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Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato,
cari fratelli!
Con grande gioia vi incontro oggi e rivolgo a ciascuno di voi il mio cordiale saluto. Vi ringrazio per la vostra presenza a questo tradizionale appuntamento, che si tiene nell’imminenza del Santo Natale. Ringrazio in particolare il Cardinale Angelo Sodano per le parole con cui si è fatto interprete dei sentimenti di tutti i presenti, prendendo spunto dal tema centrale dell’Enciclica Deus caritas est. In questa significativa circostanza desidero rinnovargli l’espressione della mia gratitudine per il servizio che in tanti anni ha reso al Papa e alla Santa Sede, segnatamente in qualità di Segretario di Stato, e chiedo al Signore di ricompensarlo per il bene che ha compiuto con la sua saggezza e il suo zelo per la missione della Chiesa. Al tempo stesso, mi piace rinnovare uno speciale augurio al Cardinale Tarcisio Bertone per il nuovo compito che gli ho affidato. Estendo volentieri questi miei sentimenti a quanti, nel corso di quest’anno, sono entrati al servizio della Curia Romana o del Governatorato, mentre con affetto e gratitudine ricordiamo coloro che il Signore ha chiamato a sé da questa vita.
L’anno che volge al termine – lo ha detto Lei, Eminenza – rimane nella nostra memoria con la profonda impronta degli orrori della guerra svoltasi nei pressi della Terra Santa come anche in generale del pericolo di uno scontro tra culture e religioni – un pericolo che incombe tuttora minaccioso su questo nostro momento storico. Il problema delle vie verso la pace è così diventato una sfida di primaria importanza per tutti coloro che si preoccupano dell’uomo. Ciò vale in modo particolare per la Chiesa, per la quale la promessa che ne ha accompagnato gli inizi significa insieme una responsabilità e un compito: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra per gli uomini che egli ama” (Lc 2,14).
Questo saluto dell’angelo ai pastori nella notte della nascita di Gesù a Betlemme rivela una connessione inscindibile tra il rapporto degli uomini con Dio e il loro rapporto vicendevole. La pace sulla terra non può trovarsi senza la riconciliazione con Dio, senza l’armonia tra cielo e terra. Questa correlazione del tema “Dio” col tema “pace” è stato l’aspetto determinante dei quattro Viaggi Apostolici di quest’anno: ad essi vorrei riandare con la memoria in questo momento. C’è stata innanzitutto la Visita Pastorale in Polonia, il Paese natale del nostro amato Papa Giovanni Paolo II. Il viaggio nella sua Patria è stato per me un intimo dovere di gratitudine per tutto ciò che egli, durante il quarto di secolo del suo servizio, ha donato a me personalmente e soprattutto alla Chiesa e al mondo. Il suo dono più grande per tutti noi è stata la sua fede incrollabile e il radicalismo della sua dedizione. “Totus tuus” era il suo motto: in esso si rispecchiava tutto il suo essere. Sì, egli si è donato senza riserve a Dio, a Cristo, alla Madre di Cristo, alla Chiesa: al servizio del Redentore ed alla redenzione dell’uomo. Non ha serbato nulla, si è lasciato consumare fino in fondo dalla fiamma della fede. Ci ha mostrato così come, da uomini di questo nostro oggi, si possa credere in Dio, nel Dio vivente resosi vicino a noi in Cristo. Ci ha mostrato che è possibile una dedizione definitiva e radicale dell’intera vita e che, proprio nel donarsi, la vita diventa grande e vasta e feconda. In Polonia, ovunque sono andato, ho trovato la gioia della fede. “La gioia del Signore è la vostra forza” – questa parola che, in mezzo alla miseria del nuovo inizio, lo scriba Esdra gridò al popolo di Israele appena tornato dall’esilio (Ne 8,10), qui si poteva sperimentarla come realtà. Sono rimasto profondamente colpito dalla grande cordialità con cui sono stato accolto dappertutto. La gente ha visto in me il successore di Pietro a cui è affidato il ministero pastorale per tutta la Chiesa. Vedevano colui al quale, nonostante tutta la debolezza umana, allora come oggi è rivolta la parola del Signore risorto: “Pasci le mie pecorelle” (cfr Gv 21,15-19); vedevano il successore di colui al quale Gesù presso Cesarèa di Filippo disse: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa” (Mt 16,18). Pietro, da sé, non era una roccia, ma un uomo debole ed incostante. Il Signore, però, volle fare proprio di lui la pietra e dimostrare che, attraverso un uomo debole, Egli stesso sostiene saldamente la sua Chiesa e la mantiene nell’unità. Così la visita in Polonia è stata per me, nel senso più profondo, una festa della cattolicità. Cristo è la nostra pace che riunisce i separati: Egli, al di là di tutte le diversità delle epoche storiche e delle culture, è la riconciliazione. Mediante il ministero petrino sperimentiamo questa forza unificatrice della fede che, sempre di nuovo, partendo dai molti popoli edifica l’unico popolo di Dio. Con gioia abbiamo fatto realmente questa esperienza che, provenendo da molti popoli, noi formiamo l’unico popolo di Dio, la sua santa Chiesa. Per questo il ministero petrino può essere il segno visibile che garantisce questa unità e forma un’unità concreta. Per questa toccante esperienza di cattolicità vorrei ringraziare la Chiesa in Polonia ancora una volta in modo esplicito e di tutto cuore.
