Aspetti etici della riproduzione post-mortem

ROMA, domenica, 10 ottobre 2004 (ZENIT.org).- Di seguito pubblichiamo per la rubrica di Bioetica l’intervento della dottoressa Claudia Navarini, docente della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.

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Sul quotidiano britannico “The Independent” del 4 ottobre 2004 è apparsa la notizia di una bimba, Grace, nata due anni e mezzo dopo la morte del padre da un procedimento di PAR (postmortem assisted reproduction). La legislazione britannica consente ufficialmente tale pratica di fecondazione fin dal 1990, quando fu emanato lo Human Fertilisation and Embriology Authority Act ( HFEA Act 1998), che recepiva e applicava alla fecondazione artificiale i contenuti della Convenzione Europea sui Diritti Umani (1950).

Secondo la normativa, la riproduzione post-mortem è ammessa quando ci sia una dichiarazione scritta del donatore, che esprime la sua volontà di sottoporsi all’estrazione dello sperma, alla sua eventuale crioconservazione e all’inseminazione della moglie (o alla fecondazione in vitro con ovuli della moglie). Il prelievo degli spermatozoi può avvenire in vita, con consenso attuale o anticipato (scritto), oppure dopo la morte, nelle prime ventiquattr’ore senza interventi conservativi sul cadavere, “più tardi” con cadavere supportato da respiratore. L’atto non specificava per quanto tempo gli spermatozoi raccolti possano essere conservati, e precisava che “un bambino concepito dopo la morte è ‘senza padre’ dal punto di vista legale” (Bahadur G. (2001), The Human Rights Act (1998) and its impact on reproductive issues, Hum. Repr. , 16, 785-789).

Nel dicembre del 2004, tuttavia, un emendamento allo HFAC Act ha apportato una significativa modifica, in conformità alla legge sui diritti umani ratificata nel 1998 (Human Rights Act 1998) ed entrata in vigore nel Regno Unito nel 2000, ovvero la facoltà di attribuire la paternità legale al bimbo concepito postumo, analogamente a quanto avviene per i figli nati postumi. Grace porterà dunque il cognome del padre.

Il fatto suscita alcune riflessioni. Fra le principali ragioni di ostilità addotte dall’opinione pubblica alla PAR vanno certamente annoverate le preoccupazioni relative al benessere del nascituro, a cui si affiancano altre problematiche etiche, come l’ambiguità del consenso previo del donatore, il problema del prelievo del seme nel morente o nel soggetto in coma e in stato vegetativo persistente, lo statuto legale del bambino, i risvolti deontologici per il medico, i conflitti di interessi (cfr. Strong C. et al. (2000), Ethics of postmortem sperm retrival, Hum. Repr. , 15, 739-745; Black D. (1997), Widow’s attempt to use her dead husband’s sperm, BMJ, 314, 143).

La questione centrale pare comunque essere la sorte dei bambini così generati, i quali non soltanto saranno per sempre privi del loro padre naturale (spesso di un padre tout court), ma apprenderanno prima o poi che il loro papà non esisteva più nemmeno al momento del loro concepimento.

La situazione, secondo G. Bahadur, non differisce sostanzialmente dalle nascite postume, appunto, in cui il padre (o più raramente la madre), muore prima che il bambino nasca: “in entrambi i casi, il bambino alla nascita sopporterà il peso di aver perso un genitore genetico”, con la conseguenza che “l’impatto psicologico sul bambino dovrebbe essere minimo, probabilmente compreso nell’ambito delle esperienze osservate in alcuni studi paralleli sulle famiglie monoparentali” (Bahadur G. (2002), Death and Conception, Hum. Repr. , 17, 2769-2775).

Si trascura così il fatto che tale “minimo” impatto psicologico riscontrabile nelle famiglie monoparentali, come pure nelle unioni omosessuali, riguarda il delicato meccanismo della formazione dell’identità personale, strettamente legata alla bipolarità sessuale dei genitori e all’identificazione con il genitore dello stesso sesso. Lo stesso Bahadur ammette che “non sono del tutto noti gli effetti che avrà sul bambino il fatto di essere stato ottenuto con la riproduzione postuma” (ibidem), mentre “le sole ricerche scientifiche attendibili su simili esperimenti pseudo-famigliari riportano in effetti dati inquietanti” (American College of Pediatricians, Homosexual Parenting: Is It Time For Change?, 22 gennaio 2004; cfr. C. Navarini, Gay marriage: le nuove minacce alla famiglia , 4 aprile 2004).

Il paragone con la nascita postuma, o eventualmente con la morte precoce di un genitore, d’altra parte, risulta fortemente fuorviante, perché tralascia una fondamentale differenza: simili situazioni famigliari “anomale”, che si discostano dalla realtà naturale della famiglia intesa come l’unione di un uomo e di una donna in un vincolo di amore esclusivo e indissolubile, non sono accidentali, frutto di eventi dolorosi non prevedibili e indesiderati, ma voluti come parte costitutiva del proprio progetto famigliare. Si giunge quindi al paradosso per cui la pretesa realizzazione di una “scelta d’amore”, quale è generare una nuova vita, si attua consapevolmente attraverso comportamenti che di fatto negano tale amore.

