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Sono lieto di partecipare alla presentazione del I Volume dell’Opera Omnia del Santo Padre Benedetto XVI, e ringrazio i Promotori dell’iniziativa. Saluto con stima e cordialità gli Ospiti che sono intervenuti da Roma, il Prof. Gianmaria Vian, Direttore dell’Osservatore Romano e la Prof. Lucetta Scaraffia nota in campo non solo cattolico per i suoi interventi culturali e filosofici sempre puntuali e documentati.
Tutti oggi concordano nel riconoscere essere Papa Benedetto un grande teologo, con una invidiabile capacità di esporre con chiarezza il proprio pensiero. L’opera omnia, destinata a raccogliere in modo organico e sistematico il frutto della sua riflessione teologica, sta prendendo corpo e testimonia la fecondità e la profondità dei suoi studi. Potrebbe però sorprendere non poco il fatto che il primo volume pubblicato raccolga gli studi sulla liturgia: perché un grande teologo si occupa di liturgia? Non vi sono forse temi più rilevanti e meritevoli di interesse? Nel contesto culturale contemporaneo non sarebbe più utile impegnarsi nel mostrare la rilevanza della fede cristiana per la costruzione di una società più giusta e più rispettosa della dignità dell’uomo?
1. Liturgia e primato di Dio
A questi interrogativi risponde lo stesso Benedetto XVI nella prefazione al volume dedicato alla Teologia della liturgia. Partire dalla liturgia, in continuità con l’ordine cronologico delle Costituzioni del Concilio Vaticano II, significa mettere «inequivocabilmente in luce il primato di Dio, la priorità assoluta del tema “Dio”» (p. 5). Non possiamo non notare la sintonia di Papa Benedetto con le parole pronunciate da Paolo VI alla chiusura del secondo periodo del Concilio, mentre annunciava la promulgazione della Costituzione Sacrosanctum Concilium: «Noi vi ravvisiamo l’ossequio alla scala dei valori e dei doveri: Dio al primo posto; la preghiera prima nostra obbligazione; la liturgia prima fonte della vita divina a noi comunicata, prima scuola della nostra vita spirituale, primo dono che noi possiamo fare al popolo cristiano, con noi credente e orante, e primo invito al mondo, perché sciolga in preghiera beata e verace la muta sua lingua e senta l’ineffabile potenza rigeneratrice del cantare con noi le lodi divine e le speranze umane, per Cristo Signore e nello Spirito Santo»[1]. Comprendiamo bene allora che occuparsi di liturgia non significa dimenticare le difficoltà che la fede cristiana incontra oggi nel confronto con la cultura contemporanea, al contrario è alta testimonianza di ciò che costituisce il cuore della fede cristiana. Dichiara infatti il Concilio che la liturgia «è estremamente efficace perché i fedeli esprimano nella vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo e la genuina natura della vera Chiesa, che ha la caratteristica di essere umana e insieme divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell’azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e tuttavia pellegrina; e questo in modo che in essa ciò che è umano sia ordinato al divino e ad esso subordinato, ciò che è visibile all’invisibile, quello che è azione alla contemplazione e quello che è presente alla futura città che cerchiamo» (SC 2). Penso che queste espressioni di SC possano aiutare a comprendere in modo adeguato il pensiero di J. Ratzinger sul valore della liturgia come manifestazione al mondo del primato di Dio. La Chiesa infatti, quando celebra, si riconosce e si manifesta come realtà che non può essere ridotta al solo aspetto terreno e organizzativo. Nella celebrazione appare manifesto che il cuore pulsante della comunità cristiana è da ricercarsi “oltre” i confini di questo mondo. Non solo: nella celebrazione appare come tutto sia subordinato a questo “oltre”. Il linguaggio simbolico rituale è il più adatto ad esprimere e a custodire la priorità dell’azione di Dio nell’agire dell’uomo. Il rito infatti è azione umana: è l’uomo che compie azioni simboliche, pone gesti, pronuncia parole, si serve di elementi naturali (acqua, pane, vino, olio…). Al tempo stesso però l’uomo non “crea” il rito, lo riceve da una tradizione che ospita la fede di secoli dove «passato, presente e futuro si congiungono in un unico grande coro di preghiera» (Lettera ai Seminaristi, n. 2). E anche quando la Chiesa interviene nel modificare il rito pone in atto una particolarissima cautela in modo che «in qualche modo le nuove forme procedano organicamente dalle forme già esistenti» (SC 23). A questo proposito J. Ratzinger esplicita: «Se ora ci chiediamo ancora una volta che cosa sia il rito nell’ambito della liturgia cristiana, la risposta è questa: esso è espressione, divenuta forma, dell’ecclesialità e della comunitarietà della preghiera e dell’azione liturgica – una comunitarietà che supera la storia. In esso si concretizza il legame della liturgia con il soggetto vivente “Chiesa”, che a sua volta è caratterizzato dal legame con il profilo della fede cresciuto nella Tradizione apostolica» (p. 159).