Nei miei spostamenti in Polonia non poteva mancare la visita ad Auschwitz-Birkenau nel luogo della barbarie più crudele – del tentativo di cancellare il popolo di Israele, di vanificare così anche l’elezione da parte di Dio, di bandire Dio stesso dalla storia. Fu per me motivo di grande conforto veder comparire nel cielo in quel momento l’arcobaleno, mentre io, davanti all’orrore di quel luogo, nell’atteggiamento di Giobbe gridavo verso Dio, scosso dallo spavento della sua apparente assenza e, al contempo, sorretto dalla certezza che Egli anche nel suo silenzio non cessa di essere e di rimanere con noi. L’arcobaleno era come una risposta: Sì, Io ci sono, e le parole della promessa, dell’Alleanza, che ho pronunciato dopo il diluvio, sono valide anche oggi (cfr Gn 9,12-17).
Il viaggio in Spagna – a Valencia – è stato tutto all’insegna del tema del matrimonio e della famiglia. È stato bello ascoltare, davanti all’assemblea di persone di tutti i continenti, la testimonianza di coniugi che – benedetti da una schiera numerosa di figli – si sono presentati davanti a noi e hanno parlato dei rispettivi cammini nel sacramento del matrimonio e all’interno delle loro famiglie numerose. Non hanno nascosto il fatto di aver avuto anche giorni difficili, di aver dovuto attraversare tempi di crisi. Ma proprio nella fatica del sopportarsi a vicenda giorno per giorno, proprio nell’accettarsi sempre di nuovo nel crogiolo degli affanni quotidiani, vivendo e soffrendo fino in fondo il sì iniziale – proprio in questo cammino del “perdersi” evangelico erano maturati, avevano trovato se stessi ed erano diventati felici. Il sì che si erano dato reciprocamente, nella pazienza del cammino e nella forza del sacramento con cui Cristo li aveva legati insieme, era diventato un grande sì di fronte a se stessi, ai figli, al Dio Creatore e al Redentore Gesù Cristo. Così dalla testimonianza di queste famiglie ci giungeva un’onda di gioia, non di un’allegrezza superficiale e meschina che si dilegua presto, ma di una gioia maturata anche nella sofferenza, di una gioia che va nel profondo e redime veramente l’uomo.
