La vita e i suoi limiti: riflessioni bioetiche (parte II)

di don Giuseppe Zeppegno*

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ROMA, domenica, 25 settembre 2011 (ZENIT.org).- Passo ora alla riflessione circa il rispetto dovuto alla vita umana secondo la riflessione ecclesiale. Cito un documento che non parla di Stato Vegetativo (SV), ma che nelle sue parti iniziali mi pare che indichi molto chiaramente l’obiettivo che possiamo anche noi tenere presente: intangibilità della vita umana. La dichiarazione «Dignitas Personae» della Congregazione per la Dottrina della Fede, focalizzata sul tema della fecondazione medicalmente assistita, al primo paragrafo afferma: «Ad ogni essere umano, dal concepimento alla morte naturale, va riconosciuta la dignità di persona». E ancora: «Questo principio fondamentale, che esprime un grande “sì” alla vita umana, deve essere posto al centro della riflessione etica».

Altre fonti aiutano ad evidenziare che la Chiesa si pone, nell’ambito della questione della sofferenza, un obiettivo ben definito. Giovanni Paolo II, ad esempio, nella «Evangelium Vitae», la prima Enciclica interamente dedicata alla bioetica, al n° 65 aveva affermato: «Si dà certamente l’obbligo morale di curarsi e di farsi curare, ma tale obbligo deve misurarsi con le situazioni concrete; occorre cioè valutare se i mezzi terapeutici a disposizione siano oggettivamente proporzionati rispetto alle prospettive di miglioramento». Nello stesso paragrafo aveva aggiunto: «La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte». È ciò che ha messo in pratica lo stesso Pontefice, quando si è trovato al termine della sua esistenza, evitando ulteriori interventi che potevano essere null’altro che accanimento terapeutico. Chiediamoci: qual è la scelta di fondo di questi documenti? Sostanzialmente quella di evitare due antitetici fondamentalismi: quello tipico di chi sostiene che la vita debba essere difesa, anche a costo di cadere nel disastroso “accanimento terapeutico” che si oppone al naturale processo di morte prolungando con mezzi sproporzionati l’agonia; quello tipico di chi sostiene che ogni uomo ha il diritto di scegliere il tempo e il modo di procurarsi la morte arrivando a rifiutare ogni terapia ed anche le cure palliative.

Ritengo sia necessario ribadire i concetti sopra espressi perché troppo spesso alcuni sostengono che la Chiesa vuole il proseguimento della vita a tutti i costi. Non escludo che qualche ecclesiastico si esprima in questi termini, ma la sua è una riflessione non supportata dalla riflessione magisteriale.

La riflessione della Chiesa sulla proporzionalità delle cure è molto antica, ma sono in pochi a saperlo. Risale a Francisco de Vitoria (1483-1546), teologo morale che i più conoscono per quanto egli ha scritto sul diritto internazionale. Nel testo Relectiones Theologicae, pubblicato postumo (Lugduni, 1586), riferendosi alla Summa Theologiae di San Tommaso sostenne l’obbligo morale d’offrire al malato un’adeguata alimentazione e idratazione fino a quando l’assunzione di cibi e bevande è possibile senza eccessivo sforzo. Precisò inoltre che non vige l’obbligo morale di cercare tutti i mezzi medicinali; ci si può lecitamente accontentare di quelli comuni astenendosi dal dilapidare il patrimonio per sottoporsi a una terapia esosa. Affermazioni analoghe sono presenti nei seguenti documenti: Pio XII, Allocuzione, 24.XI.1957; Iura et bona, 1980: IV parte; Pontificio Consiglio Cor Unum, 1981: II parte; Catechismo della Chiesa Cattolica, par. 2278; XIV Assemblea Generale della PAV (25-27 febbraio 2008).

L‟ultimo documento tra quelli sopra citati offre una nuova comprensione della proporzionalità delle cure. Invita a considerare tre fasi di elaborazione del giudizio morale: la prima fase ha lo scopo di valutare la proporzionalità/sproporzionalità oggettiva di un determinato intervento; la seconda fase invece prevede la valutazione dell’ordinarietà/straordinarietà attenta alla soggettività del paziente; la terza fase offre un quadro sintetico delle prime due. Riunisce le valutazioni del medico (proporzionalità/sproporzionalità) con quelle del paziente (ordinarietà/straordinarietà). Ovviamente questo è possibile quando il malato è senziente. Per gli altri casi diventa necessario considerare attentamente quali sono le sue indicazioni eventualmente espresse in precedenza e interpretate da chi lo ha conosciuto profondamente.

Mi avvio alla conclusione presentando lo specifico insegnamento ecclesiale sulla cura delle persone in stato vegetativo. Un primo documento utile, anche se non tratta direttamente dello stato vegetativo, ma della rianimazione, fu redatto da Pio XII. Egli ha scritto più di 98 discorsi per i medici e gli operatori sanitari in genere. Certi principi da lui individuati sono utilissimi ancor oggi. Il 24 novembre 1957 ha affermato che «la rapidità con cui è necessario agire all’insorgere di un insulto cerebrale grave non permette di chiarire la gravità e l’eventuale irreparabilità del trauma subito. La doverosa prudenza pertanto giustifica la rianimazione».

