Civiltà dell’amore: una provocazione salutare…

ROMA, sabato, 12 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato il 9 dicembre scorso dal Cardinale Stanisław Ryłko, Presidente del Pontificio Consiglio per i Laici, in occasione della presentazione del libro di Carl Anderson “Una civiltà dell’amore. Ciò che ogni cattolico può fare per trasformare il mondo”, tenutasi a Roma presso la sede della Radio Vaticana.

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1. A parlare di “civiltà dell’amore” oggi, in un mondo che ne appare l’esatto contrario, si rischia di essere provocatori. L’uomo postmoderno ha smarrito valori fondamentali dell’esistenza umana e, soprattutto, ha svuotato del suo reale significato il concetto di amore. Ai nostri giorni, perfino negli ambienti cristiani manca spesso il coraggio di andare controcorrente rispetto alla cultura dominante, scommettendo davvero sull’amore, come ci insegna il Vangelo. E anche tra i battezzati guadagna terreno quel falso realismo che fa dire: “Sì, l’idea è bella, ma la vita è un’altra cosa ed è governata da altre leggi, che ben poco hanno a che vedere con l’amore”. Ma è proprio così? È proprio vero che la civiltà dell’amore sia un’utopia?

Nonostante queste e altre resistenze, il magistero dei Papi degli ultimi decenni – da Paolo VI a Giovanni Paolo II, a Benedetto XVI oggi – è accomunato dall’insistenza con la quale essi additano la civiltà dell’amore come traguardo irrinunciabile per l’umanità intera, e per noi cristiani in particolare. Perché? Il libro di Carl Anderson A civilization of Love, pubblicato ora in italiano dalla Libreria Editrice Vaticana, cerca di dare risposta proprio a questo interrogativo. E così ci fa riscoprire l’impegno per l’edificazione della “civiltà dell’amore” come qualcosa di costitutivo della nostra stessa identità di persone e specialmente di cristiani. Non a caso l’Autore parte proprio dalla domanda “Chi siamo?”, “Chi stiamo diventando?”. La civiltà dell’amore non è un’utopia, ma una realtà da edificare, un concreto progetto di vita personale e sociale che tocca tutte le dimensioni dell’esistenza: la dignità della persona umana, i suoi diritti inalienabili – primo fra tutti il diritto alla vita –, il matrimonio e la famiglia, il lavoro, la piaga della povertà, e perfino la globalizzazione, l’impresa, la finanza. Quello sulla civiltà dell’amore non è dunque un discorso riducibile, come purtroppo accade spesso, a un moralismo o a un sentimentalismo superficiale. Al contrario, introduce nel cuore stesso del nostro essere cristiani.

La lettura del libro di Anderson è impegnativa. Interpella la coscienza, provoca a fare una seria revisione di vita, sfida ad abbandonare la comoda nicchia di un cristianesimo tranquillo e soddisfatto di sé per scendere in campo e operare scelte concrete. Al centro sta, insomma, la questione di che cosa significhi essere cristiani autentici e impegnati nella realtà del nostro tempo (cfr p. 228).

Scrive l’Autore che il suo libro è una chiamata a mettere in moto la speranza (p. 22). Ed è fuori dubbio che ogni discepolo di Cristo possa fare davvero qualcosa per trasformare il mondo, per tradurre in realtà un traguardo affascinante. È un messaggio importante, questo, soprattutto per la nostra vecchia Europa dove Dio viene sempre più spesso estromesso dalla vita pubblica e la fede sempre più confinata tra le questioni strettamente private, dove i cristiani sono sempre più invisibili e dove – come dice Benedetto XVI – si va diffondendo un «cristianesimo stanco», scoraggiato, affetto da un sentimento di impotenza di fronte ai mali che affliggono il mondo. Una notazione interessante a questo proposito si deve a Vittorio Messori che, qualche anno fa, in una conferenza tenuta ai partecipanti a un’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per i Laici, osservava che il vero problema dei cristiani oggi non è tanto il fatto di essere statisticamente minoritari nel mondo, quanto il fatto di essere insignificanti: un sale che ha perso sapore, un lievito che non fermenta più. Perché il sale è minoritario, ma dà sapore; il lievito è minoritario, ma fa fermentare la pasta… Il libro di Carl Anderson punta proprio a destare i fedeli laici dal torpore dell’indifferenza, a fargli scuotere di dosso il senso d’impotenza che li frena per portarli a riscoprire che cosa significhi di fatto la loro vocazione profetica nel cuore del mondo. Il laico è chiamato a riflettere e proiettare l’amore di Cristo, scrive Anderson (cfr. 97). E aggiunge: «Se nel battesimo siamo diventati membri del Corpo di Cristo, e se Cristo in questo mondo non ha mani se non le nostre, come possiamo tenere le nostre mani in tasca?» (p. 97). Parole suggestive quanto concrete che riecheggiano l’appello della Christifideles laici: «Situazioni nuove, sia ecclesiali, sia sociali, economiche, politiche e culturali, reclamano oggi con forza del tutto particolare l’azione dei fedeli laici. Se il disimpegno è sempre stato inaccettabile, il tempo presente lo rende ancora più colpevole. Non è lecito a nessuno rimanere in ozio» (n. 3).