Tutta questa attenzione e cura è costante richiamo al fatto che nella celebrazione accade molto di più di quanto noi stessi possiamo inventarci di volta in volta: «la semplicità dei segni nasconde l’abisso della santità di Dio»[2]. In questa luce va quindi compresa la preoccupazione di Benedetto XVI, autorevolmente espressa nell’esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis, di custodire il rito da manipolazioni indebite, che potrebbero essere indotte da una non corretta applicazione del dettato conciliare sulla partecipazione attiva dei fedeli (cf. in particolare n. 38). La celebrazione adeguata del rito, che scaturisce dall’obbedienza alle norme liturgiche, non è infatti residuo nostalgico di un ritualismo già dichiarato fuorviante da Pio XII nella Mediator Dei[3], ma immersione nel “noi” ecclesiale, sapiente utilizzo dei linguaggi propri del rito per esprimere l’incontro con il mistero di Dio: l’agire rituale della Chiesa è infatti un agire che dà spazio all’azione di Dio. Risuonano sempre attuali le parole di un grande maestro di J. Ratzinger, Romano Guardini: «Deve risvegliarsi il desiderio del grande stile della preghiera. La via però è quella della disciplina, della rinuncia alle piacevoli compiacenze; un lavoro severo, compiuto, nell’obbedienza alla Chiesa, su tutto il nostro essere e comportamento religioso»[4].
La liturgia, oltre ad esprimere la priorità assoluta di Dio, manifesta anche il suo essere il «Dio-con-noi». Scrive Benedetto XVI nella Deus caritas est: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (n. 1). Come negare che questo incontro è avvenuto per noi prima di tutto, in mysterio, nel giorno del nostro Battesimo? Nella liturgia si realizza ogni volta l’’incontro con Dio: è la storia della salvezza che continua nell’oggi della Chiesa (cf. SC 6). Commentando Dt 4,7 (“Quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?”), così si esprimeva a proposito della partecipazione alla Messa domenicale: «Il Signore ha reso il primo giorno della settimana il giorno suo, nel quale ci viene incontro, nel quale prepara la mensa per noi e ci invita a sé. Dalla frase dell’Antico Testamento, su cui stiamo riflettendo, deduciamo che gli Israeliti trovavano nella vicinanza di Dio non un peso, ma il motivo della loro fierezza e della loro gioia. In effetti, la comunione domenicale con il Signore non è un peso, ma è grazia, un dono che illumina tutta la settimana; defraudiamo noi stessi, se ad essa ci sottraiamo» (p. 550).
Infine, la liturgia esprime la
priorità di Dio anche mostrandosi come «liturgia di pellegrinaggio». Leggiamo in Lo spirito della liturgia. Un’introduzione: «la liturgia cristiana è, come abbiamo visto, liturgia della promessa adempiuta… ma essa rimane liturgia della speranza. Anch’essa porta ancora in sé il segno della provvisorietà. Il nuovo Tempio, non costruito da mani d’uomo, è presente, ma al contempo è ancora in costruzione. Il grande gesto dell’abbraccio che viene dal Crocifisso non è ancora giunto al suo traguardo, ma è solo cominciato. La liturgia cristiana è una liturgia in cammino, una liturgia di pellegrinaggio verso la trasformazione del mondo, che sarà compiuta quando Dio sarà “tutto in tutti”» (p. 61).
Il rito ha infatti la capacità di esprime questa tensione escatologica: esso non ha la pretesa di spiegare tutto, non sempre offre serenità e pace, anzi a volte produce inquietudine, ci mette di fronte alle nostre fragilità, ci addita una meta che non è mai pienamente raggiunta su questa terra, ha la pretesa di unirci all’assemblea del cielo che canta le lodi di Dio, «nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro salvatore Gesù Cristo».
