L’allenamento della “formazione permanente”

ROMA, lunedì, 7 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo scritto da padre Salvatore Vitiello, docente di Introduzione alla Teologia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, e apparso sul numero di dicembre di Paulus, dedicato alla Seconda lettera a Timoteo e al tema “Paolo l’atleta”.

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L’allenamento nella formazione, assume oggi il volto di quella che comunemente viene detta “formazione permanente”, la quale domanda una attenta valutazione e programmazione, per evitare che si riduca ad improvvisati incontri che nulla o poco hanno di formativo se non la possibilità di accrescere la pazienza di chi vi partecipa. Ma come impostare questo percorso?

Due premesse desidero anteporre ad ogni altra considerazione: uno sguardo al ruolo del vescovo ed una corretta collocazione delle proposte della diocesi rispetto alla libertà personale.

Rispetto al vescovo è necessario ricordare, che, analogamente al superiore generale per la sua congregazione, egli è il responsabile primo della formazione permanente, ne è il primo animatore ed è per lui un dovere offrire una proposta adeguata e nel contempo un “diritto” esigerne la cordiale accoglienza da parte dei presbiteri. Si noti che ho parlato di “proposta adeguata”.

Nell’esercizio di questo suo compito il vescovo può, e talvolta necessariamente deve, avvalersi, soprattutto nelle diocesi più grandi, di collaboratori. Egli può nominare un delegato che si occupi esclusivamente della formazione permanente del clero oppure può chiedere, ad altri sacerdoti, che rivestono altri incarichi, di occuparsene. La collocazione della formazione permanente può essere legata alle strutture della formazione iniziale (seminario, istituti o facoltà teologiche, ecc.) oppure dipendere dall’ufficio clero della diocesi o, sarebbe forse la prospettiva migliore, dall’ufficio cultura. In ciascuna circostanza si dovrà valutare quale sia la migliore configurazione, tenendo sempre ben presente che l’esito non dipende mai solo dalle strutture, ma è sempre strettamente correlato alle persone. E’ la scelta delle persone giuste a determinare il buon esito di un progetto di formazione permanente. “Giuste” non solo per preparazione culturale, pure necessaria, ma soprattutto per chiarezza di giudizio, fedeltà umile al Magistero e tratto umano capace di reale coinvolgimento e comunicazione.

Per quanto riguarda la seconda premessa, il rapporto cioè tra piano di formazione e libertà personale, è necessario ribadire con grande chiarezza che ciascuno è, in definitiva, responsabile della propria formazione, autoformazione e del proprio “aggiornamento”: ciascuno è il “personal-trainer” di se stesso.

È necessario riconoscere come ogni proposta debba necessariamente incontrare la libertà personale che, in maniera criticamente adulta, ma non scettica, responsabilmente dialogica, ma non demolitrice, si pone di fronte alla proposta. Per questa ragione ogni proposta formativa deve essere “adeguata”, adeguata alla struttura dell’uomo, intelligente e libero, adeguata alla cultura dei destinatari, adeguata a persone che, normalmente, hanno grande esperienza esistenziale, hanno un rapporto consolidato con il Signore e sono, a loro volta, responsabili della formazione altrui, responsabili della vita di intere comunità, responsabili, custodi ed accompagnatori del cammino spirituale di centinaia di persone.

Come accade in ogni ambito ritengo che l’esito non pienamente soddisfacente di tante proposte di formazione permanente contemporanee, non dipenda dalla cattiva disposizione o dalla presunta insensibilità del clero, ma piuttosto, dalla mediocrità delle proposte stesse che, spesso, non rispondono alle reali esigenze delle persone e che rischiano di ridursi a “meri consigli pratici”, senza giungere, almeno tentativamente, a ridire e a ridare le ragioni profonde della propria scelta vocazionale, del ministero, e della fedeltà agli impegni assunti, dando così sempre di nuovo ragione della propria condizione. Come impostare, a questo punto, un possibile “percorso formativo”? Proviamo a delinearlo.

I destinatari

Quando si pensa ad una qualunque iniziativa è sempre necessario valutare a chi essa si rivolga. Destinatari dell’offerta di formazione permanente sono, in linea teorica, tutti i presbiteri incardinati in una determinata diocesi, quelli che in essa prestano servizio pur senza esservi incardinati e, secondo le proprie possibilità, e soprattutto laddove si tocchino elementi più direttamente pastorali, anche i presbiteri religiosi ai quali è affidata la cura d’anime nelle parrocchie o in altre istituzioni dipendenti dalla diocesi.