Davanti a queste famiglie con i loro figli, davanti a queste famiglie in cui le generazioni si stringono la mano e il futuro è presente, il problema dell’Europa, che apparentemente quasi non vuol più avere figli, mi è penetrato nell’anima. Per l’estraneo, quest’Europa sembra essere stanca, anzi sembra volersi congedare dalla storia. Perché le cose stanno così? Questa è la grande domanda. Le risposte sono sicuramente molto complesse. Prima di cercare tali risposte è doveroso un ringraziamento ai tanti coniugi che anche oggi, nella nostra Europa
, dicono sì al figlio e accettano le fatiche che questo comporta: i problemi sociali e finanziari, come anche le preoccupazioni e fatiche giorno dopo giorno; la dedizione necessaria per aprire ai figli la strada verso il futuro. Accennando a queste difficoltà si rendono forse anche chiare le ragioni perché a tanti il rischio di aver figli appare troppo grande. Il bambino ha bisogno di attenzione amorosa. Ciò significa: dobbiamo dargli qualcosa del nostro tempo, del tempo della nostra vita. Ma proprio questa essenziale “materia prima” della vita – il tempo – sembra scarseggiare sempre di più. Il tempo che abbiamo a disposizione basta appena per la propria vita; come potremmo cederlo, darlo a qualcun altro? Avere tempo e donare tempo – è questo per noi un modo molto concreto per imparare a donare se stessi, a perdersi per trovare se stessi. A questo problema si aggiunge il calcolo difficile: di quali norme siamo debitori al bambino perché segua la via giusta e in che modo dobbiamo, nel fare ciò, rispettare la sua libertà? Il problema è diventato così difficile anche perché non siamo più sicuri delle norme da trasmettere; perché non sappiamo più quale sia l’uso giusto della libertà, quale il modo giusto di vivere, che cosa sia moralmente doveroso e che cosa invece inammissibile. Lo spirito moderno ha perso l’orientamento, e questa mancanza di orientamento ci impedisce di essere per altri indicatori della retta via. Anzi, la problematica va ancora più nel profondo. L’uomo di oggi è insicuro circa il futuro. È ammissibile inviare qualcuno in questo futuro incerto? In definitiva, è una cosa buona essere uomo? Questa profonda insicurezza sull’uomo stesso – accanto alla volontà di avere la vita tutta per se stessi – è forse la ragione più profonda, per cui il rischio di avere figli appare a molti una cosa quasi non più sostenibile. Di fatto, possiamo trasmettere la vita in modo responsabile solo se siamo in grado di trasmettere qualcosa di più della semplice vita biologica e cioè un senso che regga anche nelle crisi della storia ventura e una certezza nella speranza che sia più forte delle nuvole che oscurano il futuro. Se non impariamo nuovamente i fondamenti della vita – se non scopriamo in modo nuovo la certezza della fede – ci sarà anche sempre meno possibile affidare agli altri il dono della vita e il compito di un futuro sconosciuto. Connesso con ciò è, infine, anche il problema delle decisioni definitive: può l’uomo legarsi per sempre? Può dire un sì per tutta la vita? Sì, lo può. Egli è stato creato per questo. Proprio così si realizza la libertà dell’uomo e così si crea anche l’ambito sacro del matrimonio che si allarga diventando famiglia e costruisce futuro.
A questo punto non posso tacere la mia preoccupazione per le leggi sulle coppie di fatto. Molte di queste coppie hanno scelto questa via, perché – almeno per il momento – non si sentono in grado di accettare la convivenza giuridicamente ordinata e vincolante del matrimonio. Così preferiscono rimanere nel semplice stato di fatto. Quando vengono create nuove forme giuridiche che relativizzano il matrimonio, la rinuncia al legame definitivo ottiene, per così dire, anche un sigillo giuridico. In tal caso il decidersi per chi già fa fatica diventa ancora più difficile. Si aggiunge poi, per l’altra forma di coppie, la relativizzazione della differenza dei sessi. Diventa così uguale il mettersi insieme di un uomo e una donna o di due persone dello stesso sesso. Con ciò vengono tacitamente confermate quelle teorie funeste che tolgono ogni rilevanza alla mascolinità e alla femminilità della persona umana, come se si trattasse di un fatto puramente biologico; teorie secondo cui l’uomo – cioè il suo intelletto e la sua volontà – deciderebbe autonomamente che cosa egli sia o non sia. C’è in questo un deprezzamento della corporeità, da cui consegue che l’uomo, volendo emanciparsi dal suo corpo – dalla “sfera biologica” – finisce per distruggere se stesso. Se ci si dice che la Chiesa non dovrebbe ingerirsi in questi affari, allora noi possiamo solo rispondere: forse che l’uomo non ci interessa? I credenti, in virtù della grande cultura della loro fede, non hanno forse il diritto di pronunciarsi in tutto questo? Non è piuttosto il loro – il nostro – dovere alzare la voce per difendere l’uomo, quella creatura che, proprio nell’unità inseparabile di corpo e anima, è immagine di Dio? Il viaggio a Valencia è diventato per me un viaggio alla ricerca di che cosa significhi l’essere uomo.
