ROMA, sabato, 12 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo sabato da mons. Rino Fisichella, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita e Rettore della Pontificia Università Lateranense, a conclusione del convegno “Dio oggi: con lui o senza di lui cambia tutto”, organizzato a Roma dal Comitato per il Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana.
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Scrive il Libro del Siracide: “Quando uno ha finito, allora comincia” (Sir 18,6). E’ proprio così. Concludere queste giornate ricche di provocazioni su diversi fronti dalla cultura alla fede, equivale ad iniziare a riflettere con maggior intensità sui contenuti che sono stati partecipati. Nella lectio conclusiva del suo insegnamento nel 1993, l’ideatore della “teologia politica”, J. B. Metz, diceva: “La crisi che ha colpito il cristianesimo europeo non è più primariamente o almeno esclusivamente una crisi ecclesiale… La crisi è più profonda: essa non ha affatto le sue radici solo nella situazione della Chiesa stessa: la crisi è divenuta una crisi di Dio. Schematicamente si potrebbe dire: religione sì, Dio no; dove questo no a sua volta non è inteso nel senso categorico dei grandi ateismi. Non esistono più grandi ateismi. L’ateismo di oggi può in realtà già di nuovo riprendere a parlare di Dio –distrattamente o tranquillamente- senza intenderlo veramente” [1]. In una parola, si ammette che la crisi odierna è determinata dal potere e sapere parlare di Dio; la cosa non può lasciare neutrali soprattutto a oltre quarant’anni dal Vaticano II che aveva tra i suoi scopi quello di parlare di Dio all’uomo di oggi in modo comprensibile. La crisi che viviamo, comunque, si potrebbe riassumere in maniera ancora più sintetica: Dio oggi non è negato, è sconosciuto. Probabilmente, all’interno di quest’espressione c’è qualcosa di vero circa il modo di porsi del nostro contemporaneo dinnanzi alla problematica che ruota intorno al nome di “Dio”. Per alcuni versi, si potrebbe dire che si è passati dal “Dio: un’ipotesi inutile” di venerata memoria, al “Dio: la possibilità buona per l’uomo” di G. Vattimo nell’ultima pubblicazione di alcune settimane fa su questo tematica [2].
Questi giorni hanno permesso di riflettere, di vedere, di ascoltare e discutere sul tema “Dio” in riferimento ai diversi segmenti in cui la cultura si organizza: dalla filosofia alla teologia; dalla scienza al cinema, dalla bellezza delle arti alla letteratura; insomma, un tour de force che ha mostrato le metamorfosi della cultura contemporanea e la stabilità dell’opera d’arte che non conosce trascorrere del tempo… In una parola, potremmo affermare che si è gettato un sasso nello stagno su due fronti: quello dell’indifferenza, che spesso domina il contesto culturale su questa problematica, e quello dell’ovvietà che evidenzia quanta ignoranza domini spesso sovrana sui contenuti religiosi. Indifferenza e ovvietà, purtroppo, rodono alla base quel comune senso religioso che è ancora presente nel nostro Paese, rendendo sempre più debole la domanda religiosa e, soprattutto, la sua scelta consapevole e libera. Avere provocato un’ampia riflessione su questo tema è un servizio che si rende alle giovani generazioni più che a quanti vi hanno partecipato. Noi adulti, alla fine, siamo qui convenuti avendo un’idea chiara della fede in Dio o della sua negazione; probabilmente, l’intensità delle giornate ha permesso che qualche conoscenza ulteriore si sia aggiunta a quanto già possedevamo. Il problema, però, resta per le generazioni che seguiranno, a cui dobbiamo trasmettere con responsabilità non solo le certezze che abbiamo conquistato, ma anche il tentativo di dissolvere i dubbi che ci accompagnano per permettere che si fomenti una cultura che sappia ancora domandare, ricercare e giungere a soluzioni originali capaci di rispondere allo spirito del tempo.
