Cardinale Scola: dopo il Natale, la morte non ha l’ultima parola

Intervista al patriarca di Venezia

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CITTA’ DEL VATICANO, lunedì, 25 dicembre 2006 (ZENIT.org).- Dopo il Natale, la morte non ha l’ultima parola, ha constatato il Cardinale Angelo Scola.

Pubblichiamo l’intervista al patriarca di Venezia diffusa questa domenica dalla “Radio Vaticana”.

In questa Vigilia natalizia ci si interroga come cristiani su come trasmettere l’annuncio della venuta di Cristo, soprattutto a chi vive nella sofferenza e a chi vive lontano dalla fede.

Cardinale Scola: Io credo che anzitutto si debba dare a tutti loro una testimonianza e ricordare ciò che la liturgia ci richiama in continuazione, ogni giorno, in questo tempo, cioè che noi viviamo la memoria di Gesù che è venuto nella carne per accompagnarci progressivamente alla vittoria finale sulla morte, la memoria della nascita e l’attesa del ritorno di Gesù a compiere la nostra umanità. Questo ritorno noi lo vediamo tutti i giorni nell’esperienza dell’amore, quando è autentico, nell’esperienza dell’amore che l’eucaristia ci ricorda e che la Chiesa con la fraternità e la comunione che genera suscita continuamente in noi e tra di noi. Quindi, direi a chi è nella prova, a chi è nel dolore, che bisogna ricordare che l’amore di Dio si è fatto crocifiggere, perchè il dolore non sia più l’ultima parola nella nostra vita, perché la croce non sia l’ultima parola nella nostra vita, ma l’ultima parola nella nostra vita sia la resurrezione. E’ l’amore che vince la morte, ma questo lo si deve dire a partire dalla verità di noi stessi.

Nell’udienza del mercoledì, Benedetto XVI si è chiesto se l’umanità del nostro tempo aspetta ancora il Salvatore. Le giro questa domanda, Cardinale Scola…

Cardinale Scola: Io penso che il Santo Padre abbia voluto ricordarci questo, per dirci che anche se questa domanda del Salvatore è come nascosta da tutti i detriti che le nostre fragilità personali e comunitarie vi hanno messo sopra, succede un poco come in quei terreni abbandonati, in quei cortili di cantieri che, a primavera, quando uno meno se lo aspetta, hanno qualche filo d’erba che spunta dai detriti. Credo che la domanda di salvezza sia insopprimibile, perchè ogni uomo, anche chi se l’è dimenticato, non può non portarsi nel cuore questioni come: “Io chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Qualcuno, alla fine, mi ama? Chi mi assicura? Chi mi tiene nella tenerezza di un abbraccio d’amore che non mi faccia finire nel nulla?” Questa è la domanda prorompente di salvezza che sta dentro l’azione anche più meccanica e più dimentica di Dio che l’uomo possa porre. Il Santo Padre ci richiama in maniera straordinaria questa notizia stupefacente che Dio si fa come noi, si fa bambino perché la meraviglia carica di tenerezza che viene in noi da questo fatto riapra la responsabilità della domanda di salvezza.

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ZENIT Staff

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