C’è un film molto bello che sta girando per il mondo. Si intitola “In cammino per Santiago”. Narra la storia di un medico che, sconvolto per la morte del proprio figlio, affronta il celebre pellegrinaggio di 800 chilometri a piedi attraverso la Spagna per raggiungere il Santuario di Santiago a Compostella in Galizia, dove si trovano i resti mortali dell’apostolo San Giacomo (“Iago” in spagnolo). Il film è stato scritto e diretto da Emilio Estévez, attore, regista e sceneggiatore statunitense, che ha voluto come protagonista il proprio padre, Martin Sheen, e l’attrice canadese Deborah Kara Unger.
Dalle statistiche veniamo a sapere che sono circa 200 mila i pellegrini che, ogni anno, percorrono, a piedi, quel lungo “cammino”, che si snoda tra boschi, pianure e montagne. Gente comune, artigiani, mercanti, operai, impiegati, ma anche artisti, scrittori, politici, professionisti, scienziati. In genere, persone spinte da problemi interiori, spirituali. Ma anche persone agnostiche. Ecco una recente storia di uno di questi singolari pellegrini. Ma prima voglio ricordare ai lettori che cosa sia questo famoso pellegrinaggio e quali scopi abbia.
Quest’anno, il “Cammino per Santiago” festeggia 1200 anni. La consuetudine di recarsi in pellegrinaggio sulla tomba di San Giacomo a Compostella affonda le sue origine tra il 812 e 814, cioè subito dopo che in quella località vennero trovati i resti mortali dell’apostolo.
San Giacomo, fratello di Giovanni l’Evangelista, nei racconti dei Vangeli viene sempre nominato con Pietro e Giovanni. Era quindi uno dei più importanti dei dodici. Gli Atti degli Apostoli narrano che fu condannato da Agrippa I e venne decapitato a Gerusalemme nell’anno 42.
Secondo un’antica tradizione, dopo la morte di Gesù, Giacomo avrebbe diffuso il Vangelo in Spagna, ma non ci sono documenti attendibili che la sostengano. Ci sono invece molti e vari documenti storici riguardanti la scoperta, in Spagna, del sepolcro di San Giacomo. Si racconta che all’inizio del nono secolo, un anacoreta di nome Pelagio, che viveva in Galizia, in seguito a una visione luminosa abbia indicato il luogo dove si trovava il corpo del santo. Il vescovo Teodomiro di Iria Flavia, in un tempo non precisato ma che dovrebbe aggirarsi tra 812 e 814, si recò sul posto e, aperto il sepolcro, trovò quanto Pelagio aveva indicato.
La devozione a San Giacomo si diffuse rapidamente. Sulla tomba del Santo si verificavano miracoli e segni soprannaturali portentosi, che richiamavano pellegrini anche da altri Paesi d’Europa. San Giacomo divenne il santo più amato dagli iberici, protettore e patrono della Spagna. Nel 1075, a Compostella, sul luogo della tomba, iniziò la costruzione di una mastodontica basilica a lui dedicata, che continua ad essere la meta dei pellegrinaggi.
Nel Medioevo, i pellegrini viaggiavano a piedi. Poichè erano molti, provenienti da ogni parte della Spagna e dall’Europa, fu necessario creare una accurata organizzazione stradale e assistenziale, alla quale lavorarono vari re spagnoli, fiancheggiati dai vescovi e dagli Ordini Religiosi. Alcuni di quei percorsi, indicati con il termine di “Cammino per Santiago”, sono tuttora perfettamente funzionanti. Nel 1987, l’UNESCO ne ha riconosciuto l’importanza storica, culturale e spirituale, dichiarandoli “Patrimonio dell’Umanità”.
Marco Deambrogio, italiano, 48 anni è uno dei tanti pellegrini moderni del “cammino per Santiago”. E’ un viaggiatore di professione. Viaggia e scrive libri sui suoi viaggi. Le sue imprese, sempre in solitaria, sono leggendarie.