Ritorna immediata, per poter compiere una sintesi di quanto è stato detto in questi giorni, la scena familiare di Paolo per le vie di Atene (At 17,16-34). Non è cambiato molto da allora. Le strade delle nostre città –sempre più monotone per la ripetitività dei modelli offerti dall’appiattimento urbanistico di questi decenni, da dove sembra scomparsa ogni forma di nuova bellezza- sono cariche di nuovi idoli. L’interesse verso un generico senso religioso –venuto meno nei decessi passati- sembra voler riprendersi una sorta di rivincita in un mondo che mostra ancora la via della secolarizzazione, anche se non è più così chiara ed evidente la strada che vuole seguire, come ha mostrato la relazione del card. Angelo Scola. Espressioni religiose si moltiplicano, spesso prive di spessore razionale per dare maggior spazio all’emotività, mentre nuovi messia dell’ultima ora appaiono di nuovo all’orizzonte, predicando l’imminente fine del mondo. E’ necessario chiedersi chi sono i nuovi Paolo di Tarso coscienti di essere portatori di una bella notizia che entra nell’areopago del nostro piccolo mondo con la convinzione e la certezza di voler annunciare lo Θεός άγνωστος.
“Dio”: il termine è tra i più usati nel linguaggio mondiale e, tuttavia, quanti sensi diversi, differenti e, a volte, contrastanti tra di loro fino ad opporsi. Ci siamo chiesti ripetutamente an sit Deus –se Dio esiste- e quid Deus sit –cosa o chi è Dio. Domande inevitabili che non possono rimanere senza risposta; anzi, diventano ancora più necessarie dopo la provocazione che proviene dalla filosofia del linguaggio di Ludwig Wittgenstein. I credenti non possono permettere né che “Dio” rimanga un termine privo di senso –data l’impossibilità della verifica sperimentale- né che rimanga confinato in un altrettanto aprioristico Sprachspiel comprensibile solo ai pochi addetti che utilizzano la stessa grammatica. Se “Dio” ha un valore allora questo deve essere universale e, pertanto, deve essere reso accessibile per tutti con un linguaggio che nessuno esclude.
Da questa prospettiva, le giornate trascorse portano a comporre un percorso di cui sono rintracciabili alcune tappe. Un primo passaggio necessario da compiere si realizza a livello epistemologico. Si tratta di comprendere, infatti, il valore della conoscenza e di quale conoscenza sia necessaria per giungere a pronunciare con sensatezza il termine “Dio”. Il tentativo di ritrovare nuove strade per evidenziare la ragionevolezza del nostro procedere è stato più volte ribadito. Gli interventi del Card. Camillo Ruini e del prof. Robert Spaemann, nella loro complementarità, portano a questa indicazione sostanziale. In qualche modo, cercavano di rispondere in termini moderni a quanto s. Agostino scriveva nel suo La fede nelle cose che non si vedono: “Vi sono alcuni i quali ritengono che la religione cristiana debba essere derisa piuttosto che accettata, perché in essa, anziché mostrare cose che si vedono, si comanda agli uomini la fede in cose che non si vedono. Dunque, per confutare coloro ai quali sembra prudente rifiutarsi di credere ciò che non possono vedere, noi, benché non siamo in grado di mostrare a occhi umani le realtà divine che crediamo, tuttavia dimostriamo alle menti umane che si devono credere anche quelle cose che non si vedono” [3].
