Gesù chiede imitatori, non ammiratori

Esercizio di “ricerca della fede” per i giornalisti

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ROMA, mercoledì, 31 ottobre 2012 (ZENIT.org).– Riprendiamo la riflessione di monsignor Domenico Pompili, sottosegretario Cei e direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali, pubblicata oggi dal Copercom e svolta nel corso di un incontro tenutosi a Roma con i giornalisti.

Ogni mese, infatti, monsignor Pompili invita i giornalisti ad un incontro che si tiene presso il Monastero romano dei Santi Quattro Coronati.

Ospiti delle Monache Agostiniane ci si concede una mezz’ora per l’esercizio di “ricerca della fede” (con inizio alle ore 21,00), quindi dopo la compieta ci si ritrova per un momento informale dove ciascuno porta qualcosa da mangiare e da condividere.

Il prossimo appuntamento è fissato per il 28 novembre, stesso luogo, stessa ora. 

***

Uno di voi mi ha scritto dopo aver ricevuto la mail di invito per questa sera. “Carissimo don Domenico, solo una curiosità. In cosa consiste l’esercizio di ‘ricerca della fede’?”. Non gli ho risposto, aspettandolo qui stasera. Lo faccio ora. A partire da una preghiera che S. Kierkegaard pone all’inizio del suo sesto Esercizio del cristianesimo. Scrive il filosofo nato a Copenaghen nel 1813: ”Signore Gesù Cristo! Tu non sei venuto al mondo per essere servito e quindi neppure per farti ammirare o adorare nell’ammirazione. Tu eri la via e la vita. Tu hai chiesto solo “imitatori”. Risvegliaci, dunque, se ci siamo lasciati prendere dal torpore di questa seduzione, salvaci dall’errore di volerti ammirare o adorare nell’ammirazione invece di seguirti e assomigliare a Te”. E poi puntualizza:”Che differenza c’è quindi fra un ‘ammiratore’ e un ‘imitatore’? Un imitatore è ossia aspira ad essere ciò ch’egli ammira; un ammiratore invece rimane personalmente fuori”.

L’esercizio che ci accingiamo a compiere consiste nel mettersi in gioco personalmente, nell’uscire da una semplice ‘meditazione’ sulla fede, come direbbe ancora Kierkegaard che detestava questa forma di riduzione del cristianesimo, che lascia accuratamente ‘fuori’ il nostro ‘io’. Se c’è una cosa – al contrario –  che “la ricerca della fede” esige è che l’io si risvegli, senza nascondersi dietro a una terza persona, a un problema magari di ordine culturale. Mettersi in ricerca per l’io vuol dire battere un colpo, lasciare dietro di sé le convenzioni e i pregiudizi, esporsi al rischio di credere che costituisce la forma di esercizio più radicale della nostra libertà. Forse proprio la perdita dell’io – oggi affogato dentro una babele di sollecitazioni e di provocazioni – è la segreta radice del venir meno della ricerca che richiede uomini e donne capaci di esporsi in prima persona, accettando la fatica ma anche la suggestione della solitudine che è cosa ben diversa dall’isolamento. Non a caso Ignazio di Loyola che ha inventato gli “Esercizi spirituali’ proprio sull’esperienza personale insiste. E ne fa la condizione necessaria. Ad Alessio Fontana, che aveva chiesto una copia degli ES, Ignazio dopo averli spediti coglie l’occasione per ricordargli che: ”la forza e l’energia di questi esercizi consiste nella loro pratica effettiva. Il nome stesso lo indica”.

Spero di aver risposto alla curiosità di partenza. Volendo ora dare oggettività al nostro esercizio ho scelto di seguire ogni volta come avvio una pagina evangelica, quella della liturgia della domenica che segue al nostro incontro. Stasera ci lasciamo dunque ispirare da Mc, 10, 46-52. Ascoltiamo.

E giunsero a Gerico. Mentre partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. 47Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”. 48Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!”. 49 Gesù si fermò e disse: “Chiamatelo!”. Chiamarono il cieco, dicendogli: “Coraggio! Àlzati, ti chiama!”. 50Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: “Che cosa vuoi che io faccia per te?”. E il cieco gli rispose: “Rabbunì, che io veda di nuovo!”. 52 E Gesù gli disse: “Va’, la tua fede ti ha salvato”. E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.

<p>Il testo è come incorniciato dalla menzione del cieco che all’inizio “sedeva lungo la strada” e alla fine “lo seguiva lungo la strada”. Se nel primo caso c’è una sensazione di immobilità, nel secondo invece si percepisce un’azione che continua e si prolunga nel tempo. Il contesto della scena è quello in cui Gesù si è appena lamentato della durezza di cuore dei suoi che “hanno occhi e non vedono” (8,8).  Si intuisce così che la guarigione acquista la forza di un simbolo: qui è la fede dei discepoli che è in gioco. La fede che oggi è in crisi, quella per cui Dio scompare dall’orizzonte dell’umanità, è anzitutto quella dei credenti, i cui occhi sono incapaci di riconoscerne la presenza nella storia. Così almeno la pensa Benedetto XVI che ha indetto per questa ragione l’Anno della fede. Immaginare la vicenda raccontata da Marco nel suo stile asciutto e concreto ci aiuta a riscoprire tre situazioni che fanno emergere l’io rispetto alla ricerca della fede.