2. Liturgia e interesse teologico-fondamentale
L’interesse per la liturgia del teologo Ratzinger è da leggersi poi alla luce della sua scelta di occuparsi di questioni di teologia fondamentale. Scrive nell’introduzione al volume che stiamo presentando: «La materia che scelsi fu la teologia fondamentale, perché prima di tutto volevo andare al fondo della domanda: perché noi crediamo? Ma in questa domanda fin dall’inizio era compresa intrinsecamente l’altra domanda, quella della giusta risposta da dare a Dio e quindi la domanda circa il culto divino. A partire da qui vanno compresi i miei lavori sulla liturgia. Il mio obiettivo non erano i problemi specifici della scienza liturgica, ma sempre l’ancoraggio della liturgia all’atto fondamentale della nostra fede e quindi anche il suo posto nell’insieme della nostra esistenza umana» (p. 6). È un obiettivo che merita qualche approfondimento. Qui il nostro Autore dichiara prima di tutto che occuparsi di liturgia non distoglie dalla domanda fondamentale sulla fede: la liturgia, unfatti, è ancorata all’atto fondamentale della nostra fede e della nostra esistenza.
Un saggio di non facile e immediata lettura contenuto nel nostro volume – La fondazione sacramentale dell’esistenza cristiana – è un’illuminante attuazione di quanto sopra enunciato. Alla domanda «che cosa fa realmente l’uomo che celebra il culto della Chiesa, i Sacramenti di Gesù Cristo?» e perché lo fa?, Ratzinger risponde: «Lo fa perché sa che, in quanto uomo, egli può incontrare Dio solo in modo umano. In modo umano però vuol dire: nella forma della comunione, della corporeità e della storicità. E lo fa perché sa che, in quanto uomo, egli non può disporre da sé quando e come e dove Dio gli si debba mostrare; sa di essere piuttosto colui che riceve, che dipende dall’autorità che gli vien data, autorità che non è lui a concedersi, ma che rappresenta il segno della libertà sovrana di Dio, il quale decide autonomamente il modo della sua presenza» (pp. 239-240). Celebrando i sacramenti l’uomo scopre come essi siano in sintonia con la propria esperienza di uomo, soprattutto con quelle particolari esperienze come la nascita, la morte, il pasto, la comunione sessuale tra uomo e donna, nelle quali si rende trasparente la realtà spirituale. Sono esperienze in cui l’uomo sperimenta che la materia e il corpo sono «fessure attraverso le quali l’eternità getta uno sguardo nel procedere uniforme della vita quotidiana» (p. 225).
I Sacramenti, però, al tempo stesso rivelano all’uomo anche la propria identità di essere che tende alla comunione, che vive nella corporeità e nella storia e che proprio «in modo umano» Dio gli si rende presente, e proprio nella storia dell’umanità la salvezza ha fatto irruzione con «quell’Uomo che al tempo stesso era Dio». Egli «si è inserito in questa dimensione orizzontale e così ha spalancato la prigione: la catena della dimensione orizzontale, che tiene legato l’uomo, è diventata in Cristo la fune di salvataggio che ci tira alla riva dell’eternità di Dio» (pp. 235-236). L’attenzione per la liturgia e per la dinamica del linguaggio simbolico-rituale offre, per J. Ratzinger, un prezioso apporto al fine di contrastare una lettura puramente funzionale della realtà, nella quale le cose sono viste soltanto come cose, per riguadagnare uno spazio a quella «trasparenza simbolica della realtà verso l’eterno» (p. 222).
3. Liturgia forma dell’esistenza
L’ultima parte de Lo spirito della liturgia. Una introduzione è titolata: «La forma liturgica». In essa l’Autore tratta del rito e dei riti, dei gesti, delle posizioni e degli atteggiamenti che il corpo assume nella celebrazione, della partecipazione attiva. In questo ultimo contesto è interessante notare come, riferendosi all’esercizio del corpo e alla disciplina degli sportivi richiamata dall’Apostolo Paolo, Ratzinger accosti la liturgia all’allenamento. Scrive: «È – diciamolo ancora una volta in modo diverso – un esercizio per imparare ad accogliere l’altro nella sua alterità, un allenamento all’amore – un allenamento ad accogliere il totalmente Altro, Dio, a lasciarsi plasmare ed usare da lui» (p. 167). Celebrare la liturgia è lasciarsi plasmare dal totalmente Altro, da Dio. La partecipazione alla liturgia è quindi sì attiva, ma al tempo stesso in un certo qual modo anche “passiva” o “iniziatica”. Porre l’attenzione anche alla dimensione iniziatica del rito liturgico, che significa prima di tutto non la riforma che la liturgia subisce nei propri riti, ma la riforma che la liturgia promuove con i propri riti, conduce nel cuore del mistero celebrato. È illuminate a questo proposito l’omelia pronunciata da Benedetto XVI a Colonia nella concelebrazione conclusiva della Giornata Mondiale della Gioventù (21 agosto 2005), dove legge il mistero dell’Eucaristia e della sua celebrazione attraverso la categoria della “trasformazione”: «Facendo del pane il suo Corpo e del vino il suo Sangue, Egli [Gesù] anticipa la sua morte, l’accetta nel suo intimo e la trasforma in un’azione di amore […]. È questa la trasformazione sostanziale che si realizzò nel cenacolo e che era destinata a suscitare un processo di trasformazioni il cui termine ultimo è la trasformazione del mondo fino a quella condizione in cui Dio sarà tutto in tutti (cf. 1Cor 15,28) […]. Questa prima fondamentale trasformazione della violenza in amore, della morte in vita trascina poi con sé le altre trasformazioni. Pane e vino diventano il suo Corpo e il suo Sangue. A questo punto però la trasformazione non deve fermarsi, anzi è qui che deve cominciare appieno. Il Corpo e il Sangue di Cristo sono dati a noi affinché noi stessi veniamo trasformati a nostra volta. Noi stessi dobbiamo diventare Corpo di Cristo, consanguinei a Lui. Tutti mangiamo l’unico pane, ma questo significa che tra noi diventiamo una cosa sola»[5].