Proseguiamo mentalmente verso la Baviera – München, Altötting, Regensburg, Freising. Lì ho potuto vivere giornate indimenticabilmente belle dell’incontro con la fede e con i fedeli della mia patria. Il grande tema del mio viaggio in Germania era Dio. La Chiesa deve parlare di tante cose: di tutte le questioni connesse con l’essere uomo, della propria struttura e del proprio ordinamento e così via. Ma il suo tema vero e – sotto certi aspetti – unico è “Dio”. E il grande problema dell’Occidente è la dimenticanza di Dio: è un oblio che si diffonde. In definitiva, tutti i singoli problemi possono essere riportati a questa domanda, ne sono convinto. Perciò, in quel viaggio la mia intenzione principale era di mettere ben in luce il tema “Dio”, memore anche del fatto che in alcune parti della Germania vive una maggioranza di non-battezzati, per i quali il cristianesimo e il Dio della fede sembrano cose che appartengono al passato. Parlando di Dio, tocchiamo anche precisamente l’argomento che, nella predicazione terrena di Gesù, costituiva il suo interesse centrale. Il tema fondamentale di tale predicazione è il dominio di Dio, il “Regno di Dio”.
Con ciò non è espresso qualcosa che verrà una volta o l’altra in un futuro indeterminato. Neppure si intende con ciò quel mondo migliore che cerchiamo di creare passo passo con le nostre forze. Nel termine “Regno di Dio” la parola “Dio” è un genitivo soggettivo. Questo significa: Dio non è un’aggiunta al “Regno” che forse si potrebbe anche lasciar cadere. Dio è il soggetto. Regno di Dio vuol dire in realtà: Dio regna. Egli stesso è presente ed è determinante per gli uomini nel mondo. Egli è il soggetto, e dove manca questo soggetto non resta nulla del messaggio di Gesù. Perciò Gesù ci dice: il Regno di Dio non viene in modo che si possa, per così dire, mettersi sul lato della strada ed osservare il suo arrivo. “È in mezzo a voi!” (cfr Lc 17,20s). Esso si sviluppa dove viene realizzata la volontà di Dio. È presente dove vi sono persone che si aprono al suo arrivo e così lasciano che Dio entri nel mondo. Perciò Gesù è il Regno di Dio in persona: l’uomo nel quale Dio è in mezzo a noi e attraverso il quale noi possiamo toccare Dio, avvicinarci a Dio. Dove questo accade, il mondo si salva.
Con il tema di Dio erano e sono collegati due temi che hanno dato un’impronta alle giornate della visita in Baviera: il tema del sacerdozio e quello del dialogo. Paolo chiama Timoteo – e in lui il Vescovo e, in genere, il sacerdote – “uomo di Dio” (1 Tim 6,11). È questo il compito centrale del sacerdote: portare Dio agli uomini. Certamente può farlo soltanto se egli stesso viene da Dio, se vive con e da Dio. Ciò è espresso meravigliosamente in un versetto di un Salmo sacerdotale che noi – la vecchia generazione – abbiamo pronunciato durante l’ammissione allo stato chiericale: “Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita” (Sal 16 [15],5). L’orante-sacerdote di questo Salmo interpreta la sua esistenza a partire dalla forma della distribuzione del territorio fissata nel Deuteronomio (cfr 10,9). Dopo la presa di possesso della Terra ogni tribù ottiene per mezzo del sorteggio la sua porzione della Terra santa e con ciò prende parte al dono promesso al capostipite Abramo. Solo la tribù di Levi non riceve alcun terreno: la sua terra è Dio stesso. Questa affermazione aveva certamente un significato del tutto pratico.
I sacerdo
ti non vivevano, come le altre tribù, della coltivazione della terra, ma delle offerte.