Eppure, è necessario che proprio a livello epistemologico si faccia uno sforzo ulteriore per individuare il valore conoscitivo che la rivelazione possiede. La fede che pronuncia il termine “Dio” non è all’origine della problematica –come qualcuno ancora sostiene [4]- ma è istanza seconda, come forma conoscitiva corrispondente per accedere in modo coerente alla conoscenza propria della rivelazione. Il duplex ordo cognitionis, di cui si fece interprete il Vaticano I, possiede ancora oggi una sua valenza epistemologica non secondaria per il nostro discorso. Se si giunge ad ammettere l’esistenza di Dio come realtà personale altro dall’uomo, allora si deve pure ammettere inevitabilmente la sua libertà nell’esprim
ere se stesso secondo le forme che ritiene utili per la conoscenza della propria esistenza e della propria natura. Questa lettura non rappresenta primariamente una dimensione “teologica” –come potrebbe essere contestata a prima vista- essa possiede una prima giustificazione nell’ordine epistemologico. La filosofia, anzitutto, è chiamata a sviscerare il l’atto stesso della rivelazione (ipsa revelatio) come evento che accade nella storia, prima ancora dei contenuti che vengono rivelati. Il tentativo di Friedrich Schelling, d’altronde, manifesta proprio in questo settore tutta la sua pregnanza; la Philosophie der Offenbarung, infatti, è solo un esempio di quanto la filosofia possa e debba prendere in considerazione nella sua epistemologia la problematica circa la forma conoscitiva peculiare che proviene dalla rivelazione. Nel parlare di Dio, insomma, e nel dover trovare i differenti sentieri che sono utili per approdare a una risposta di senso circa la ragionevolezza del suo an sit et quid sit, non può essere emarginata la categoria di “rivelazione”.
Un secondo elemento è stato offerto. Esso si pone nell’orizzonte della nuova cosmologia che costituisce a pieno titolo una sfida nella tematizzazione della problematica intorno a “Dio”. Le indicazioni che sono provenute soprattutto da George Coyne, Martin Nowak e Peter van Inwagen provocano a riflettere sulla nuova identità cosmica che si sta venendo a delineare in questi decenni di grandi scoperte scientifiche e che daranno ancora più sorprese nei prossimi anni, quando saranno messe a punto le nuove tecnologie. Basti pensare, oggi, ai tentativi che si stanno svolgendo circa la possibilità di produrre in big ban (prof. Rubbia), oppure i risultati che provengono dal satellite Plunck (prof. Bersanelli) in grado di spingersi fino all’estremo dell’universo per carpirne i segreti, per comprendere quante domande si pongono su questo terreno nel momento in cui si affronta la problematica di “Dio” in riferimento alla cosmologia. Proprio nell’anno dell’astronomia, nel quarto centenario della scoperta del cannocchiale da parte di Galileo è necessario accogliere la sfida che si pone su questo terreno. Non si dimentichi, d’altronde, che le nuove generazioni fin dai primi anni di scuola iniziano a confrontarsi con queste problematiche scientifiche e la mentalità che viene acquisita richiede una risposta corrispondente nell’ambito della fede. Insomma, la “via cosmologica” che sembrava ormai superata da quella antropologica, ritorna con maggior intensità e con provocazioni ancora più forti [5].
Da questa prospettiva, comunque, dovremmo chiederci: quale relazionalità intercorre tra cosmologia e antropologia; la questione di “Dio”, infatti, appartiene a questa relazione e crea un tertium con cui è necessario confrontarsi. Il principio geocentrico di un tempo ha ceduto il passo; da un mondo chiuso e confinato si passa ora ad un universo infinito che, progressivamente, non permette più neppure di concepire un centro. L’uomo scopre che il cosmo evolve, procede sempre oltre, ha una sua storia e delle sue leggi proprie che ne determinano il movimento, il divenire e il venir meno. Questa prospettiva condiziona non solo la sua esistenza, ma anche quella del cosmo che lo circonda. Non è questa la sede per inoltrarsi nella selva interpretativa delle differenti teorie sorte a riguardo. Il principio cosmologico o quello antropico rimangono tentativi che nel corso dei decenni manifestano l’interesse per la materia e troveranno nel futuro altre evoluzioni in grado di dare voce all’intelligenza degli scienziati e dei filosofi. Al di là di questo, comunque, rimane pur sempre una questione