In uno degli ultimi testi del Card. Ratzinger sulla liturgia, pubblicato alla vigilia della sua elezione alla Cattedra di Pietro, egli riprende questo concetto, ribadendo che nella liturgia Dio diventa dono per noi e così noi possiamo essere transustanziati con lui e trasformati a nostra volta in amore: «Il dono unico che Dio aspetta, l’unica cosa che non è ancora sua, è la nostra libertà, è la risposta del nostro amore. Dio ha creato un mondo libero, ha creato la libertà, ha creato così la possibilità di dire “sì” o “no”, come possibilità di fare un dono libero a Dio. L’unico e vero sacrificio può quindi essere soltanto il nostro “sì”, la gioia di essere uniti con Dio nell’amore […]. Un mondo umanizzato, un mondo nel q
uale l’amore è il segno di tutto, sarà il vero sacrificio. Solo così entriamo nel cuore del NT, perché la morte di Cristo non è una distruzione, non è la glorificazione della sofferenza, ma si qualifica come l’estremo gesto d’amore nel quale il Signore, con le sue braccia aperte, ci abbraccia e, come è detto nel Vangelo di Giovanni (cap. 12), ci “tira” nelle sue mani. Con questo amore, nel quale Dio si dona e diventa dono per noi, noi possiamo essere transustanziati con Lui e trasformati in amore con un “sì” libero»[6].
Siamo grati al teologo Ratzinger e al Papa Benedetto XVI per l’opera di profondo rinnovamento che porta avanti nella Chiesa, perché sia sempre più fedele al suo Signore e alla sua viva Tradizione. Con disarmante chiarezza e rigore, egli mette in luce, spiega e approfondisce la centralità che il Concilio Vaticano II ha affermato a proposito della sacra liturgia considerandola “fonte e culmine” della vita del cristiano, della vita e della missione della Chiesa. Con le parole di quella Assise mi è caro concludere questo mio intervento: “Il lavoro apostolico è ordinato a che tutti, diventati figli di Dio mediante la fede e il Battesimo, si riuniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa, prendano parte al Sacrificio e alla mensa del Signore” (SC 10).
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1) Paolo VI, Discorso a chiusura del secondo periodo del Concilio, in EV 1, pp. [127]-[129].
2) Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Ecclesia de Eucaristia (17 aprile 2003), n. 48.
3) «Non hanno, perciò, una esatta nozione della sacra liturgia coloro i quali la ritengono come una parte soltanto esterna e sensibile del culto divino o come un cerimoniale decorativo; né sbagliano di meno coloro i quali la considerano una mera somma di leggi e di precetti con i quali la Gerarchia ecclesiastica ordina il compimento dei riti». AAS 39 (1947), p. 532.
4) R. Guardini, Formazione liturgica, Ed. OR, Milano 1988, p. 98.
5) Cf il testo completo in: Benedetto XVI, La rivoluzione di Dio, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2005, pp. 69-76. Lo stesso concetto è ribadito in Deus caritas est, n. 13: «L’Eucaristia ci attira nell’atto oblativo di Gesù. Noi non riceviamo soltanto in modo statico il Logos incarnato, ma veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione» (cf. anche Sacramentum caritatis, 70).
6) J. Ratzinger, Il centro della liturgia cristiana, “Terra ambrosiana”, 46 (2005), pp. 17-21 (qui, p. 20).