E’ evidente che nei presbiteri ci sono età differenziate, percorsi diversi e, quindi, esigenze diverse. A tale differenziazione dovrà necessariamente corrispondere una diversificazione della proposta, pensando ad esempio, ad un percorso distinto tra clero giovane e clero più maturo, pur conservando non pochi momenti comuni per favorire la reciproca conoscenza, la crescita nella stima, il fecondo scambio di esperienze esistenziali, spirituali e pastorali.

In tal senso, per il clero più giovane si potrà ritenere l’ormai classica distinzione tra primo anno di ordinazione, primo quinquennio e secondo quinquennio. Il primo anno dopo l’ordinazione sacerdotale dovrà essere programmato in stretto rapporto con il seminario diocesano, conoscendone l’orientamento, le sottolineature teologico-pastorali, in una sorta di ideale compimento del percorso formativo.

Tutti ben sappiamo quanto delicati possano essere i primi anni di ministero e, tra essi, quanto importante sia il primissimo impatto con la realtà pastorale subito dopo l’ordinazione. Non di rado il fallimento o la grave problematicità della prima esperienza può segnare la vita del novello sacerdote in modo importante. Per tale ragione sarà indispensabile curare con particolare attenzione, evitando di obbedire esclusivamente ad esigenze numeriche o pastorali, la prima nomina del neo-sacerdote, permettendo, in tal modo, per quanto possibile un’esperienza iniziale relativamente piana, almeno per quanto riguarda i rapporti umani e di collaborazione.

Tutto il primo quinquennio dovrà essere concepito come un accompagnare il giovane sacerdote il quale, è bene ricordarlo con chiarezza non è più un seminarista (e questo sin dall’ordinazione diaconale), ma è divenuto appunto, un presbitero della Chiesa e quindi una persona che si deve presumere adulta, responsabile, capace di assumere decisioni e con una struttura umana e psico-affettiva fondamentalmente stabile.

Altro respiro potrà avere la formazione permanente del secondo quinquennio e degli anni successivi, tenendo presenti alcune tappe importanti della vita sacerdotale nelle quali è possibile offrire una proposta più significativa. Per esempio l’esperienza dei neo-parroci, nominati nell’anno, o in un periodo relativamente circoscritto, suggerisce come, tale passaggio, sia bisognoso di un particolare accompagnamento e dunque di una particolare proposta di formazione sia da un punto di vista pastorale sia per tutti gli aspetti giuridici, economici, amministrativo-gestionali e di rappresentanza legale che, l’essere parroco determina.

Altri momenti di particolare formazione e revisione di vita possono essere gli anniversari di ordinazione, partendo magari dal decimo per giungere al venticinquesimo ed al cinquantesimo. La capacità di fare sintesi e di valutare onestamente davanti a Dio la propria esistenza sacerdotale può essere sostenuta da richiami oggettivi di questo tipo che, lungi dal divenire occasione di “lamentazione” o pessimismo, devono essere un ininterrotto canto del Magnificat per tutto quanto il Signore compie attraverso il ministero sacerdotale.

Normalmente, pensando al sacerdote diocesano si guarda a coloro che sono fattivamente e quasi esclusivamente impegnati nella cura d’anime in modo diretto, quindi ai parroci e ai vicari e collaboratori parrocchiali. E’ importante, però, tener presente che nel presbiterio esistono molti altri ministeri, che, talvolta nel nascondimento, contribuiscono all’edificazione del Regno di Dio. Penso agli insegnanti, ai cappellani degli ospedali, delle carceri, delle
associazioni e dei movimenti, delle religiose, ecc. tutti sacerdoti, che sono e devono essere oggetto dell’attenzione del Vescovo e destinatari del progetto di formazione permanente.

I tempi

Il piano di formazione può essere strutturato su un percorso annuale o pluriannuale. Personalmente ritengo che sia più opportuno, vista anche la velocità dei cambiamenti della cultura contemporanea, non impegnarsi in programmazioni eccessivamente ampie, per evitare sia una certa presunzione pastorale che non lascerebbe l’adeguato spazio all’azione dello Spirito, sia di programmare in maniera troppo rigida e schematica percorsi i quali, attuati magari molto tempo dopo, non risulterebbero adeguati alle reali esigenze.

Probabilmente il progetto o itinerario di formazione permanente a scadenza annuale proposto all’inizio dell’anno pastorale, con puntualità e chiarezza, risulta, in definitiva il più efficace: in dieci mesi, da settembre a giugno, è possibile introdurre, sviluppare, approfondire e concludere in maniera sufficientemente completa qualunque argomento, lasciando sempre e comunque al clero la responsabilità di ulteriori approfondimenti.