fondamentale: esiste una reciproca determinazione tra cosmologia, antropologia e teologia? La concezione che l’uomo ha di sé si trasmette inevitabilmente sul cosmo? Ed è possibile che quanto il cosmo esprime determini la visione che l’uomo acquisisce di se stesso? Dio è all’origine o del tutto fuori gioco? Questi interrogativi non sono facilmente risolvibili rimanendo all’interno di una sola scienza. Mai come in casi simili si sente forte l’esigenza di una azione interdisciplinare che si faccia forte delle diverse competenze per raggiungere una visione d’insieme in grado di giungere a una risposta carica di senso. L’intelligibilità che si scopre nel reale –e che, non si dimentichi, è stato il presupposto esplicito dei primi artefici dell’osservazione della natura- è una proprietà insita e propria della natura oppure è una proiezione mentale del soggetto? Esiste un linguaggio oggettivo nel cosmo che io posso cogliere, perché ne porto in me gli elementi che mi permettono di costruirlo e leggerlo, oppure è tutto semplicemente una creazione arbitraria benché convenzionale a cui ci si adegua? Nella modernità l’uomo pensava che la natura non solo doveva essere rispettata, ma ad essa e alla sue leggi era necessario adeguare l’esistenza personale; oggi, al contrario, non ci si considera più ospiti del grande complesso cosmico, ma suoi architetti. Ora è l’uomo a dettare le regole e a stabilire i parametri entro cui comprendere il reale e darne spiegazione. Poiché diventiamo nuovi demiurghi non possiamo sottostare a leggi e linguaggi che non siano stati prioritariamente formulati e creati da noi. Sembra che non siamo più tenuti neppure a giustificare il nostro comportamento dopo che abbiamo delineato e progettato a tavolino, o in laboratorio, il nostro destino biologico e il resto della natura. Come si nota, la via cosmologica –pur interpretata in maniera moderna- apre certamente nuovi orizzonti per la scoperta di Dio. Benedetto XVI ha dato una sua ultima lettura proprio nei giorni scorsi quando ha scritto: “Anche oggi l’universo continua a suscitare interrogativi a cui la semplice osservazione non riesce a dare una risposta soddisfacente: le sole scienze naturali e fisiche non bastano. L’analisi dei fenomeni, infatti, se rimane rinchiusa in se stessa rischia di far apparire il cosmo come un enigma insolubile: la materia possiede un’intelligibilità in grado di parlare all’intelligenza dell’uomo e indicare una strada che va al di là del semplice fenomeno. E’ proprio la lezione di Galileo che conduce a questa considerazione. Non era, forse, lo scienziato di Pisa a sostenere che Dio ha scritto il libro della natura nella forma del linguaggio matematico? Eppure, la matematica è un’invenzione dello spirito umano per comprendere il creato. Ma, se la natura è realmente strutturata con un linguaggio matematico e la matematica inventata dall’uomo può giungere a comprenderlo ciò significa che qualcosa di straordinario si è verificato: la struttura oggettiva dell’universo e la struttura intellettuale del soggetto umano coincidono, la ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura sono identiche. Alla fine, è “una” ragione che le collega entrambe e che invita a guardare ad un’unica Intelligenza creatrice… Più la conoscenza della complessità del cosmo aumenta, maggiormente richiede una pluralità di strumenti in grado di poterla soddisfare; nessun conflitto all’orizzonte tra le varie conoscenze scientifiche e quelle filosofiche e teologiche; al contrario, solo nella misura in cui riusciranno ad entrare in dialogo e scambiarsi le rispettive competenze saranno in grado di presentare agli uomini di oggi dei risultati veramente efficaci” [6].
Una terza pista di riflessione è stata offerta dalla via pulchritudinis. Emarginare questo tentativo sarebbe ingiusto e pericoloso. Il pulchrum è una costante sfida posta nel sentiero della storia e molti si imbattono con questa categoria. Tutti siamo consapevoli del rapporto tra bellezza e discorso su “Dio”. L’arte, la letteratura, la musica… scomparirebbero per i quattro quinti se Dio non esistesse. L’arte sarebbe solo frutto di fantasia senza rapporto con il reale, applicazione di linee senza un “perché” di senso. La letteratura e la musica sarebbero ridotti a versi e note dettate dal sentimento passeggero senza un aggancio con la solidità della persona a cui poterli indirizzare.
