Credibilità e ragionevolezza nell’atto di credere

BOLOGNA, sabato, 9 dicembre 2006 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo della terza e ultima lezione tenuta il 29 novembre dal Cardinale Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna, ai docenti dell’Università di questa città, l’Alma Mater Studiorum.

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Il ciclo di lezioni ha avuto per titolo “Fede e ragione: una difficile ma necessaria convivenza”.

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3. E siamo così arrivati alla domanda fondamentale: è ragionevole ammettere l’esistenza del «fatto cristiano», credere cioè nella presenza di Gesù Risorto mediante la vita e la testimonianza della Chiesa? Per renderci conto di che cosa comporta questo atto di fede, leggiamo il seguente testo di V. Solov’ëv:

«La più importante questione religiosa consiste nel fatto se noi riconosciamo o non un principio superiore all’uomo, indipendente da noi e moralmente obbligatorio per noi e una forma di azione divina nell’universo. Il riconoscimento di questa forma sovrumana nella religione, cioè il riconoscimento della Chiesa e la sottomissione ad essa, è da parte nostra un atto eroico morale di autorinuncia nel quale noi perdiamo la nostra anima per acquistarla. Questa autorinuncia, che nella gente semplice, nel popolo, è come una qualità naturale, per la gente colta è un’opera molto difficile, ma per questo è più obbligatoria per loro, perché essi nella loro cultura hanno più mezzi intellettuali per conoscere la verità. Tale autorinuncia sradica la radice più interiore e profonda del peccato e dell’irragionevolezza nell’uomo» [op. cit. pag. 105].

Ora cercheremo di rispondere a questa domanda e verificare se e come l’atto di credere sia ragionevole. Poiché l’atto di fede è un atto libero, la persona che lo compie deve avere una qualche consapevolezza che esso è un atto buono ed obbligatorio per lui. Deve cioè essere consapevole che il «fatto cristiano» è credibile; che il «fatto cristiano» deve essere creduto da lui. Per chiarezza affronterò distintamente i due momenti.

Primo momento: il «fatto cristiano» è credibile. Questa proposizione [il «fatto cristiano è credibile»] è ragionevolmente affermata quando: a) si è mostrata la veridicità della testimonianza apostolica circa la persona, la vita, la morte e la risurrezione di Gesù; b) si è mostrata la continuità storica fra quanto è stato testimoniato dagli apostoli e la testimonianza – vita della Chiesa. Si noti bene: continuità “storica”. Che non è la fissità di una realtà inorganica. E’ questo un esercizio della ragione non “neutrale” e non-oggettivo, nel senso che nessuno può sostituire nessuno. L’uomo non sta di fronte alla testimonianza storica di Gesù Cristo come di fronte ad un problema meramente oggettivo. Ciò che viene testimoniato è il fatto che Gesù Cristo “pretende” di essere l’unica risposta interamente vera alla domanda di senso che è nel cuore dell’uomo.«Gesù Cristo pretende di cambiare e di poter cambiare in senso positivo assoluto per ogni uomo il senso stesso del rapporto finito-infinito, di tempo-eternità, di vita-morte, di società-singolo; di dolore-felicità, di angoscia-speranza …» [C. Fabro, op. cit. pag. 253].

È quindi di decisiva importanza cogliere la profonda diversità fra ciò che fonda la certezza scientifica e la certezza di quella proposizione. La prima si fonda a partire dal contenuto, dall’evidenza della struttura dell’oggetto; la seconda si fonda a partire dall’impegno della persona ossia dall’evidenza propria di una testimonianza. Ne deriva che la proposizione scientifica non concede spazio alla libertà, al contrario della conoscenza che è generata dal rapporto col testimone. La proposizione che enuncia la credibilità del fatto cristiano è il risultato non di un processo razionale puro, ma di un processo in cui è coinvolta tutta la persona.

Secondo momento: devo credere al «fatto cristiano». È la convinzione, è la percezione del “valore” che ha per me credere al «fatto cristiano»: senza questa intima convinzione l’atto di fede non sarebbe un atto umanamente ragionevole. È una sorta di “corrispondenza tra ciò che il «fatto cristiano» propone e ciò che il cuore dell’uomo desidera nel significato più profondo del termine. Pietro ha vissuto questa esperienza quando dice a Gesù: “tu solo hai parole di vita eterna”. Non è ancora la fede, poiché l’uomo può anche riconoscere che “è bene credere in Cristo” e poi non compiere l’atto di fede. Si ha in questo giudizio come una congiunzione fra la ragione e il cuore. È questa unità che oggi l’uomo occidentale fa molta fatica a recuperare. Chi ha capito questo forse per primo è stato Pascal, e tutta la sua riflessione nasce da questa situazione, volendo indicare l’itinerario per recuperare quell’unità: le ragioni del cuore.

Vorrei fare tre osservazioni conclusive. La prima è che in senso stretto la ragionevolezza della fede implica per sé solo il secondo giudizio, nel quale per altro è implicito anche il primo. Se infatti una persona credesse senza avere l’intima convinzione della bontà della sua scelta, compirebbe un atto libero ma contro ragione. Ma la bontà intuita nell’atto di credere è quella insita nel rapporto che si istituisce non genericamente nella religione, ma fra l’uomo e Dio in Cristo. Quindi questa intuizione implica la convinzione che il «fatto cristiano» sia credibile, non una “favola”.

La seconda. È questa la ragionevolezza propria della fede di tante persone: della maggior parte dei credenti. Molti di essi non fanno ricerche storiche o prolungate analisi filosofiche. Vivono la loro vita quotidiana incontrandosi con quelle fondamentali esperienze che non possono suscitare le fondamentali domande sulla vita: la morte di una persona cara; la sorte non rara dei giusti; il dolore degli innocenti… Vivendo in un contesto cristiano non può non chiedersi se quanto “ha imparato da bambino” è vero o falso. Inizia così normalmente il cammino della ragione verso la fede. Che può concludersi con una fede più “sentita”, perché messa alla prova dalle tribolazioni. Come si vede una tale fede è profondamente ragionevole: fa perno su un gesto di fiducia in una tradizione testimoniata; ed esperimenta che quanto è testimoniato è la risposta vera alla propria domanda.

La terza. C’è un solo modo di rendere impraticabile non la fede, ma prima ancora il cammino dell’uomo vero la fede: mutilare la ragione. Cioè: limitarne l’esercizio solo all’ambito dell’«oggettivo», del «verificabile». Ne deriva che «della propria fede un uomo è responsabile perché è responsabile delle proprie preferenze ed avversioni, delle proprie speranze ed opinioni, dal complesso delle quali la fede dipende … Ma in realtà, anche se la forza d’una prova non varia, varia all’infinito la probabilità antecedente che l’accompagna, a seconda della disposizione di spirito di chi la esamina» [J.H. Newmann, Opere, UTET, Torino 1988, pag. 608-609].

Mi piace concludere con un testo mirabile di un credente, Newmann: «La fede è in se stessa un atto intellettuale, e trae il proprio carattere dallo stato morale del soggetto… È … una presunzione, ma la presunzione di uno spirito serio, misurato, riflessivo, puro, affettuoso, e devoto» [ibid. pag. 651]. E di un grande sapiente pagano: «chi non spera, non troverà l’insperabile, perché è introvabile ed inaccessibile» [Eraclito, Fr.18 DK].

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ZENIT Staff

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