"Perché tutti siano uno" (Terza e ultima parte)

La fede in Cristo come fermento di unità. L’intervento di monsignor Piero Coda al convegno internazionale “La primavera della Chiesa e l’azione dello Spirito”

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Offriamo di seguito la terza e ultima parte dell’intervento di monsignor Piero Coda, preside dell’Istituto Universitario Sophia a Loppiano – Incisa in Val d’Arno (FI), al convegno internazionale “La primavera della Chiesa e l’azione dello Spirito”, svoltosi nei giorni scorsi a Roma presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.

***

5. Contempla Dio, innanzi tutto, come Colui che è tutto e solo e sempre Agápe[1]: dono e comunicazione di Sé affinché l’altro sia e possa diventare pienamente se stesso. «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi uno in noi» (Gv 17,21).

È questo, per Chiara, il significato di verità e di salvezza racchiuso nella fede in un Dio che è Padre, Figlio e Spirito Santo. Contemplare Dio come Trinità d’amore significa, infatti, non soltanto che Dio dice, a fatti: «è assolutamente bene che l’altro sia»[2], ma anche, e più ancora, che Egli vuole che l’altro diventi, in libero dono di risposta, “un altro se stesso”. Dio – scrive – è il primo che vive nei confronti dell’uomo il comandamento principe che gli ha proposto: «ama il prossimo tuo come te stesso». Perché Dio, appunto, è Amore: e amare è voler portare l’altro all’altezza di sé[3]– nella libertà e nella gioia della condivisione di tutto ciò che si è e di ciò che si ha.

Questa è la vita di unità del Dio Trinità d’amore[4] comunicata al mondo in Cristo. E con questo sguardo si può guardare agli uomini, alla storia, al cosmo, in tutto decifrando e promuovendo la grammatica e la sintassi di questo amore: l’amore umano e sociale che vive e si costruisce nel ritmo dell’amore trinitario. Amore che ama, è amato e fa uno in quella vita che è libertà e gioia: «Padre, che tutti siano uno come Io e Te siamo uno, affinché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21). L’unità via privilegiata della nuova evangelizzazione. Amore che ama anche là dove il senso è oscurato, stravolto, persino respinto, là e dove le relazioni son piagate dal conflitto, dall’indifferenza, dall’odio. Perché Dio stesso, nel Figlio fatto carne che ha condiviso la vicenda dell’uomo sino al grido dell’abbandono – vi s’è calato dentro, in tutto per riaccendere il senso e la vita.

Anche se ciò che questo provoca e chiede, spesso, lo possiamo solo credere e sperare – con fiducia e perseveranza – senza ancora vederlo in atto e senza intuire il come e il quando del suo dispiegarsi. Scrive Chiara:

«Ho sentito che sono stata creata in dono a chi mi sta vicino e chi mi sta vicino è stato creato da Dio in dono per me. Come il Padre della Trinità è tutto per il Figlio ed il Figlio è tutto per il Padre. Sulla terra tutto è in rapporto di amore con tutto: ogni cosa con ogni cosa. Bisogna esser l’Amore per trovar il filo d’oro fra gli esseri».

6. È questa la radice dell’umanesimo cristiano, l’umanesimo dell’ut unum sint, chiamato a fermentare la storia tutta degli uomini. Si tratta di risvegliare e portare a efficacia di esperienza e di prassi la logica del dono che abita la nostra coscienza e illumina la nostra mente di discepoli di Gesù. Quella logica che ci fa uomini e donne responsabili gli uni degli altri nel concreto della vita sociale, culturale, economica, politica. Sempre guardando al “chi è” di ogni persona nella sua straordinaria dignità e nel suo straordinario destino. Come scrive Benedetto XVI nella Caritas in veritate:

«La carità nella verità pone l’uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono. (…) L’essere umano è fatto per il dono, che ne esprime ed attua la dimensione di trascendenza. (…) La carità nella verità è una forza che costituisce la comunità, unifica gli uomini secondo modalità in cui non ci sono barriere né confini. La comunità degli uomini può essere costituita da noi stessi, ma non potrà mai con le sole sue forze essere una comunità pienamente fraterna né essere spinta oltre ogni confine, ossia diventare una comunità veramente universale: l’unità del genere umano, una comunione fraterna oltre ogni divisione, nasce dalla con-vocazione della parola di Dio-Amore» (n. 34).