La via della bellezza si impone perché apre alla conoscenza mediante la contemplazione, che per dirla con s. Tommaso est actus intellectus! Non è una via alternativa per parlare di Dio e per cercare di comprenderlo, al contrario. Come hanno mostrato soprattutto gli interventi di Roger Scruton con il recupero della “via positiva della bellezza” e di S. E. Mons. Gianfranco Ravasi, l’arte permane come la “narrazione visiva dell’esperienza dell’incontro con un volto”. Riscoprire il tema del volto è quanto di più fondamentale il cristianesimo possegga. Non è stato facile per noi arrivare a questo punto, ma il mistero di Dio che si fa uomo obbliga a seguire questo percorso. Il mistero dell’incarnazione apre la strada per comprendere un Dio che non permane relegato nella sua trascendenza, ma rinuncia all’onore che gli è dovuto per farsi uomo con gli uomini ed insegnare loro la strada per entrare in comunione di vita con lui. Qui si rende evidente la differenza tra le religioni e le stesse religioni monoteiste; il Dio di Gesù Cristo, infatti, non indica più il percorso che parte dall’uomo per raggiungere Dio; mostra, invece, che Dio va incontro all’uomo e lo raggiunge fino a condividerne la natura. In questo spazio la bellezza trova altre forme con cui esprimersi, perché al volto che viene rivelato possano essere offerte le condizioni per dare risposta di senso a ciò che l’uomo stesso vive: la sofferenza, la gioia, la gloria, il dolore, il tradimento e perfino gli stadi della vita… tutto viene rappresentato per introdurre a Dio e per spiegare l’uomo all’uomo.
Un quarto elemento per parlare di “Dio” è stato offerto dall’analisi sulle religioni e il monoteismo nei contributi dei proff. Rémi Brague e Massimo Cacciari. Probabilmente, all’interno di questo discorso si dovrebbe aprire un’ulteriore riflessione circa l’azione liturgica a cui, purtroppo, si è dato poco spazio nel nostro riflettere di questi giorni. La storia delle religioni viene in aiuto, perché evidenzia come sia un fatto comune, verificabile fin dai primordi dell’antropologia culturale, la capacità dell’uomo di creare luoghi e tempi dedicati al sacro per permettere di creare una relazione con “Dio”. L’azione liturgica, il rito sono forme espressive e linguaggi con cui è necessario confrontarsi nel nostro parlare di “Dio”; illusorio pensare di emarginare questa dimensione. Equivarrebbe a eliminare tutto il tema del linguaggio dei segni e dell’evocazione per accedere all’interno di un mondo che non trova altra risorsa per esprimersi se non quella del rito. L’analisi di questa componente mostrerebbe che si apre il passaggio per verificare quale relazionalità intercorre tra “Dio” e l’uomo senza cadere in forme di alienazione o psicosi. Il rito conferisce alla conoscenza di “Dio” uno spazio di comunicazione che ingloba l’intera realtà creata e l’uomo in essa. L’azione liturgica consente di verificare che “Dio” non permane come un’illusione creata dalla mente dell’uomo, ma una realtà con cui riferirsi in maniera oggettiva nel susseguirsi dei tempi e degli spazi che assumono valore sacro. Se le religioni hanno fatto del rito un elemento determinante ciò implica che possiede un effetto essenziale e costitutivo nel discorso su “Dio”, per cui la cultura contemporanea non può né deve allontanarsi.
