusi del totalitarismo, derivò l’esplicitazione del principio di uguaglianza, secondo cui tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni sociali e personali, sono uguali davanti alla legge (uguaglianza formale: art. 3, comma 1) e devono essere in grado di sviluppare pienamente la loro personalità sul piano economico, sociale e culturale (uguaglianza sostanziale: comma 2). L’importanza e l’attualità di queste conseguenze sono facilmente intuibili nel campo della tutela delle minoranze, dei lavoratori, delle donne, dei diversamente abili, ed oggi in modo speciale nel rispetto dovuto alla persona degli immigrati, quale che sia il loro stato giuridico di cittadinanza. Riconoscere e tutelare la dignità di ogni essere personale è il primo impegno cui chiama la nostra Costituzione, in questo eco fedele dell’idea che il cristianesimo offre alla mediazione politica riguardo all’assolutezza, singolarità e pari dignità di ogni uomo o donna davanti a Dio e alla storia.

L’idea dell’essere per sé e per altri della persona (“esse ad”) esprime il movimento di auto-determinazione e di finalizzazione che la caratterizza, e perciò il ruolo determinante che hanno la consapevolezza e la libertà nei suoi atti. Nel conoscere e nel decidersi la persona è responsabile verso se stessa, come verso gli altri. Sta qui il fondamento del principio di responsabilità, formulato da Kant come imperativo pratico in questi termini: “Agisci in modo da trattare l’umanità, così nella tua come nella persona di ogni altro, sempre insieme come fine, mai semplicemente come mezzo”[14]. La Costituzione recepisce questo principio anzitutto affermando il valore del pluralismo: pur se la Repubblica è dichiarata una ed indivisibile, è riconosciuto e tutelato il pluralismo delle formazioni sociali (art. 2), degli enti politici territoriali (art. 5), delle minoranze linguistiche (art. 6), delle confessioni religiose (art. 8), delle idee (art. 21), ecc. Il concetto di responsabilità è parimenti alla base del cosiddetto principio di laicità e di tolleranza, in forza del quale lo Stato e le comunità religiose sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani (art. 7) e tutte le confessioni sono egualmente libere davanti alla legge (art. 8). Il sapersi responsabili verso se stessi e verso altri fonda insomma l’esigenza del rispetto del diverso e del farsi carico - se occorre - del suo bisogno e della tutela dei suoi diritti. Nessun uomo è un isola e a nessuno è lecito disinteressarsi del bene comune. Nella comunione solidale dell’essere personale ciascuno si scopre responsabile di tutti ed insieme si avverte sostenuto dalla corresponsabilità altrui. Questo costitutivo essere relazionale della persona si esprime nel principio di solidarietà, accolto chiaramente nel dettato costituzionale: “La Repubblica… richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2, comma 2). Il valore della solidarietà si estende dalle persone ai gruppi, in primo luogo alla famiglia, fino alla grande comunità dei popoli e alla mondialità. In questa linea il principio di solidarietà esige un impegno prioritario a favore della pace: come viene sancito all’art. 11, la Repubblica ripudia la guerra e promuove gli organismi internazionali atti ad assicurare il mantenimento della pace e della giustizia fra le Nazioni.

I dinamismi della persona e della comunità delle persone, richiamati nella espressione che ad essi ha dato la Costituzione Italiana, si intersecano continuamente fra loro. Nell’unità dell’azione personale il soggetto al tempo stesso modifica la realtà esteriore, si forma, si avvicina agli altri ed arricchisce il proprio universo di valori. Agendo così, la persona si manifesta come l’essere della trascendenza, interiorità continuamente sfidata ed arricchita dall’incontro con gli altri, responsabile verso di sé e verso l’infinita dignità altrui. Tenere insieme questi aspetti è l’esigente dinamismo e il difficile equilibrio, cui deve tendere l’esistenza personale nella visione personalista e al cui servizio deve porsi la mediazione politica. Riappropriarsi continuamente di questi principi, promuoverne la piena realizzazione, è una sfida e un compito, perfino una vocazione, cui dedicarsi con l’impegno di tutta la vita: “Nel raccogliersi per ritrovarsi, nel dispiegarsi per arricchirsi e ancora ritrovarsi, nel raccogliersi di nuovo attraverso la liberazione dal possesso, la vita della persona - sistole e diastole - è la ricerca fino alla morte di una unità presentita, agognata e che mai si realizza... È necessario scoprire in sé, fra il cumulo delle distrazioni, anche il desiderio di cercare quest’unità vivente; ascoltare a lungo le suggestioni ch’essa ci sussurra, avvertirla nella fatica e nell’oscurità senza mai essere certi di possederla. Tutto ciò assomiglia piuttosto a un richiamo silenzioso, in una lingua che richiederebbe tutta la nostra vita per essere tradotta: per questo il termine di vocazione gli conviene meglio di qualunque altro” [15]. Corrispondere a una tale vocazione rende la mediazione politica tanto esigente, quanto necessaria e preziosa: una sfida verso cui tenersi sempre pronti, una forma di carità alta, in cui si prepara l’avvenire di tutti. Sta qui l’accoglienza autentica del grande apporto delle radici cristiane alla convivenza civile, in forza del quale Dio, storia e politica non sono estranei l’uno all’altro, ma si relazionano nella costruzione di un’umanità più vera, buona e felice per tutti. Un apporto che ha dato frutti straordinari nella ricostruzione post-bellica del Paese e di cui mi sembra ci sia urgente bisogno anche di fronte alla crisi in atto del gioco delle maschere di molto attuale agire politico. La storia e la politica nell’orizzonte dell’accoglienza di Dio non sono meno, ma più umane, non meno, ma più giuste e realizzanti per tutti. Anche così Dio è vivo nell’oggi, e con Lui o senza di Lui cambia tutto!

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1 H. Küng, Essere cristiani, Mondadori, Milano 1976, 338.

2 A.J. Heschel, L’uomo non è solo, Rusconi, Milano 1970, 135.

3 Cf. L. Ginzberg, Le leggende degli Ebrei - I: Dalla creazione al diluvio, a cura di E. Loewenthal, Adelphi, Milano 1995, 27s.

4 Cf. C. Vigée, Dans le silence de l’Aleph. Ecriture et Rèvèlation, Éditions Albin Michel, Paris 1992 (tr. it. Alle porte del silenzio. Scrittura e Rivelazione nella tradizione ebraica, Paoline, Milano 2003).

5 Cf. M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Borla, Roma 1968.

6 Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, n. 22.

7 Mekilta de-rabbi Yishma’e’l, Pisha 14.99-107, citato in G. Busi, Simboli del pensiero ebraico, Einaudi, Torino1999, 345

8 Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 1972, 27-86 (la prima edizione tedesca è del 1922).

9 Il monoteismo come problema politico, Queriniana, Brescia 1983 (la prima edizione tedesca è del 1935).

10 M. Centanni, Introduzione all’edizione delle opere di Eschilo da lei curata per i Meridiani Mondatori, Milano 2003, XIII.

11 Ib., XXX.

12 Sulla storia del concetto di persona cf. A. Milano, Persona in teologia. Alle origini del significato di persona nel cristianesimo antico, Dehoniane, Napoli 1984.

13 E. Mounier, Il personalismo, AVE, Roma 1964,11s (l’originale francese è del 1949).

14 E. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Laterza, Roma-Bari 2002, 91.

15 E. Mounier, Il personalismo, o.c., 68.