La prima è il grido stridulo, tenace e urticante che si leva in mezzo alla folla anonima che fa ressa attorno a Gesù. A differenza di tutti gli altri solo il cieco ha un nome ben preciso: Bartimeo (“figlio di Timeo”). Di lui si dice che se ne sta immobile mentre gli altri camminano e poiché non lavora è costretto a chiedere l’elemosina. La cecità però gli affina l’orecchio e appena avverte la presenza di Gesù si mette a gridare ad alta voce: ”Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”. C’è subito chi lo invita a tacere infastidito dal tono, ma anche dal pericolo che un tale appellativo possa procurare fastidi al Maestro nell’imminenza della pasqua. Sta di fatto che Bartimeo non si lascia scoraggiare, anzi grida ancora più forte.

Nonostante secoli di cultura del sospetto intorno alla fede come proiezione dei nostri bisogni, resta il fatto che l’uomo esce allo scoperto come Bartimeo solo quando è costretto a gridare. In condizioni normali siamo risucchiati dal conformismo e dal bon ton, ma quando siamo in una condizione di assoluta necessità l’io si ribella ed esce allo scoperto. Costi quel che costi. Sì, la fede nasce, ieri come oggi, da un grido. Come la vita a pensarci che nasce dal grido del bambino appena nato. Anche la fede nasce da un bisogno, talvolta persino dalla paura. Finché in noi preserviamo il grido, la speranza non è morta. Il grido, non la rabbia, il riconoscimento del nostro limite, della nostra inconsistenza, della nostra fragilità, è ciò che può far nascere il desiderio, la tensione verso l’inedito, l’apertura al nuovo nella nostra vita.

La seconda situazione è la fiducia. Stranamente il Maestro non chiama direttamente il cieco, ma lo manda a chiamare dai suoi. Ci saremmo aspettati che fosse lui a rivolgersi a Bartimeo e invece dice ai suoi: ”Chiamatelo”. Agli stessi per giunta che fino a poco prima lo stavano rimproverando perché tacesse. Di fatto si accostano e gli dicono:”Coraggio! Alzati, ti chiama”.

La caduta della fiducia nei nostri simili è una constatazione persino ovvia. Proprio la fiducia reciproca che oggi è in caduta libera spiega il regredire della fede. C’è un sottile legame tra la caduta di fiducia e la crisi della fede. Sarà per questo che il Maestro passa attraverso i suoi che quasi costringe ad entrare in contatto con il mendicante, la cui reazione è immediata: “gettato il suo mantello, balzò in piedi e venne da Ge
sù”. Per un povero il mantello era un po’ la sua ‘casa ambulante’ come capita di vedere tra i barboni alla stazione Termini. Sembrano cianfrusaglie, ma tutto, a ben guardare, ha una meticolosa forma di ordine. Eppure il cieco lascia indietro tutto e salta in piedi.

La fede provoca un balzo, cioè fa saltare le garanzie che ci siamo costruite addosso o anche fa attraversare le ferite e le delusioni che hanno segnato la nostra vita, soprattutto nelle relazioni personali. È un protendersi senza le certezze di sempre, lasciandosi guidare solo dalla vibrazioni captate nell’aria, magari dalla testimonianza di una persona che abbiamo incontrato.

L’ultima situazione è la consapevolezza di essere sempre in via, on the road. Colpisce in particolare l’invito del Maestro rivolto al cieco che finalmente ci vede: ”Va’, la tua fede ti ha salvato”. La vista riacquistata è qui sottintesa. Sembra quasi che non si voglia indulgere a mostrare il miracolo. Ma ci si concentra sulle conseguenze.  Bartimeo ormai è libero di muoversi e di andare dovunque voglia.

La fede è una via prima che una dottrina o semplicemente un’idea, chesi impara camminando dietro al Maestro, lasciandosi ispirare dalla sua esistenza.

È paradossale che proprio la fede, che non è tanto un ‘vedere’ fisico ma un ‘comprendere’ in senso più radicale, produca l’effetto di slegarci da una serie di condizionamenti negativi che ci bloccano per via.

La fede ci sottrae alla presa di un mondo piatto, senza sporgenze, e ci riapre le finestre dell’assoluto che si agita dentro di noi. La terra così riacquista profondità e l’uomo dignità.

La fede ci offre una conoscenza che è integrale, cioè non solo tecnica, ma sapienziale, cioè in grado di farci assaporare il gusto originario delle cose.

La fede, infine, non censura alcuna domanda. Neanche quella estrema sulla morte, ma la attraversa fino in fono, smascherando la società post-mortale.

Pure la fede – come del resto Bartimeo – è in via, cioè resta sempre in via di definizione e di assimilazione. Per questo la celebre preghiera del beato Card. Newman ci è necessaria:

“Guidami, Luce benigna, nel buio che mi circonda;
nera è la notte e ancora lontana la casa.
Non ti chiedo di vedere oltre e lontano:
solo passo dopo passo, ove posare il piede”.

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ZENIT Staff

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