Prosegue su questa linea un documento del 1980, redatto dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, «Iura et bona» (IV parte): «É legittimo sospendere i trattamenti anche quando si ravvisa l’approssimarsi imminente della morte e si riconosce che i mezzi usati procurano un prolungamento precario e penoso della vita. Il medico in questo caso è tenuto ad assolvere ancora il suo compito di assistenza offrendo le necessarie cure normali. La morte che apre la via all’immortalità, quando sta per giungere, deve essere accettata con dignità». In sostanza, la morte deve essere accettata come dimensione del vivere.

In tempi recenti questa riflessione fu stimolata soprattutto dai vescovi americani in quanto si trovarono per primi a discutere sugli stati vegetativi e sulla soluzione che alcune procedure giudiziarie avevano posto. In concomitanza con gli studi che venivano fatti in America, Giovanni Paolo II si è espresso in due discorsi. Nel 1998 durante la visita ad limina dei Vescovi della California, del Nevada e delle Hawaii e nel 2004 nel discorso alla Federazione Internazionale delle Associazioni dei Medici Cattolici e alla Pontificia Accademia per la Vita. Particolarmente discussa è stata la questione della somministrazione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale, la cosiddetta NIA: American Medical Association approvò la rimozione dei supporti vitali in chi presentava una situazione di irreversibilità (1981, 1990); President’s Commission for the Study of Ethical Problems in Medicine and Biomedical and Behavioral Research stabilì che la decisione di interrompere la NIA non deve essere determinata da pronunciamenti giudiziari, ma deve essere delegata unicamente ai decisori surrogati (1983); Council of Ethical and Judicial Affairs dell‟American Medical Association la definì trattamento medico sospendibile al pari di ogni altro trattamento (1986); Hasting Center (1987) espresse parere concorde alla sospensione.

Su questo tema in America sono stati condotti molti studi “bipartisan”. Quello che considero di maggior interesse è «Artificial Nutrition and Hydration – The New Catholic Debate» pubblicato nel 2008. I Vescovi americani dal canto loro, perplessi dalle dispute che il caso Terri Schiavo aveva procurato, decisero di interpellare la Congregazione per la Dottrina della Fede. Le loro domande pervennero in Vaticano l’11 luglio 2005 attraverso la lettera scritta da Mons. W. S. Skylstad. La risposta della Congregazione giunse il primo di agosto del 2007. Questa la risposta sul tema dell’alimentazione e dell’idratazione: «La somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. Essa è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente. In tal modo si ev
itano le sofferenze e la morte dovute all’inanizione e alla disidratazione. […] Un paziente in “stato vegetativo permanente” è una persona, con la sua dignità umana fondamentale, alla quale sono perciò dovute le cure ordinarie e proporzionate, che comprendono, in linea di principio, la somministrazione di acqua e cibo, anche per vie artificiali. […] La NIA può essere sospesa solo quando non ottiene più l’effetto proprio. Anche quando sussistesse scarsa probabilità di recupero, non si può decretare la morte di queste persone per fame e per sete. Tale scelta sarebbe un deliberato atto d’eutanasia per omissione».

Pertanto, solo nella fase della terminalità può essere giustificata l’interruzione della NIA. È evidente che la Chiesa invita a valutare – di fronte al letto del malato, quindi considerando il singolo caso clinico – non teorie generali, bensì ciò che è proporzionato in ogni fase della situazione clinica, arrivando anche alla sospensione di certi trattamenti quando non risultano più efficaci. Mai vige la logica dell’abbandono. Sussiste una abissale differenza tra l’aiutare a morire – ossia un intervento attivo o omissivo finalizzato a provocare la morte (il caso Englaro entra in questo tipo di dinamica) – e l’aiutare nel morire. Il medico ha l’obbligo morale di continuare a prendersi cura della vita del paziente accompagnandolo con la palliazione fino all’ultimo respiro. Negli ultimi frangenti non tutte le cure palliative sono utili. Desidero concludere il mio intervento citando la frase di una lettera di Marco Bettiol, un ragazzo morto giovanissimo a causa di una gravissima disabilità. Egli ha compiuto un percorso davvero grande sia dal punto di vista umano che spirituale. Seppur giovanissimo, ha colto il senso profondo della vita umana: «La vita è una strada che non si ferma quando vorremmo sederci, che molte volte non va nella direzione che avremmo desiderato, che spesso è così in salita da lasciarci senza fiato, ma che va affrontata con lo sguardo puntato sulla meta e non solo con il capo chino per non inciampare sui sassi che ci intralciano il cammino».

[La prima parte dell’articolo è stata pubblicata il 18 settembre]

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*Giuseppe Zeppegno, sacerdote della diocesi di Torino, è direttore scientifico del Master Universitario in Bioetica nella Sezione di Torino della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale e docente all’Istituto Superiore di Scienze Religiose. Ha ricoperto e ricopre incarichi di docenza anche presso il Ciclo istituzionale, il Ciclo di specializzazione in Teologia Morale e il Centro di formazione al Diaconato Permanente. Autore prolifico di libri ed articoli scientifici, è anche assistente ecclesiastico regionale dell’A.C.O.S. (Associazione Cattolica Operatori Sanitari) e assistente ecclesiastico dell’A.M.C.I. (Associazione, Medici Cattolici Italiani).

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ZENIT Staff

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