Una quinta pista di riflessione la vogliamo mediare dall’assioma anselmiano: rationabiliter comprehendis incomprehensibile esse. In una parola, è necessario pronunciare l’ultimo il termine che sta sempre all’inizio del pensare, non solo teologico, e che tutto determina: mistero. Si comprehendis non est Deus diceva giustamente Agostino; su questa lunghezza d’onda si è mossa sempre, anche se con accentuazioni diverse, la tradizione cristiana dell’oriente e dell’occidente. Se Novaziano poteva scrivere nel suo De Trinitate: “A riguardo di Dio, di ciò che gli appartiene e abita in lui, lo spirito dell’uomo non può pensare convenientemente ciò che è; quale grandezza hanno le sue perfezioni e qual è la loro natura, né l’eloquenza del discorso umano può sviluppare una potenza di parola corrispondente alla sua maestà… Dio è colui a cui appartiene di non poter essere confrontato con nulla” [7]. Secoli più tardi nel suo Proslogion Anselmo, pur con altre parole, riproponeva lo stesso concetto: “Signore mio Dio, insegna al mio cuore dove e come cercarti, dove e come trovarti… Che cosa farà, o altissimo Signore, questo esule che è così distante da te, ma che a te appartiene?… Anela a vederti e il tuo volto gli è troppo discosto. Desidera avvicinarti e la tua abitazione è inaccessibile. Brama trovarti e non conosce la tua dimora. Si impegna a cercarti e non conosce il tuo volto” [8]. La visione dei Padri è sempre segnata dall’idea dell’incomprensibità di Dio. Il Crisostomo poteva perfino affermare che colui che conosce l’incomprensibilità di Dio comprende anche chi non la conosce. Lo stesso pensiero si ripropone con Abelardo, Tommaso, Maestro Eckhart, il Cusano… fino ai nostri giorni, soprattutto nella teologia di von Balthasar. In questo, se si vuole, si raccoglie tutta la differenza tra lo Θεός άγνωστος e lo θεός ακαταλήπτος; tra il mondo che non conosce “Dio” e quello che ne vede l’incomprensibilità. Il mysterion non è la conclusione del nostro discorso per l’impossibilità di trovare razionalmente una risposta alla questio de Deo; è piuttosto l’origine da cui la ragione parte, provocata dallo stupore e dalla meraviglia che esso produce. La ragione è chiamata a compiere per intero, oltre ogni suo sforzo, il percorso che le si pone dinanzi; alla fine, però, deve comprendere che Dio è incomprensibile. Questo non la umilia né indebolisce, ma la rafforza nel continuare ininterrottamente a domandare fino al momento in cui troverà le ragioni per abbandonarsi pienamente in lui come ultima e definitiva risposta alla domanda di senso.
Nel mistero dell’enigmaticità della propria esistenza personale, del cosmo e di quanto ci circonda deve sorgere l’interrogativo che tocca il senso e il significato dell’esistenza. Ricorrere, mitologicamente, al “fato” –come molti oggi sono tentati di fare- potrebbe essere una scappatoia facile e già utilizzata nel passato, ma si verrebbe a compromettere il valore della libertà personale che è quanto di più geloso ognuno dovrebbe conservare. In questo richiamo ultimo e radicale alla libertà nel suo rapporto con la verità si esprime anche l’originalità del cristianesimo. Niente come la fede nel Dio che si fa uomo provoca la libertà ad assumere in prima persona il principio di responsabilità. Il Dio che ama come Gesù è il Dio responsabile del fratello che non rimane nella solitudine della morte. Senza Dio viene meno la possibilità dell’autocomprensione, dell’esercizio della libertà e della responsabilità sociale. Dunque, è proprio vero: con lui o senza di lui cambia tutto.
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1) In R. Fisichella (ed.), Il Concilio Vaticano II, Cinisello B. 2000, 67.
2) G. Giorgio (ed.), Dio: la possibilità buona, Rubettino 2009, 20.
3) Agostino, De fide rerum quae non videntur, I,1.
4) E’, di fatto, l’obiezione mossa spesso da E. Severino ai cattolici.
5) E’ sufficiente riprendere tra le mani il testo di H. U. von Balthasar, Die Gottesfrage des heutigen Menschen, Wien 1957, per verificare il passaggio su questa problematica.
6) Messaggio del Santo Padre Benedetto XVI all’Arcivescovo Rino Fisichella, Rettore della Pontificia Università Lateranense, in occasione del Convegno sul tema: “Dal telescopio di Galileo alla cosmologia evolutiva. Scienza, filosofia e teologia in dialogo”, 26 novembre 2009.
7) De Trinitate liber, PL III, 889.890.
8) Anselmo, Proslogion, I.