Nello sguardo di Gesù, è questo l’umanesimo del «come in cielo così in terra», ch’egli invita a invocare con fiducia e a perseguire con determinazione nella preghiera del “Padre nostro” (cf. Mt 6,10). Umanesimo ingaggiato, nello stupore del dono così ricevuto, a edificare nelle opere e nei giorni dell’uomo non solo il “castello interiore” che custodisce e contempla la presenza di Dio nel cuore del singolo, ma insieme il “castello esteriore[5] in cui l’“amore vero e il vero amore” viene ad abitare non soltanto in ciascuno di noi, ma anche tra noi: uomini e donne che credono nella grandezza del comune destino disvelato al mondo in Cristo. Come insegna la Gaudium et spes:

«Iddio, che ha cura paterna di tutti, ha voluto che tutti gli uomini formassero una sola famiglia e si trattassero tra loro come fratelli. Tutti, infatti, creati ad immagine di Dio “che da un solo uomo ha prodotto l’intero genere umano affinché popolasse tutta la terra” (At 17,26), sono chiamati al medesimo fine, che è Dio stesso. (…) È evidente che ciò è di grande importanza per degli uomini sempre più dipendenti gli uni dagli altri e per un mondo che va sempre più verso l’unificazione. Anzi, il Signore Gesù, quando prega il Padre perché “tutti siano una cosa sola, come io e tu siamo una cosa sola” (Gv 17,21), aprendoci prospettive inaccessibili alla ragione umana, ci ha suggerito una certa similitudine tra l’unione delle Persone divine e l’unione dei figli di Dio nella verità e nell’amore. Questa similitudine manifesta che l’uomo, il quale in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stesso, non possa ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé» (n. 24). 

Qui – sottolinea Giovanni Paolo II – è il cuore dell’antropologia cristiana:

«Dio uno e trino, che in se stesso “esiste” come trascendente realtà di dono interpersonale, comunicandosi nello Spirito Santo come dono all’uomo, trasforma il mondo umano dal di dentro, dall’interno dei cuori e delle coscienze. Su questa via il mondo, reso partecipe del dono divino, diventa – come insegna il Concilio – “sempre più umano, sempre più profondamente umano”, mentre in esso matura, mediante i cuori e le coscienze degli uomini, il Regno in cui Dio sarà definitivamente “tutto in tutti”: come dono e amore. Dono e amore: è questa l’eterna potenza dell’aprirsi di Dio uno e trino all’uomo e al mondo, nello Spirito Santo» (Dominum et vivificantem, n. 59).

Certo, tale fede s’incarna qui ed ora nella realtà penultima e provvisoria del nostro cammino sempre tentativo e arrischiato. Un cammino che però è accompagnato e sostenuto dalla presenza dell’amore del Padre ed è destinato, in Gesù che ha vinto il peccato e la morte “una volta per tutte”, a sfociare in «cieli nuovi e terra nuova».

Un cammino che a tutti, in ogni caso, chiede non tanto e non solo di gestire ciò che siamo e viviamo e operiamo: ma di gestarlo insieme, e cioè, per così dire, di partorire in reciprocità d’intenti e azioni, passo dopo passo, incontro dopo incontro, progetto dopo progetto, la crescita di ciascuno e di tutti verso la statura matura e perfetta dell’Uomo compiuto (cf. Ef 4,13).

Questo, del resto, è lo stile ed è l’opera di Maria: che ha dato le sue carni e la sua vita al seme di una nuova umanità. E con ciò risplende ai nostri occhi come la Madre della Chiesa e la Madre dell’unità.