Tuttavia, l’affermazione va più in profondità. Il vero fondamento della vita del sacerdote, il suolo della sua esistenza, la terra della sua vita è Dio stesso. La Chiesa, in questa interpretazione anticotestamentaria dell’esistenza sacerdotale – un’interpretazione che emerge ripetutamente anche nel Salmo 118 [119] – ha visto con ragione la spiegazione di ciò che significa la missione sacerdotale nella sequela degli Apostoli, nella comunione con Gesù stesso. Il sacerdote può e deve dire anche oggi con il levita: “Dominus pars hereditatis meae et calicis mei“. Dio stesso è la mia parte di terra, il fondamento esterno ed interno della mia esistenza. Questa teocentricità dell’esistenza sacerdotale è necessaria proprio nel nostro mondo totalmente funzionalistico, nel quale tutto è fondato su prestazioni calcolabili e verificabili. Il sacerdote deve veramente conoscere Dio dal di dentro e portarlo così agli uomini: è questo il servizio prioritario di cui l’umanità di oggi ha bisogno. Se in una vita sacerdotale si perde questa centralità di Dio, si svuota passo passo anche lo zelo dell’agire. Nell’eccesso delle cose esterne manca il centro che dà senso a tutto e lo riconduce all’unità. Lì manca il fondamento della vita, la “terra”, sulla quale tutto questo può stare e prosperare.
Il celibato, che vige per i Vescovi in tutta la Chiesa orientale ed occidentale e, secondo una tradizione che risale a un’epoca vicina a quella degli Apostoli, per i sacerdoti in genere nella Chiesa latina, può essere compreso e vissuto, in definitiva, solo in base a questa impostazione di fondo. Le ragioni solamente pragmatiche, il riferimento alla maggiore disponibilità, non bastano: una tale maggiore disponibilità di tempo potrebbe facilmente diventare anche una forma di egoismo, che si risparmia i sacrifici e le fatiche richieste dall’accettarsi e dal sopportarsi a vicenda nel matrimonio; potrebbe così portare ad un impoverimento spirituale o ad una durezza di cuore. Il vero fondamento del celibato può essere racchiuso solo nella frase: Dominus pars – Tu sei la mia terra. Può essere solo teocentrico. Non può significare il rimanere privi di amore, ma deve significare il lasciarsi prendere dalla passione per Dio, ed imparare poi grazie ad un più intimo stare con Lui a servire pure gli uomini. Il celibato deve essere una testimonianza di fede: la fede in Dio diventa concreta in quella forma di vita che solo a partire da Dio ha un senso. Poggiare la vita su di Lui, rinunciando al matrimonio ed alla famiglia, significa che io accolgo e sperimento Dio come realtà e perciò posso portarlo agli uomini. Il nostro mondo diventato totalmente positivistico, in cui Dio entra in gioco tutt’al più come ipotesi, ma non come realtà concreta, ha bisogno di questo poggiare su Dio nel modo più concreto e radicale possibile. Ha bisogno della testimonianza per Dio che sta nella decisione di accogliere Dio come terra su cui si fonda la propria esistenza. Per questo il celibato è così importante proprio oggi, nel nostro mondo attuale, anche se il suo adempimento in questa nostra epoca è continuamente minacciato e messo in questione. Occorre una preparazione accurata durante il cammino verso questo obiettivo; un accompagnamento persistente da parte del Vescovo, di amici sacerdoti e di laici, che sostengano insieme questa testimonianza sacerdotale. Occorre la preghiera che invoca senza tregua Dio come il Dio vivente e si appoggia a Lui nelle ore di confusione come nelle ore della gioia. In questo modo, contrariamente al “trend” culturale che cerca di convincerci che non siamo capaci di prendere tali decisioni, questa testimonianza può essere vissuta e così, nel nostro mondo, può rimettere in gioco Dio come realtà.
L’altro grande tema collegato col tema di Dio è quello del dialogo. Il cerchio interno del complesso dialogo che oggi occorre, l’impegno comune di tutti i cristiani per l’unità, si è reso evidente nei Vespri ecumenici nel duomo di Regensburg, dove oltre ai fratelli e alle sorelle della Chiesa cattolica, ho potuto incontrare molti amici dell’Ortodossia e del Cristianesimo Evangelico. Nella recita dei Salmi e nell’ascolto della Parola di Dio eravamo lì tutti riuniti, e non è una cosa da poco che questa unità ci sia stata donata. L’incontro con l’Università era dedicato – come si addice a quel luogo – al dialogo tra fede e ragione. In occasione del mio incontro col filosofo Jürgen Habermas, qualche anno fa a Monaco, questi aveva detto che ci occorrerebbero pensatori capaci di tradurre le convinzioni cifrate della fede cristiana nel linguaggio del mondo secolarizzato per renderle così efficaci in modo nuovo. Di fatto diventa sempre più evidente, quanto urgentemente il mondo abbia bisogno del dialogo tra fede e ragione. Immanuel Kant, a suo tempo, aveva visto espressa l’essenza dell’illuminismo nel detto “sapere aude“: nel coraggio del pensiero che non si lascia mettere in imbarazzo da alcun pregiudizio. Ebbene, la capacità cognitiva dell’uomo, il suo dominio sulla materia mediante la forza del pensiero, ha fatto nel frattempo progressi allora inimmaginabili.