Un buon progetto di formazione permanente dovrebbe includere almeno un ritiro spirituale mensile per tutto il clero; la proposta di una settimana di esercizi spirituali come suggerisce il codice di diritto canonico, i quali, fatta salva la libertà di ciascun sacerdote di organizzarli autonomamente, non possono non essere proposti, anche in più turni, dal piano di formazione permanente; a queste due classiche proposte che rappresentano l’orizzonte minimo di riferimento, si possono e devono aggiungere, come in molte diocesi è consuetudine, esperienze di convegni “a tema”, settimane residenziali, ed ogni altra possibile occasione nella quale la giusta dimensione del necessario riposo, quella della sana comunione fraterna e l’istanza formativa si possano adeguatamente coniugare.

Il clero, normalmente, soprattutto quello un po’ più adulto, gradisce un certo “essere accompagnato”, essere sollevato cioè dall’onere di dover individuare un posto, organizzare un itinerario, pensare un percorso, ecc. E’ dunque opportuno organizzare, magari nel periodo immediatamente successivo a momenti di grande lavoro (penso a metà gennaio, dopo le fatiche del Natale o all’estate), settimane residenziali di aggiornamento alle quali è molto importante che partecipi anche l’ordinario.

Al contrario il clero giovane, decisamente più autonomo nell’organizzazione di spazi e tempi, di viaggi ed itinerari, è molto più sensibile a proposte culturali puntuali, mirate, dalle quali emerga con sufficiente immediatezza una certa utilità personale e pastorale.

A tutto questo, nulla impedisce di aggiungere l’esperienza classica dei pellegrinaggi o più recente dei viaggi formativi. La prima può essere unita in maniera feconda ad una certa attività pastorale ed a un buon approfondimento spirituale, la seconda rappresenta sempre un’occasione per conoscere nuove realtà, arricchire ed approfondire la propria capacità di osservazione, di valutazione e, conseguentemente, di sintesi e di giudizio.

Un progetto formativo che includesse un ritiro mensile, un corso di esercizi spirituali, una settimana residenziale, un pellegrinaggio o viaggio formativo, a livello di tempi, risulterebbe generoso, ricco di proposte, tendenzialmente compiuto.

Sarà prudenza dell’ordinario e di chi con lui collabora nell’organizzare la formazione permanente nella diocesi sollecitare, nei tempi e nei modi più opportuni, la più ampia e cordiale partecipazione a tali momenti, soprattutto ritengo che non si possa disattendere l’impegno minimo di un incontro mensile con il Vescovo ed i confratelli. Anche dal punto di vista teologico, infatti, nessuno è “prete da solo”, ma ogni presbitero inserito nel presbiterio è collaboratore del Vescovo al servizio di una chiesa particolare la quale, attraverso la comunione del Vescovo con il successore di Pietro, è parte della Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica.

Nel contempo, accanto alla sollecitudine per la partecipazione del clero, è necessario, con umana e cristiana prudenza, curare la qualità degli incontri, la professionalità e l’efficacia comunicativa dei relatori, l’accoglibilità e la pertinenza dei temi e, non da ultimo, i dettagli organizzativi quali la puntualità, la piena efficienza dei mezzi di comunicazione (microfono, video, luci, sistemazione del luogo di accoglienza), tutti dettagli, se si vuole, che tuttavia dicono dell’attenzione, della dedizione, dell’importanza e della reale considerazione che il Vescovo e con esso la Chiesa ha dei presbiteri e della loro formazione permanente.

Dello stesso discernimento prudente fa parte la giusta differenziazione, da caso a caso che è necessario fare per ciascun singolo presbitero. Il rischio maggiore, per un sacerdote, è l’isolamento, che può portare a pericolosi autonomismi di giudizio, pastorali e, soprattutto, a concepirsi non adeguatamente come parte di quel corpo di cui Cristo è capo e noi sacerdoti siamo chiamati ad essere nello stesso momento, membra e, in Persona Christi, capi.

Quindi l’ordinario solleciterà con fraterno affetto, amicale carità, e doverosa paterna fermezza, i sacerdoti meno attenti, alla doverosa partecipazione agli incontri di formazione permanente, distinguendo, volta per volta, coloro che, in altri modi, possono legittimamente supplire, almeno in parte tali itinerari; si pensi in particolare ai sacerdoti docenti universitari, impegnati nella ricerca teologica e non, o ai sacerdoti vicini o appartenenti ad associazioni e movimenti i quali, non di rado, tuttavia, sono tra i più presenti agli incontri diocesani.

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ZENIT Staff

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