Non pare inoltre corretto giustificare, come fa Bahadur, il “bene” della riproduzione con il passaggio dalla non-esistenza all’esistenza: “un punto chiave è che le persone sono danneggiate soltanto se si causa loro una condizione peggiore di quella in cui si sarebbero altrimenti trovate […]. La pretesa secondo cui l’inseminazione post-mortem danneggerebbe i bambini portati all’esistenza, pertanto, equivale all’affermazione che i bambini si trovano in una condizione peggiore di quella che avrebbero avuto se non fossero stati creati. Ciò non ha alcun senso, perché si cerca di mettere a confronto la non esistenza con qualcosa che esiste” (Bahadur 2002: 2772).

Sul piano ontologico, l’esistente ha, senza dubbio, una dignità incomparabilmente superiore al non-esistente, come un ente di ragione (ad esempio un pensiero, una categoria astratta o i numeri). Non per nulla solo Dio, che è onnipotente, può creare dal nulla, cioè portare dalla non esistenza all’esistenza. Ciò che avviene nella riproduzione dal punto di vista biologico, infatti, non è una creazione – e in questo senso i bambini non sono “creati” dai genitori o dal medico o dal tecnico di laboratorio – ma un processo organico tipico di tutti gli esseri viventi, con differenze da genere a genere e da specie a specie.

La novità assoluta nella generazione di un nuovo essere umano non è costituita dalla particolare combinazione di geni post-fecondazione, che pure rappresenta un ingegnoso meccanismo per garantire all’individuo una precisa identità genetica, e tanto meno dal processo fecondativo in senso tecnico, ma dall’avvento istantaneo di una nuova persona nel momento dell’incontro dei gameti, una persona unica e irripetibile, con un’anima razionale che nessuna procedura di fecondazione può ottenere, e che per questo è direttamente creata da Dio (C. Navarini, La storia infinita del pre-embrione e la fecondazione artificiale, 19 settembre 2004).

Ma se la creazione di una nuova persona umana è sempre un bene, non altrettanto può dirsi della modalità con cui tale essere viene chiamato all’esistenza, e su cui – ma solo sulle modalità – ricade la responsabilità causale ed etica dei “produttori” di embrioni. Nella PAR, e in generale nella fecondazione artificiale, all’origine dell’atto creatore divino non sta un atto di amore coniugale, che dell’amore di Dio rappresenta appunto il segno, ma un atto orgoglioso dell’uomo che si attribuisce il potere di giocare con la vita umana¸ facendone un suo strumento di soddisfazione, di carriera, di studio, di guadagno.

Semmai, l’inizio di una nuova vita umana in vitro, o in una madre surrogat
a, o nella PAR rappresenta una prova ulteriore della misericordia e della fedeltà di Dio, che rispetta le leggi naturali sulla fecondazione umana anche quando sono inserite nell’atto violento con cui l’uomo snatura il concepimento e il senso della famiglia. In questo senso, si può certamente affermare che ogni nuova vita umana, anche quella dell’embrione in vitro, è voluta in quanto vita dal Creatore, ma non sono volute le modalità di attuazione di quel concepimento. Che è quanto dire: c’è una colpa in coloro che “forzano” la creazione, ma non in coloro che sono creati.

La PAR, in realtà, esprime emblematicamente la tendenza sottostante delle pratiche di fecondazione artificiale a mettersi al posto del Creatore, provando addirittura a varcare i confini della morte di un genitore – ma perché non anche di tutti e due, dato che gli ovuli e gli embrioni sono crioconservabili? – per realizzare una sorta di immortalità terrena fatta di materia genetica “riutilizzabile”, spesso nell’illusoria idea di perpetuare la vita del defunto attraverso la sua tardiva prole.

Non a caso si è spesso riscontrato che, nelle donne che richiedono la PAR con seme del marito defunto, gioca un ruolo importante il processo di elaborazione del lutto e l’idea di mantenere un legame più forte con la memoria dell’amato attraverso la generazione di un figlio postumo. Sorprendentemente, in questi casi il concepito, altre volte frainteso e ridotto a oggetto da manipolare, scegliere ed eliminare, viene chiaramente difeso nel suo statuto personale. In Sicilia, nel 1997, una donna che richiedeva l’impianto dei “suoi” embrioni crioconservati dopo la morte improvvisa del marito affermava senza mezzi termini: “Ci sono tre vite che mi aspettano, tre embrioni congelati che io considero figli […].” (G. Filetto, Sì, nascerà senza padre ma è il figlio che volevo, “La Repubblica”, 19 gennaio 1999).

[I lettori sono invitati a porre domande sui differenti temi di bioetica scrivendo all’indirizzo: bioetica@zenit.org. La dottoressa Navarini risponderà personalmente in forma pubblica e privata ai temi che verranno sollevati. Si prega di indicare il nome, le iniziali del cognome e la città di provenienza]

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ZENIT Staff

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