Ma il potere dell’uomo, che gli è cresciuto nelle mani grazie alla scienza, diventa sempre più un pericolo che minaccia l’uomo stesso e il mondo. La ragione orientata totalmente ad impadronirsi del mondo non accetta più limiti. Essa è sul punto di trattare ormai l’uomo stesso come semplice materia del suo produrre e del suo potere. La nostra conoscenza aumenta, ma al contempo si registra un progressivo accecamento della ragione circa i propri fondamenti; circa i criteri che le danno orientamento e senso. La fede in quel Dio che è in persona la Ragione creatrice dell’universo deve essere accolta dalla scienza in modo nuovo come sfida e chance. Reciprocamente, questa fede deve riconoscere nuovamente la sua intrinseca vastità e la sua propria ragionevolezza. La ragione ha bisogno del Logos che sta all’inizio ed è la nostra luce; la fede, per parte sua, ha bisogno del colloquio con la ragione moderna, per rendersi conto della propria grandezza e corrispondere alle proprie responsabilità. È questo che ho cercato di evidenziare nella mia lezione a Regensburg. È una questione che non è affatto di natura soltanto accademica; in essa si tratta del futuro di noi tutti.
A Regensburg il dialogo tra le religioni venne toccato solo marginalmente e sotto un duplice punto di vista. La ragione secolarizzata non è in grado di entrare in un vero dialogo con le religioni. Se resta chiusa di fronte alla questione di Dio, questo finirà per condurre allo scontro delle culture. L’altro punto di vista riguardava l’affermazione che le religioni devono incontrarsi nel compito comune di porsi al servizio della verità e quindi dell’uomo. La visita in Turchia mi ha offerto l’occasione di illustrare anche pubblicamente il mio rispetto per la Religione islamica, un rispetto, del resto, che il Concilio Vaticano II (cfr Dich. Nostra Aetate, 3) ci ha indicato come atteggiamento doveroso. Vorrei in questo momento esprimere ancora una volta la mia gratitudine verso le Autorità della Turchia e verso il popolo turco, che mi ha accolto con un’ospitalità così grande e mi ha offerto giorni indimenticabili di incontro. In un dialogo da intensificare con l’Islam dovremo tener presente il fatto che il mondo musulmano si trova oggi con grande urgenza davanti a un compito molto simile a quello che ai cristiani fu imposto a partire dai tempi dell’illuminismo e che il Concilio Vaticano II, come frutto di una lunga ricerca faticosa, ha portato a soluzioni concrete per la Chiesa cattolica. Si tratta dell’atteggiamento che la comunità dei fedeli deve assumere di fronte alle convinzioni e alle esigenze affermatesi nell’illuminismo. Da una parte, ci si deve contrapporre a una dittatura della ragione positivista che esclude Dio dalla vita della comunità e dagli ordinamenti pubblici, privando così l’uomo di s
uoi specifici criteri di misura. D’altra parte, è necessario accogliere le vere conquiste dell’illuminismo, i diritti dell’uomo e specialmente la libertà della fede e del suo esercizio, riconoscendo in essi elementi essenziali anche per l’autenticità della religione. Come nella comunità cristiana c’è stata una lunga ricerca circa la giusta posizione della fede di fronte a quelle convinzioni – una ricerca che certamente non sarà mai conclusa definitivamente – così anche il mondo islamico con la propria tradizione sta davanti al grande compito di trovare a questo riguardo le soluzioni adatte. Il contenuto del dialogo tra cristiani e musulmani sarà in questo momento soprattutto quello di incontrarsi in questo impegno per trovare le soluzioni giuste. Noi cristiani ci sentiamo solidali con tutti coloro che, proprio in base alla loro convinzione religiosa di musulmani, s’impegnano contro la violenza e per la sinergia tra fede e ragione, tra religione e libertà. In questo senso, i due dialoghi di cui ho parlato si compenetrano a vicenda.