2. Carl Anderson fonda il suo discorso sulla civiltà dell’amore sulle solide basi del magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, del cui pensiero in proposito mi piace ricordare alcuni punti chiave. Papa Wojtyła scriveva che «l’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente» (, n. 10). E, ancora, che «l’amore è […] la fondamentale e nativa vocazione di ogni essere umano» (Familiaris consortio, n. 11). Dal canto suo, Benedetto XVI nell’ultima enciclica ribadisce che «la carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera» (Caritas in veritate, n. 1) e, più avanti, che «la carità è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa […] Essa dà vera sostanza alla relazione personale con Dio e con il prossimo; è il principio non solo delle micro-relazioni: rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo, ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici» (Ibid., n. 2). È proprio poggiandosi su questo luminoso insegnamento che l’Autore scrive che «la struttura dell’esistenza umana è amore. Essa ci è stata consegnata nella creazione da Dio che è amore […] È l’amore che dà forma e vita all’universo intero» (p. 71). Perciò – parafrasando la formula di Cartesio cogito ergo sum –, egli può affermare: “Amo, perciò, sono” o meglio “Dio mi ha amato per primo, perciò io sono” (cfr p.72). Per noi cristiani, aggiunge, «c’è un solo punto di riferimento costante, e quel punto di riferimento è l’amore di Dio incarnato nella persona di Gesù Cristo. È la misura con cui tutte le cose possono essere giudicate e collocate nella giusta prospettiva» (p.109). E sottolinea che «questo amore non è una forma di elevato sentimentalismo, ma genuina compassione temprata da un fondato realismo» (p. 238).

La civiltà dell’amore – nota l’Autore – è indissolubilmente legata alla cultura della vita. Per questa ragione ai cristiani laici si prospettano due grandi compiti: «costruire una cultura della vita che rispetti la santità e la dignità di ogni essere umano, ed esprimere l’amore cristiano attraverso gesti di carità [poiché] il cristianesimo non può essere ridotto a un sistema morale, filosofico o politico. Ma quello che è essenziale e fondamentale, è un approccio personale ai problemi della società basato sulla potenza trasformatrice di Gesù Cristo» (p. 234). Solo così possono essere salvaguardate le condizioni morali di un’autentica «ecologia umana» (Giovanni Paolo II) e solo così può crescere un «nuovo umanesimo cristiano» (Paolo VI). Nel contesto di una “nuova cultura del sospetto” che rifiuta il principio dell’amore come cardine dell’esistenza umana individuale e sociale (cfr p. 64), i fedeli laici sono chiamati a osare ciò che agli occhi del mondo sembra impossibile, se non addirittura assurd
o – l’arte dell’impossibile –, scommettendo sulla civiltà dell’amore e sulla cultura della vita (cfr p. 167). E qui una grande responsabilità pesa sui cattolici impegnati in politica, ai quali l’Autore muove un duro rimprovero: «Anche se da più di trent’anni (in America!) si dicono contrari all’aborto, non riescono a manifestare apertamente le loro convinzioni» (p. 197) laddove – ribadisce Anderson rifacendosi all’insegnamento di Giovanni Paolo II –, «la missione dei cattolici è quella di lavorare per la conversione della cultura» (p. 202).