“Il viaggio che più mi ha “segnato” tra quelli da me compiuti”, dice “è stato proprio il “cammino per Santiago”. Non tanto per difficoltà fisiche, climatiche, logistiche che il lungo percorso presenta, ma per l’energia spirituale che vi ho trovato. Io sono partito in condizioni fisiche e morali disastrose. E sono tornato completamente cambiato. Quel viaggio ha rivoluzionato la mia esistenza”.
Marco Deambrogio vive a Valenza Po’, sulle colline del Monferrato, in una casetta solitaria, perduta tra le campagne.
“Fino al 2000 facevo il commerciante orafo, lavoravo in proprio e guadagnavo molto bene”, racconta. “Ma ero inquieto, insoddisfatto, triste”.
“In realtà, sono sempre stato inquieto, fin da bambino. Leggevo i romanzi di Emilio Salgari, di Jack London o di Louis Stevenson e sognavo di partire per l’avventura. A quattordici anni sono scappato di casa. Con il mio motorino mi sono allontanato di trecento chilometri e mi pareva di aver scalato l’Everest. Verso i trent’anni, quando già da un punto di vista professionale mi ero sistemato bene, cominciai a sfogare questo mio bisogno di evadere, dedicando le vacanze a lunghi viaggi. Alcuni sono diventati famosi. Nel 1999, ho raggiunto il polo Nord geografico con gli sci, diventando il quinto italiano nella storia a realizzare una simile tragitto. Sempre nel 1999 ho attraversato a piedi da solo la foresta pluviale della Nuova Guinea. Nel 2000 attraversai il deserto australiano a bordo di una vecchia jeep. Durante una breve sosta, vidi, a lato della pista, il rottame di una motocicletta, abbandonata lì da qualcuno che aveva tentato la traversata e aveva fallito. Fu una visione che mi colpì nel profondo. Qualcosa scattò dentro di me. Quella sera, avevo già preso la mia decisione. “Farò il giro del mondo con la moto”, mi dissi. “E lo farò da solo!”“
E lo fece davvero?
“Certamente. Lo feci nel 2001 e durò nove mesi. Attraversai l’America del sud, poi gli Stati Uniti fino all’Alaska. A bordo di un vecchio aereo cargo volai fino in Giappone, lo attraversai da cima a fondo e quindi percorsi le pianure dell’Asia, la Mongolia e la Russia, fino a raggiungere la Finlandia. Di lì, attraverso la Danimarca e la Germania tornai a casa.
“Da quel momento non ho più smesso di macinare chilometri con la mia moto. Nel 2002 ho viaggiato da Milano a Kabul per portare aiuti ad Emergency; nel 2004 sono partito da Venezia alla volta di Pechino, sulle orme di Marco Polo; nel 2005 ho attraversato i deserti di Australia, Nuova Zelanda e Tasmania”.
Perché ha voluto affrontare anche il “Cammino di Santiago”?
“Dopo i viaggi cui ho accennato, mi sono ammalato. Fui colpito da “fascite plantare bilaterale”, una brutta infiammazione dei tendini della pianta dei piedi, che mi impediva di camminare. Potevo farlo per brevissimi tratti e con dolori lancinanti. Consultai specialisti di ogni genere. Feci cure di tutti i tipi: antinfiammatori, laser terapia, onde d’urto, trattamenti osteopatici, massaggi plantari. Nessun risultato.
“Questa vicenda durò per anni. Quando ero sull’orlo della disperazione, non solo per il dolore, ma anche per il fatto che non potevo viaggiare, cominciai a pensare al “Cammino si Santiago”. Non so perché. Non mi ero mai interessato di quell’argomento. L’idea mi si presentò alla mente all’improvviso e divenne insistente. Mi rendevo conto che era un progetto impossibile, date le mie condizioni. Non riuscivo neppure a fare una piccola passeggiata vicino a casa, era quindi una pazzia affrontare a piedi un tragitto di 800 chilometri. Ma quel pensiero non mi abbandonava e a un certo momento decisi di partire”.
(La seconda e ultima parte segue domani, mercoledì 23 ottobre)