Ad Istanbul, infine, ho potuto vivere ancora una volta ore felici di vicinanza ecumenica nell’incontro con il Patriarca ecumenico Bartholomaios I. Giorni fa egli mi ha scritto una lettera le cui parole di gratitudine provenienti dal profondo del cuore mi hanno reso di nuovo molto presente l’esperienza di comunione di quei giorni. Abbiamo sperimentato di essere fratelli non soltanto sulla base di parole e di eventi storici, ma dal profondo dell’animo; di essere uniti dalla fede comune degli Apostoli fin dentro il nostro pensiero e sentimento personale. Abbiamo fatto l’esperienza di un’unità profonda nella fede e pregheremo il Signore ancora più insistentemente affinché ci doni presto anche la piena unità nella comune frazione del Pane. La mia profonda gratitudine e la mia preghiera fraterna si rivolgono in quest’ora al Patriarcha Bartholomaios e ai suoi fedeli come anche alle diverse comunità cristiane che ho potuto incontrare ad Istanbul. Speriamo e preghiamo che la libertà religiosa, che corrisponde alla natura intima della fede ed è riconosciuta nei principi della costituzione turca, trovi nelle forme giuridiche adatte come nella vita quotidiana del Patriarcato e delle altre comunità cristiane una sempre più crescente realizzazione pratica.
“Et erit iste pax” – tale sarà la pace, dice il profeta Michea (5,4) circa il futuro dominatore di Israele, di cui annuncia la nascita a Betlemme. Ai pastori che pascolavano le loro pecore sui campi intorno a Betlemme gli angeli dissero: l’Atteso è arrivato. “Pace in terra agli uomini” (Lc 2,14). Egli stesso Cristo, il Signore, ha detto ai suoi discepoli: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace” (Gv 14,27). Da queste parole si è sviluppato il saluto liturgico: “La pace sia con voi”. Questa pace che viene comunicata nella liturgia è Cristo stesso. Egli si dona a noi come la pace, come la riconciliazione oltre ogni frontiera. Dove Egli viene accolto crescono isole di pace. Noi uomini avremmo desiderato che Cristo bandisse una volta per sempre tutte le guerre, distruggesse le armi e stabilisse la pace universale. Ma dobbiamo imparare che la pace non può essere raggiunta unicamente dall’esterno con delle strutture e che il tentativo di stabilirla con la violenza porta solo a violenza sempre nuova. Dobbiamo imparare che la pace – come diceva l’angelo di Betlemme – è connessa con l’eudokia, con l’aprirsi dei nostri cuori a Dio. Dobbiamo imparare che la pace può esistere solo se l’odio e l’egoismo vengono superati dall’interno. L’uomo deve essere rinnovato a partire dal suo interno, deve diventare nuovo, diverso. Così la pace in questo mondo rimane sempre debole e fragile. Noi ne soffriamo. Proprio per questo siamo tanto più chiamati a lasciarci penetrare interiormente dalla pace di Dio, e a portare la sua forza nel mondo. Nella nostra vita deve realizzarsi ciò che nel Battesimo è avvenuto in noi sacramentalmente: il morire dell’uomo vecchio e così il risorgere di quello nuovo. E sempre di nuovo pregheremo il Signore con ogni insistenza: Scuoti tu i cuori! Rendici uomini nuovi! Aiuta affinché la ragione della pace vinca l’irragionevolezza della violenza! Rendici portatori della tua pace!
Ci ottenga questa grazia la Vergine Maria, alla quale affido voi e il vostro lavoro. A ciascuno di voi qui presenti e alle persone care rinnovo i miei più fervidi voti augurali. E come segno della nostra gioia, il giorno di domani sarà un giorno libero per la Curia, per prepararsi bene, materialmente e spiritualmente, al Natale. Ai collaboratori dei vari Dicasteri e Uffici della Curia Romana e del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano imparto con affetto la Benedizione Apostolica. Buon Natale e tanti auguri anche per il Nuovo Anno.
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