3. Vorrei, infine, mettere in luce un altro tratto del libro di Carl Anderson che mi sembra particolarmente significativo, ed è che esso non nasce a tavolino. Scaturisce bensì dall’esperienza di fede del grande popolo dei Cavalieri di Colombo e ne è una testimonianza autorevole, essendo l’Autore Cavaliere Supremo di questa benemerita Fondazione. Leggendo questo libro, dunque, è bene aver presente che dietro le sue pagine c’è la vita di schiere di uomini cattolici che nella loro esistenza hanno deciso di scommettere concretamente sull’amore.

I Cavalieri di Colombo sono nati nel lontano 1881 per iniziativa di padre Michael J. McGivney, parroco a New Haven nel Connecticut, del quale è attualmente in corso il processo di beatificazione. Durante la loro lunga storia essi «hanno sviluppato in modo particolare un approccio alla carità, centrato sulla famiglia e fondato sui valori cristiani dell’unità e della fratellanza» (p. 236). E malgrado il passare del tempo il loro carisma sorgivo conserva intatta la sua grande forza attrattiva. Secondo i dati forniti dall’Autore, nel 2006 l’associazione contava circa un milione e 700 mila aderenti presenti in molti Paesi del mondo, che hanno contribuito alla realizzazione di opere caritative del valore di circa 143 milioni di dollari e prestato oltre 64 milioni di ore di volontariato (p. 173). Una prova tangibile che la civiltà dell’amore è possibile, che trasformare il mondo è possibile. E ciò, partendo proprio da piccoli gesti di carità nei confronti del nostro prossimo.

Oggi, la sfida più grande per la Chiesa è proprio quella di una presenza veramente incisiva dei cristiani nel mondo. La storia dei Cavalieri di Colombo dimostra che per attuarla i cristiani devono imparare a lavorare in rete e a sfruttare tutte le sinergie possibili tra gli uomini di buona volontà. In tal senso, molto possono le aggregazioni laicali, sia quelle di lunga tradizione – come, appunto, Cavalieri di Colombo –, sia quelle più recenti, come i movimenti ecclesiali e le nuove comunità, che sono veri e propri laboratori della fede, luoghi indispensabili di formazione dei battezzati ai quali fanno riscoprire tutta la bellezza della loro vocazione e missione cristiana. È stupefacente, infatti, la portata del potenziale creativo del laicato messo in moto dai carismi di queste aggregazioni.

Ci congratuliamo, dunque, con Carl Anderson per il suo bellissimo libro, e soprattutto lo ringraziamo per la lezione di speranza cristiana che ha dato a noi cristiani del Vecchio Continente. Ne abbiamo grande bisogno in un tempo in cui l’Europa – almeno a livello dei suoi organismi ufficiali –, nonostante i continui proclami di tolleranza, va diventando sempre più intollerante (per non dire ostile!) nei confronti della presenza cristiana nella vita pubblica. Come conferma la recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo circa la presenza dei crocifissi nelle aule scolastiche. Grazie, dunque, per averci fatto conoscere meglio caratteristiche salienti del cattolicesimo statunitense, dal quale in questo particolare momento noi europei possiamo imparare davvero molto.

Congratulazioni, poi, alla Libreria Editrice Vaticana e al suo Direttore per questa felice pubblicazione, che ci auguriamo sia un utile vademecum per molti laici cattolici nel loro impegno per la costruzione di un mondo migliore, una salutare provocazione per risvegliare le coscienze dal torpore dell’indifferenza e dalla tiepidezza.

Concludo con le parole che il Santo Padre ha pronunciato ieri pomeriggio in piazza di Spagna, nella tradizionale cerimonia per la festa dell’Immacolata, che mi paiono riassumere bene il messaggio del libro che stiamo presentando: «Voglio rendere omaggio pubblicamente a tutti coloro che in silenzio, non a parole ma con i fatti, si sforzano di praticare questa legge evangelica dell’amore, che manda avanti il mondo. Sono tanti […] e raramente fanno notizia. Uomini e donne di ogni età, che hanno capito che non serve condannare, lamentarsi, recriminare, ma vale di più rispondere al male con il bene. Questo cambia le cose; o meglio, cambia le persone e, di conseguenza, migliora la società» (Benedetto XVI, 8 dicembre 2009).

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ZENIT Staff

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