L’arte della personalità

Lo scultore bergamasco Mario Toffetti racconta la sua idea dell’arte

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ROMA, venerdì, 4 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo apparso sul numero di dicembre di Paulus, dedicato alla Seconda lettera a Timoteo e al tema “Paolo l’atleta”.

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«Dire di un artista che è allievo di questo o quell’altro, è un paravento. Bisogna usare come paragone le capacità di ognuno: perché ciascuno, bravo o meno, ha la sua personalità». E di personalità, lo scultore bergamasco Mario Toffetti, ne ha davvero tanta. Sincero fino alla ruvidezza, usa le parole come i suoi scalpelli: lasciano sempre un segno forte e chiaro, privo di ambiguità. Schiette e inequivocabili come sono pure le sue opere in marmo, bronzo, legno, alabastro. Nette, come lo è la sua scelta espressiva: quella dell’arte sacra, eminentemente figurativa. Ma con un’applicazione poliedrica, che abbraccia anche l’architettura e la pittura. Tra le sue opere più famose vanno ricordate il fonte battesimale per la Cappella Sistina e le tre anfore per gli oli utilizzati nella Messa crismale in Vaticano. Ci sono poi le grandi sculture, come il bronzo di papa Giovanni XXIII a Camaitino di Sotto il Monte o il gruppo in marmo rosa del Portogallo per la chiesa parrocchiale di Tabaka (Kenya). Moltissimi gli altari e gli amboni, tratti fuori da blocchi monolitici e levigati fino ad assumere la morbidezza e la dinamicità di un organismo vivente, entro cui s’iscrivono scene bibliche o storie di santi: si vedano la chiesa del Policlinico Gemelli di Roma o la basilica di Sant’Alessandro in Colonna (Bg). E infine ecco i maestosi portali in bronzo per le chiese di Cortenova, Aprilia, Vigevano, Bariano, per la Basilica bramantesca di Crema… e soprattutto la Porta del Giubileo realizzata per la Basilica di Santa Maria Maggiore in Roma.

La vera scuola e i veri maestri

Toffetti i suoi figli non li ha mandati a studiare all’Accademia. Ai titoli di studio non hai mai creduto: «Mi dicevano che senza il diploma non avrei fatto niente, e invece… io scolpisco, mentre quelli che stavano dietro al professore sono finiti tutti a insegnare». Li ha cresciuti alle sue maestranze, “in bottega”, come si faceva un tempo. Perché è in una bottega di marmorari, ci racconta, che lui ha imparato tutto: non presso artisti, ma alla scuola di semplici artigiani che conoscevano però il segreto dello scegliere il giusto blocco di pietra, di come tagliarlo e di come scolpirlo. «In Accademia – continua Toffetti – ci sono andato per qualche anno, alla buona. Ci ho imparato poco: qualcosa di architettura, qualcosa di anatomia, di scultura niente. T’insegnano troppo a copiare e poi quest’abitudine ti resta addosso per tutta la vita. Durante gli esercizi con l’argilla, ad esempio, io facevo la gamba della modella in certo modo e il professore ne tagliava sempre un pezzo. E io poi lo rimettevo al suo posto. Ci sono momenti in cui l’artista non può sottomettersi, altrimenti non crea. E alla fine tutto diventa solo un commercio». Questo è un punto fermo, per l’artista bergamasco: il Grande Peccato è non essere se stessi. Guai a copiare da altri, per moda o per comodo: allora l’anima dell’arte è smarrita per sempre, e rimane soltanto il gioco stanco della compravendita. Ed è anche per questo che Mario Toffetti non sopporta di venire paragonato ad altri artisti contemporanei, fossero pure i più affermati. A lui interessa essere Mario Toffetti, e nessun altro. E se proprio bisogna avere dei modelli, meglio puntare in alto. «Guarda i due pulpiti dell’Amadeo nel duomo di Cremona, scolpiti prima di Michelangelo: è allo stesso tempo moderno e anche classico! Uno così non ti porterà mai fuori strada. Se uno deve “peccare”, che pecchi lì. Ma seguire il mercato o lo stile in voga al momento… è sbagliatissimo. Invece devi trovare i tuoi tasti e seguire la tua strada. Io ho sempre fatto così».

A proposito di modelli, hai dato ai tuoi figli due nomi molto significativi: Michelangelo e Fidia…

«Sì, perché questi maestri della scultura sono i veri miti della storia, quelli che hanno superato i limiti e che resteranno per sempre! Una volta il cardinale Ruini mi disse che erano due nomi molto impegnativi. “Per forza! – ho risposto. – Proprio come voi, che vi chiamate come san Giovanni, san Giuseppe, san Pietro… così anch’io ho voluto onorare gli artisti, che sono santi anche loro”».