(La seconda par
te
è stata pubblicata ieri, domenica 19 maggio)

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NOTE

[1] Cf. M. Cerini, Dio Amore. Nell’esperienza e nel pensiero di Chiara Lubich, (I Prismi) Città Nuova, Roma 1995.

[2] Così si esprime H.U. von Balthasar nella sua Teo-drammatica, V, tr. it., Jaca Book, Milano 1996, p. 70.

[3] «Tutto ciò che Dio fa – spiega Chiara nel ’49 – è opera perfetta, perfetta come Dio, perciò trinitaria, che significa: Amorosa, cioè: portare il fratello, l’altro all’altezza di sé comunicando sé all’altro», e commenta: «L’amore, infatti, non può essere che trinitario».

[4] Per un’illustrazione della visione trinitaria di Chiara nel suo radicamento nella tradizione dogmatica e teologica e nella scia di luce tracciata dai grandi carismi, mi permetto rinviare al percorso tracciato nel breve saggio L’esperienza e l’intelligenza della fede in Dio Trinità. Da Sant’Agostino a Chiara Lubich, in “Nuova Umanità”, XXVIII (2006/5), 167, pp. 527-552, sviluppato in Dio che dice Amore. Lezioni di teologia, Città Nuova, Roma 2007 e Dalla Trinità. L’avvento di Dio tra storia e profezia, (Per-corsi di Sophia, 1) Città Nuova, Roma 2011, e più di recente ripreso, sotto il profilo socio-culturale, in Se l’uno è anche il suo altro, in P. Coda – M. Donà, La Trinità e il destino d’Europa, Città Nuova, Roma 2013. Di particolare luce, in proposito, l’opera di K. Hemmerle (che dall’inizio ha partecipato alla Scuola Abbà): dalle Tesi di ontologia trinitaria. Per un rinnovamento della filosofia cristiana, tr. it., Città Nuova, Roma 1986, sino all’ultimo suo libro, pubblicato postumo, Partire dall’unità. La Trinità come stile di vita e forma di pensiero,Città Nuova, Roma 1998, e il volume di G.M. Zanghì, Dio che è Amore. Trinità e vita in Cristo, Città Nuova, Roma 1991. Degno d’attenzione il fatto che la grande enciclica sociale di Benedetto XVI, Caritas in veritate (2009), pubblicata a commemorazione della Populorum progressio di Paolo VI, indichi nel mistero del Dio trinitario il focus, in ottica cristiana, di quel «nuovo slancio del pensiero» oggi necessario per affrontare la crisi del mondo contemporaneo dischiudendo un orizzonte spendibile di trasformazione (cf. nn. 54-55).

[5] L’espressione è di Chiara stessa e già ricorre nei suoi scritti del 1949. Richiama il simbolo del “castello interiore” creato da Teresa d’Avila per designare la mistica tesa ad accogliere nell’interiorità dell’anima – vista appunto come un “castello interiore” – la presenza di Dio Trinità promessa da Gesù (cf. Gv 14,23). Con il simbolo del “castello esteriore” Chiara intende esprimere l’originalità della mistica propiziata dal carisma dell’unità: dove Dio Trinità non viene ad abitare solo nell’anima di ciascuno, ma tra coloro che – anche qui secondo la promessa di Gesù – sono uniti nel suo Nome (cf. Mt 18,20) nella comunicazione piena, spiega Chiara, di Dio in sé a Dio nel fratello. Il che ha – come evidente – rilevanti implicazioni a livello culturale e sociale. Cf., su questo tema, la densa sintesi di G.M. Zanghì, Il castello esteriore, in “Nuova Umanità”, XXVI (2004/3-4), 153-154, pp. 371-376; e i saggi di J. Castellano Cervera, Il castello esteriore. Il “nuovo” nella spiritualità di Chiara Lubich, a cura di F. Ciardi, (Carismi, 2) Città Nuova, Roma 2011.

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ZENIT Staff

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