Ma come nascono le tue opere? da dove parti?

«Mi devono dare carta bianca. E poi uno crea, e basta, senza ascoltare tanti consigli o suggerimenti. L’artista deve sentire l’opera, la deve fare sua, in modo da metterne in primo piano le qualità essenziali… oppure nascono opere fatte solo di ornamenti… foglie, spighe di frumento… che sono piacevoli, ma non dicono niente. Bisogna essere originali, invece, sia nella scelta del tema che nella sua esecuzione. Ma non si tratta d’inventare: uno vede com’è la chiesa, quali sono i suoi spazi, e gli deve nascere spontaneo come è più adatto completarlo».

Mi sembra che ci sia un soggetto ricorrente a cui sei molto affezionato, cioè san Paolo…

«Ne ho realizzati sicuramente dieci o quindici, per non parlare dei tantissimi schizzi e bozzetti. Perché san Paolo mi entusiasma. A me piacciono i santi così, vigorosi, aggressivi anche, che hanno fede ma sono pratici e realizzano… non quelli “mollicci” che s’inchinano. E poi nella sua storia c’è movimento, dramma, energia, c’è l’uomo con tutta la sua responsabilità… insomma, lui aveva qualcosa di speciale e lo sento molto vicino, anche nel suo atteggiamento religioso». Tra i tanti “San Paolo” creati da Toffetti va sicuramente menzionato il monumento posto davanti la basilica dell’Apostolo a Damasco, commissionatogli dal Patriarcato: un’opera maestosa di bronzo e marmo, alta ben sette metri.

La bellezza invoca l’eternità

C’è un altro punto fermo nell’arte di Mario Toffetti, cioè l’idea che la bellezza è fatta per l’eternità. L’arte, se è veramente tale, resiste allo scorrere del tempo e attraversa i secoli, come il messaggio di un naufrago chiuso in una bottiglia. E ci spiega: «Le cose belle che il Padre Eterno ha fatto sono sempre state belle. È a queste cose che un artista si deve sempre più avvicinare, non al consumismo di galleria, spacciato per arte moderna, che oggi vale tantissimo e domani niente… invece una tela del Caravaggio non perde mai valore, perché lì c’è la vera arte. Lì esiste il Bello. E ogni artista, al di là delle sue capacità personali, non deve mai abbandonare il Bello! Il Bello è l’essenza di un’opera, insieme alla creatività. Mai deformare le figure. Mai. Soprattutto nell’arte sacra, non si devono fare “mostri”, anche se firmati da uno che va per la maggiore. Non si può rovinare il luogo della preghiera, la chiesa, perché quello è un luogo diverso da qualsiasi altro. E da Michelangelo in avanti le cose più belle hanno sempre preso forma nelle chiese». È a questo ideale di armonia che Toffetti si è sempre sforzato di rimanere fedele, concretizzandolo nelle sue opere architettoniche e scultoree. Se si entra negli spazi da lui concepiti, come la Cappella Papale del Santuario di Caravaggio (Bg) o la cappella affrescata nel santuario della Madonna della Bozzola (Pv), si avverte un’atmosfera di grande naturalezza. Le delicate linee tondeggianti che solcano le pareti e plasmano le forme danno l’impressione di trovarsi dentro lo scorrere placido di un fiume, o dentro un nembo, o nella corolla di un fiore. Anche nei grandi portali in bronzo le figure vigorose – anche spigolose, dure – si adagiano in un grembo di curve sobrie ed eleganti, che rendono il complesso composto ma al medesimo tempo dinamico. C’è proporzione, equilibrio, ma non la fredda staticità purtroppo comune a troppe chiese recenti. Il che mi spinge a una domanda…

Ti sembra si sia persa la cognizione
della bellezza nell’arte sacra contemporanea?

«Sì, e continuando sulla strada dell’astratto non si troverà mai uno sbocco. È un genere che può andare bene altrove, ma non in chiesa. Anche perché, altrimenti, uno non ci va più per pregare, ma per vedere le opere d’arte. Allora diventano musei. È consumismo. Invece, davanti al Bello, possiamo ammirare e allo stesso tempo pregare. Ma, se l’arte sacra è in decadenza, anche la Chiesa dovrebbe dare più istruzioni in materia…».

Dov’è che l’arte potrebbe ritrovare la sua identità?

«Proprio nel sacro. Perché nel sacro – anche se è un mistero – c’è il contenuto di tutto. I grandi artisti del passato si sono appoggiati al sacro proprio perché era la via migliore per eseguire un’opera d’arte grande nel tempo. L’arte della deformazione, invece, ne sarà sempre esclusa. I grandi credevano. Vedevano il Bello e per questo credevano. Non erano obbligati a farlo: lo sentivano».

Paolo Pegoraro

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ZENIT Staff

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